«Musulmani e senza leader, così l’Occidente li ha ignorati»
Michael Dillon intervistato da Giada Franchini 17 July 2009

C’erano stati dei segnali che lasciavano presagire che la situazione nella provincia dello Xinjiang sarebbe esplosa?

Dei segnali c’erano, ma non era prevedibile che la situazione sarebbe degenerata proprio ora. In passato ci sono stati episodi di violenza in varie parti nello Xinjiang, ma erano dieci anni che le dimostrazioni non raggiungevano un livello tale di violenza. Credo che molte persone in Cina pensassero che il problema degli uiguri fosse risolto. Invece era stato semplicemente nascosto e all’improvviso è esploso.

Concretamente, quali sono le politiche più allarmanti adottate da Pechino per assicurarsi il controllo sugli uiguri nella regione? Le autorità cinesi stanno davvero cancellando la cultura uigura, come la minoranza etnica sostiene?

L’aspetto più evidente è che nella maggior parte dello Xinjiang c’è una massiccia presenza militare. Per quanto riguarda l’erosione della cultura, la lingua parlata è salva: molte persone continuano a parlare uiguro, non cinese. Tuttavia, esiste un problema per lo uiguro scritto, la letteratura uigura: da decenni non può più fiorire liberamente. I libri pubblicati in uiguro sono sottoposti ad una rigida censura. Ogni autore che suggerisce l’idea di un East Turkestan indipendente viene incarcerato. C’è una seria soppressione della cultura uigura e la religione musulmana è parte di questo processo, benché le moschee nella regione siano poco attive.

Il controllo cinese nella regione autonoma passa anche attraverso le politiche d’immigrazione: gli uiguri si sentono degli assediati in casa. Com’è cambiata la demografia da quando lo Xinjiang è stato dichiarato parte della Cina?

La regione fa parte della Cina da oltre un secolo, è diventata una provincia cinese nel 1884, per cui il problema dell’immigrazione non è recente. Negli anni ’50 e ’60 la migrazione è stata piuttosto lenta. Quando, negli anni ’80, Pechino ha iniziato il programma di riforme economiche, la migrazione è incrementata, le persone si spostavano nella convizione di trovare lavoro facilmente. Negli anni ’50 e ’60 gli uiguri rappresentavano il ’70 per cento della popolazione dello Xinjiang, oggi non arrivano al 50 per cento.

Gli uiguri sono esclusi dallo sviluppo che sta investendo la Cina? Esiste un apartheid economico?

Sì, in parte perché il loro livello di istruzione spesso non è abbastanza elevato. Se non parlano e leggono in modo adeguato il cinese, non riescono a trovare lavoro. Ma esiste anche un’esclusione fondata su motivazioni etniche. I cinesi di etnia Han preferiscono lavorare con altri Han. Semplicemente, nella provincia esiste un forte razzismo anti-uiguro.

Le situazione nello Xinjiang è stata paragonata a quella nel Tibet, perché alla base di entrambe ci sono questioni etniche e religiose. Tuttavia la condizione degli uiguri è stata molto più ignorata dai paesi occidentali rispetto a quella tibetana. E’ per via di un pregiudizio anti-islamico sembra più diffuso da noi? Quali sono le diversità tra le due situazioni?

Una differenza sta certamente nel fatto che gli uiguri sono musulmani e i musulmani non godono di grandi simpatie al momento in Occidente. Tuttavia, la più grande differenza è che il Tibet ha un governo alternativo in esilio sotto il Dalai Lama. Per cui da sempre le autorità cinesi hanno puntato il dito contro il Dalai Lama, accusandolo di indebolire il loro controllo sul Tibet. E sappiamo bene che il Dalai Lama gode del supporto di molti tibetani. Nel caso dello Xinjiang non esiste qualcosa di simile. Gli uiguri guardano agli stati dell’Asia centrale, Kirghizistan, Uzbekistan e Kazakistan, come ad una terra-madre, ma nel loro caso non esiste alcun governo alternativo.

Tuttavia Pechino accusa gli uiguri della diaspora di aver orchestrato le recenti dimostrazioni. Sono accuse senza fondamento?

