La «Mit brennender Sorge», il grido di Pio XI
Emma Fattorini 25 November 2008

Questo articolo è tratto dal numero 94 della rivista Reset, che ha dedicato a Pio XI un dossier con interventi anche di Anna Foa e Silvana Truzzi. Per richiedere la rivista potete telefonare allo 06 68407012, o mandare una mail a resetmag@tin.it.

Emma Fattorini insegna Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. E’ autrice di Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa (Einaudi).

Ernst von Weizsaecker, per anni ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, sostiene nelle sue memorie che, «se Pio XI, così impulsivo ed energico, fosse vissuto un po’ più a lungo, si sarebbe arrivati con ogni probabilità a una rottura dei rapporti tra il Reich e la curia». Che la posizione di Pio XI, negli ultimi anni della sua vita, fosse di aperta e dichiarata rottura con il nazismo e per molti aspetti anche con il fascismo è cosa assai nota anche se poco studiata. La lettura proposta da Giovanni Miccoli trova significative conferme nella nuova documentazione archivistica: le relazioni della nunziatura tedesca con la segreteria di Stato confermano, arricchendolo di molti particolari, un atteggiamento diverso, meno disposto alla trattativa diplomatica di quanto non lo fossero Pacelli e la gran parte dell’episcopato tedesco.

Tra il 1937 e il 1939 si esplicita pienamente una differenza tra il pontefice e il suo segretario di Stato: il futuro Pio XII è sempre più deciso a seguire una via diplomatica di mediazione con il regime nazista – via che, del resto, cercherà di praticare appena salirà al soglio pontificio – mentre papa Ratti si rivela sempre più propenso alla rottura. Rottura che comunque non si consumerà perché lo stesso Pio XI non farà mai mancare la fiducia al suo insostituibile segretario di Stato, solerte esecutore anche delle sue intemperanze, e suo successore designato per gli anni bui che si stanno preparando: una sostanziale complicità che non cancella le profonde differenze.

Gli ultimi anni di vita di Pio XI possono considerarsi un laboratorio che getta luce sul rapporto del Vaticano e della Chiesa con i totalitarismi del Novecento. Seguire da vicino la maturazione di Pio XI ci consente di evitare alcune ingenue contrapposizioni, come quella che divide nettamente una posizione profetica e una diplomatica della Chiesa nei riguardi dei totalitarismi. Contrapposizione che nasce da un atteggiamento giudicante e giustiziere della storia ed essenzialmente proiettivo di una coscienza storica e ecclesiale successiva, maturata subito dopo la guerra e poi nella cultura conciliare. È solo allora infatti che viene acquisito, direi pienamente interiorizzato, quel rapporto della Chiesa con il mondo che la fa essere madre di tutti gli uomini e dunque non più solo preoccupata di difendere i suoi figli.

Per spiegare l’intransigenza di papa Ratti rispetto alla via diplomatica sempre ricercata da Pacelli, ad esempio, non serve tanto appellarsi alla categoria di profezia. La radice della condanna, che sale come in un crescendo negli ultimi tempi di vita di Pio XI, affonda piuttosto in una particolare radice teologica che, se non arriva a produrre pienamente una vera e propria teologia politica, certo matura sul terreno spirituale a partire da una idea «totalitaria» di Chiesa.

A questo proposito viene spesso citata una affermazione effettivamente illuminante di ciò che Pio XI aveva maturato circa «il totalitarismo», concetto quanto mai fluttuante e ambiguo, e cioè il discorso che Pio XI pronunciò il 18 settembre del 1938, nel pieno della crisi dei Sudeti, davanti ad una delegazione di sindacalisti cristiani francesi, in cui tocca «un punto di dottrina» particolarmente importante: la vera e profonda natura del conflitto tra Chiesa e totalitarismo, il fatto cioè che si tratta di due totalitarismi: «Così si dice un po’ dappertutto: tutto deve essere dello Stato; ed ecco lo Stato totalitario, come lo si chiama: nulla senza lo Stato, tutto allo Stato. E in questo caso ci sarebbe una grande usurpazione, poiché se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e di diritto – è il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle, dato che l’uomo è creatura del buon Dio».

La sua ecclesiologia «conservatrice», la sua formazione tradizionale, si coniugano con un sentire cristocentrico dal quale deduce una tale assoluta centralità della Chiesa che lo renderà immune, almeno nello spirito (perché sul piano pratico non sarà così), da vere «subalternità» ai totalitarismi fascista e nazista di cui pure aveva percepito l’iniziale consonanza. Da quella ispirazione ricaverà la convinzione che solo la Chiesa possa davvero trattare direttamente con le nazioni, senza attardarsi nelle mediazioni ad opera dei partiti cattolici. E sempre a partire da questa ecclesiologia giungerà, nel 1938, a percepire pienamente il carattere religioso dell’aggressione totalitaria, e capirà che proprio per questo non si potrà più mediare. Fino al 1936-37, il Vaticano pronuncia una condanna di neopaganesimo rivolta al nazismo già al momento della sua ascesa e in diversi momenti, soprattutto a proposito delle tesi contenute ne Il mito del XX secolo di Rosenberg.

Una sofferenza vissuta in solitudine

È con l’enciclica Mit brennender Sorge che si dischiude una nuova prospettiva teologica. È interessante vedere come e in che senso a partire dal 1938 questo atteggiamento critico cominci a riguardare anche il fascismo italiano, cosa che percepì bene il ministro Bottai quando, nel luglio del 1938, a proposito del discorso di Pacelli alle Settimane Sociali di Francia affermò che «la Chiesa prende posizione, progressivamente, contro lo Stato “totalitario”, fascista o non». Ma è nella sfida con il regime nazista che emerge la radice teologica di cui parlavamo: alla base dell’indignazione di papa Ratti non ci sono, ovviamente, i diritti dell’uomo, di improbabile sapore democratico-liberale, e neppure un generico e astratto appello ai principi evangelici, quanto una sorta di concorrenza obiettiva della Chiesa con la regressione totalitaria del concetto di Volk che assorbe completamente il rapporto comunità-persona nella statolatria nazista.

Gli ultimi anni del pontificato di Pio XI sono segnati da un crescente, acuto, forte sdegno: una vera e propria insofferenza, furiosa verso il nazismo e le complicità del fascismo con esso. È un tormento vissuto largamente in solitudine. Nel corso del 1937 e nei primi mesi del 1938 si fanno più frequenti i segni di scontro tra la Santa Sede e la Germania, soprattutto da parte di Pio XI: dall’enciclica di condanna Mit brennender Sorge all’elogio del papa al cardinale George Mundelein, l’Arcivescovo di Chicago che aveva letteralmente definito Hitler un imbianchino pazzo, all’allocuzione del Natale 1937, durissima nel tono e densa teologicamente, alla strigliata fatta al Cardinale di Vienna Theodor Innitzer, imponendogli di smentire pubblicamente il suo precedente entusiasmo verso l’Anschluss, fino all’azione più importante, quella di commissionare una enciclica contro l’antisemitismo che, con la sua morte, non vide mai la luce, per citare alcuni dei molti esempi possibili.

Segnali interessanti della crescente distanza tra il Vaticano e la Germania erano visibili ben prima del 1937, ma è in questo lasso di tempo, dall’enciclica «gridata dai tetti» a quella mancata, che si possono ricostruire tasselli importanti su eventi e personaggi protagonisti dell’avvicinamento tra l’Italia e la Germania. La crescente ostilità della Santa Sede verso la Germania è talmente evidente che potrà essere utilizzata dalla diplomazia italiana.

L’intransigenza di un papa malato

Dal Natale del 1936 alla Pasqua del 1937 Pio XI è molto malato e costretto ad una lunga immobilità. Il suo rapporto con la malattia sembra confermare come decadimento fisico e infermità possano accrescere la maturità interiore fino a suggerire grandi intuizioni spirituali: un percorso di consapevolezza psichica del concetto di limite che precede e accompagna un’accettazione spirituale della finitezza, della impermanenza, del mutare degli eventi e delle sorti umane. Giustamente Giacomo Martina aveva colto come la malattia, in riferimento a questi ultimi anni del pontefice, «fiaccando in qualche modo la fibra del papa e riducendone l’attività, l’induce a meditare a lungo sulle virtù della Croce, e sulla sua forza redentrice».