A me non sembrano credibili. Gli uiguri della diaspora non sono nella posizione di poter creare dimostrazioni di quella portata perché lo Xinjiang è una regione molto isolata e le comunicazioni non sono buone. La mia opinione è che quelle manifestazioni sono, se non spontanee, organizzate internamente. E’ vero che esistono organizzazioni nella diaspora uigura che supportano l’idea di uno Xinjiang indipendente e magari forniscono agli uiguri in Cina il necessario supporto morale, ma non credo che sosterrebbero atti del genere.

La maggior parte degli uiguri dello Xinjiang vorrebbe l’indipendenza da Pechino o si accontenerebbe di una minore oppressione e di un maggior rispetto dei propri diritti.

Certamente vogliono più rispetto, avere la possibilità di praticare la loro religione liberamente e un accesso più agevole al mondo del lavoro. Non desiderano più essere cittadini di seconda classe. Ma è difficile dire con certezza se la maggioranza è a favore dell’indipendenza. Quando si tenta di affrontare l’argomento, sono elusivi perché sono circondati da spie. Possiamo immaginare tuttavia che, come nel caso del Tibet, se fosssero messi di fronte alla possibilità di scelta gli uiguri preferirebbero essere governati da rappresentati della loro etnia che dai cinesi.

Il Tibet è ricco di uranio, lo Xinjiang lo è di petrolio e gas. Da un punto di vista geostrategico cosa rappresenta lo Xinjiang per Pechino?

Non c’è dubbio che il gas naturale dello Xinjiang sia molto importante per Pechino. Inoltre la Cina ha bisogno di controllare quella regione non solo perché confina con gli stati dell’Asia centrale, ma anche perché esiste un progetto di una Via della Seta moderna, una via commerciale eurasiatico-cinese, che dovrebbe attraversare proprio lo Xinjiang.

In passato ci sono stati attacchi terroristici nello Xinjiang. Pechino accusa gli uiguri di essere dei terroristi e di avere dei legami con Al Qaeda. Cosa ne pensa di questa presunta connessione?

Esistono numerose accuse che sostengono che gli uiguri abbiano dei contatti con Al Qaeda. Personalmente, però, non ho trovato prove di questi presunti contatti. Appaiono abbastanza improbabili anche perché stiamo parlando di musulmani diversi. La maggioranza degli uiguri segue il sufismo, mentre Al Qaeda è ispirata dal wahabismo saudita.

Il risentimento che ribolle tra gli uiguri sembra aver raggiunto però un livello preoccuppante. Crede che lo spettro della “minaccia terroristica”, che oggi Pechino agita con toni che a molti sembrano esagerati, potrebbe diventare presto una realtà? In altre parole, i metodi coercitivi delle autorità cinesi potrebbero diventare un’arma a doppio taglio per Pechino?

Temo che sia possible. Se il terrorismo tornerà a meterializzarsi nello Xinjiang sarà in parte colpa delle politiche del governo. Il problema è che l’unica tattica che Pechino conosce è quella della soppressione, della forza militare, delle incarcerazioni. Non è capace di negoziare, anche perché tutte le organizzazioni uigure sono illegali. Non esistono partiti politici legali o organizzazioni religiose che possano rappresentare gli uiguri presso il governo.

Il supporto accordato dagli Han dello Xinjiang alle autorità cinesi dimostra ancora una volta che l’autoritario sistema politico cinese funziona?

Sì, gradualmente la popolazione Han ha preso a sostenere il sistema politico perché vede che ne trae benefici sul piano economico. Ci sono persone critiche verso il potere, ma quando si arriva alla situazione nello Xinjiang le sole informazioni che i cinesi Han ricevono sono quelle governative, per cui non hanno un’opinione indipendente.

Crede che in qualche modo la diffusione di internet possa cambiare la situazione?

Sì, ma non è detto che sarà un cambiamento positivo. Basta guardare a quello che è successo recentemente. La scintilla che ha fatto scoppiare i disordini sembra, infatti, che sia stata una voce non confermata e partita dal web, che riguardava il presunto stupro di donne Han da parte di alcuni uiguri. 

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