La crescente insofferenza verso il nazismo e la sua profonda delusione nei confronti del fascismo, in un carattere di per sé già sanguigno ed estroverso, sono stati spesso attribuiti alla malattia, quasi che la sua assoluta intransigenza fosse da attribuire all’età e al dolore fisico; circoscrivendola ad una vicenda largamente segnata dalla vicenda personale, si finiva così per sminuire la sua condanna dei totalitarismi. Il fatto che la sua ferma denuncia si fondasse su un intimo contatto con la sofferenza aggiunge, invece, maggiore forza e profondità a quella visione meno politica e più religiosa, a quel rifiuto della vanità delle potenze che segna la spiritualità del pontefice negli ultimi anni della sua vita. «Egli ripercorse con lo sguardo tutta l’opera e gli avvenimenti del suo pontificato, e nel silenzio e nella calma dovette compiere una specie di revisione, qualche cosa di intermedio tra la valutazione storica e l’esame di coscienza personale», aveva scritto Luigi Salvatorelli già alla fine degli anni Trenta.

L’incontro tra i tre cardinali

La genesi, gli antefatti e le diverse stesure della Mit brennender Sorge (negli Archivi segreti vaticani se ne riscontrano almeno quattro) lasciano ancora molte questioni da chiarire in attesa di una completa apertura degli archivi. Una di esse riguarda senz’altro il rapporto tra l’enciclica e la condanna dottrinale progettata sin dal 1934 dal rettore del Collegio tedesco di S. Maria dell’Anima, Alois Hudal (peraltro simpatizzante del nazismo), contenuta negli archivi del Sant’Uffizio e di cui ha bene ricostruito Philippe Chenaaux. Si sarebbe trattato di una condanna di principio, una sorta di Sillabo contro un’eresia moderna, una condanna dottrinale che probabilmente non avrebbe potuto avere lo stesso peso e la stessa efficacia di una condanna pastorale e diplomatica, come una vera e propria enciclica; del resto, Il mito del XX Secolo di Rosenberg era già stato messo all’Indice nel 1933. Gli aspetti più interessanti di questa progettata condanna dottrinale restano comunque il concetto di eresia che la sottintendeva e un più esplicito riferimento alle teoria della razza.

La Mit brennender fu preceduta dal noto incontro avvenuto a Roma il 17 gennaio del 1937 tra i tre cardinali tedeschi Bertram (Breslavia), Faulhaber (Monaco) e Schulte (Colonia) e due tra i vescovi più ostili al regime, quello di Berlino Konrad von Preysing, quello di Muenster, Clemens August von Galen, e il papa, che, sofferente, li riceve nella sua camera da letto. Nonostante la richiesta di Bertram, su esplicita richiesta di Pio XI, all’incontro non fu invitato monsignor Berning, l’arcivescovo di Osnabrueck che non si era dimesso dall’incarico di consigliere di Stato prussiano, come avrebbe voluto il papa.

Bertram e soprattutto Faulhaber, al quale Pacelli affiderà la stesura in tedesco, vogliono evitare lo scontro, suggerendo di limitarsi ad una lettera del papa ad Hitler e ai vescovi tedeschi. E, come disse Faulhaber, «la lettera pastorale del Santo Padre non può essere polemica. Nazionalsocialismo e partito non vanno assolutamente nominati; dogmatica irenica, con riferimento però ai rapporti tedeschi». La prima stesura manteneva questo spirito, pastorale, volutamente generale e generico, tale che non avrebbe mai suscitato le ire di Hitler; ma già nella seconda, raddoppiata di lunghezza, il tono e il taglio erano sferzanti, accusatori e del tutto espliciti. A Pacelli viene attribuito il rimaneggiamento più significativo, quello dall’esito così risoluto che smentirebbe la sua precedente preoccupazione a non volere toni troppo duri che avrebbero potuto mettere in crisi il Concordato.

Quanto e come ha contato la volontà del pontefice di esprimere finalmente una posizione inequivocabilmente ferma, che uscisse cioè dalla trattativa diplomatica estenuata tutta attestata nella difesa del Concordato per assumere, invece, anche nel linguaggio i toni di una condanna biblica che poco si preoccupava delle conseguenze politiche e diplomatiche? La prima parte dell’enciclica incentrata sul Concordato è da attribuirsi a Pacelli, mentre al cardinal Faulhaber spetta attuare la raccomandazione di Pio XI, cioè presentare la condanna dei totalitarismi in «una luce spirituale» nella seconda parte; ma, oltre che di Faulhaber, quanto c’è di Pacelli, quanto del papa o di altri nella stesura definitiva?

Contro la superbia delle nazioni

I pregnanti richiami all’Antico Testamento fanno pensare al momento spirituale vissuto dal papa. Ricevuto in udienza il 22 marzo, il cardinale francese Baudrillart riferisce: «Anche nel momento delle sue peggiori sofferenze, quando si placavano, se non poteva dormire, si sentiva in riposo e con il cervello attivo. Allora pensava alle tre encicliche che voleva scrivere. Le elaborava mentalmente, poi si faceva leggere e s’informava; a volte dettava. E così si preparava l’opera». Alcune osservazioni sull’uso dei testi biblici dell’enciclica sembrerebbero confermare il suo intervento: «Colui che abita nel cielo ride di loro» (Salmo 2,4); «…Davanti alla cui grandezza le nazioni sono come piccole gocce in un catino d’acqua» (Isaia 40,15); «Lo spirito di Dio soffia dove vuole» (Giov. 3,8); «…Dalle pietre può suscitare gli esecutori dei suoi disegni» (Matt. 3,9; Luca 3,8).

Le citazioni vetero e neotestamentarie sono così pregnanti e ricche, in quell’uso di Isaia nel minimizzare gli orgogli nazionali («Le nazioni sono piccole gocce in un catino d’acqua»); vi si legge una fierezza della fede, una passione profonda: c’è quella centralità del Cristo che, in questo caso, non è invocato per alimentare i vari culti al servizio della politica della Chiesa (valga per tutti il culto della Regalità di Cristo, la Quas primas dell’11 dicembre del 1926, che non aveva solo un valore religioso, ma una sua concreta traduzione politico-sociale); in quest’occasione Cristo è invocato contro la superbia delle nazioni quale unico, vero, antidoto anti-idolatrico.

Si conferma la convinzione «che in nessun caso la Chiesa poteva essere subordinata ai valori nazionali»: un’intuizione profonda, già alla base della condanna dell’Action française, che fu tutt’altro che una mera operazione di tattica politica, ma profondamente legata a quella sua precisa, pregnante idea di autonomia spirituale. L’allocuzione pontificia del 14 dicembre 1926 di condanna dell’Action française viene invece troppo spesso interpretata come semplice concessione tattica al governo francese per la ripresa di più distesi rapporti diplomatici dopo la tempesta della separazione all’inizio del secolo, e non, come invece fu, un tratto essenziale della concezione di Pio XI.

Alcuni brani celebri dell’enciclica, come quello sulla «genuina fede in Dio», dimostrano che il senso profondo, il nocciolo dell’enciclica è tutto volto a contrastare il carattere «religioso», idolatrico del nazismo: «Venerabili fratelli, abbiate un occhio particolarmente vigile, quando nozioni religiose vengono svuotate del loro contenuto genuino e applicate a significati profani»; «Sangue… razza… tali false monete non meritano di passare nel tesoro linguistico di un fedele cristiano»; o quando i nazisti sono chiamati «distruttori dell’occidente cristiano»; od ancora: «Quelle leggi che sopprimono o rendono difficile la professione e la pratica di questa fede sono in contrasto con il diritto naturale».

Una forte condanna

Il 12 aprile l’ambasciatore tedesco von Bergen invia a Pacelli una durissima nota di protesta contro l’enciclica, denunciando lo scardinamento del Concordato e l’irriconoscenza dimostrata dalla Chiesa verso il nazionalsocialismo per averla salvata dal bolscevismo. La risposta di Pacelli, una nota lunghissima del 30 aprile, è un capolavoro di argomentazioni diplomatiche sofisticate. Dal tono e dallo stile diametralmente opposto a quello di papa Ratti: come in una complementare divisione dei compiti o in una vera distinzione tra maggiore risolutezza e perdurante arrendevolezza?

Lo scontro tra Santa Sede e Germania, sembra voler suggerire Pacelli ad ogni passaggio, è circoscritto ad una rottura momentanea, non è che una «malattia», la quale non ha altro scopo che «una rapida, radicale e sicura guarigione». In base ai destinatari poi non si può dedurre che lo scopo sia politico e quindi l’accusa che sia un «tentativo di mobilitare il mondo contro la Germania è ingiustificata… chiara è l’intenzione religiosa, lontana da ogni tendenza politica»; e nel quarto punto sul bolscevismo si legge: «La Santa Sede non misconosce la grande importanza che spetta alla formazione di fronti politici di difesa, intrinsecamente sani e vitali contro il pericolo del bolscevismo ateo… non ha mai tralasciato nessuna occasione di consolidare e di perfezionare il fronte di difesa spirituale contro il bolscevismo… ma ciò non può costituire un lasciapassare per la tolleranza, nulla è più infondata della falsa idea che la difesa del bolscevismo possa essere fondata solo sulla forza esteriore e non spirituale».

Sul Concordato, Pacelli denuncia le ripetute violazioni tedesche e parla di una pazienza instancabile della Santa Sede, «che da molti fu ritenuta eccessiva», di approfittare di ogni minimo spiraglio di mediazione. Insomma, la risposta del segretario di Stato dà ancora credito al fatto che esistano componenti ragionevoli nel governo tedesco, e nella sostanza smentisce che lo spirito della Mit brennender sia veramente di scontro frontale. Ed invece lo scontro frontale c’era stato nelle modalità di divulgazione prima ancora che nei contenuti. La riservatezza totale con l’effetto sorpresa, la capillarità della diffusione (non un solo sacerdote si rifiutò di leggere il testo nell’omelia), lo straordinario effetto che ebbe sulla stampa internazionale, tutto concorse ad aumentare le reazioni furibonde del regime nazista. La preparazione del lancio ha l’andamento e il ritmo incalzante di una vera e propria operazione clandestina. La direttiva della Segreteria di Stato del 10 marzo chiede agli ordinari «di portare detta enciclica a conoscenza dei fedeli il più possibile contemporaneamente e fare giungere i pacchi per via sicura e nella maggiore possibile sollecitudine».

Il fatto che, soprattutto in Pio XI, bolscevismo e nazismo vengano sempre più associati nella condanna segna un cambiamento teologico-pastorale prima ancora che politico-diplomatico: la priorità non è più tanto fare fronte comune contro il bolscevismo (e infatti la politica della Santa Sede è accusata di indebolire il fronte antibolscevico). Non è più questa la motivazione di Pio XI: si fa strada nel pontefice la percezione di un diverso rapporto tra politica e religione, una sorta di urgenza anti-idolatrica che deve avere la meglio, che deve essere prioritaria su ogni altro tipo di considerazione e di opportunità politica, fosse pure quella tutt’altro che secondaria di difendersi dal bolscevismo. Per questo i meriti del nazionalsocialismo su questo fronte non rappresentano più in nessun modo una giustificazione. Per cui il richiamo che il Vaticano non vuole muovere un attacco politico ma religioso, sul quale Pio XI insisterà a più riprese e che sarà al centro dell’altra, grande, importante occasione di condanna, l’allocuzione del Natale 1937, non deve suonare come una diminutio, ma diventa, anzi, nello spirito del papa, un rafforzativo della condanna.

Insomma, l’enciclica contro il comunismo, la Divini redemptoris, promulgata negli stessi giorni, in cui il comunismo è considerato intrinsecamente perverso, senza possibilità di riscatto, «male assoluto», resta comunque una enciclica più cerebrale. All’apparenza più dura ma anche più dottrinale, meno appassionata e vibrante.

SUPPORT OUR WORK

 

Please consider giving a tax-free donation to Reset this year

Any amount will help show your support for our activities

In Europe and elsewhere
(Reset DOC)


In the US
(Reset Dialogues)


x