I gravi incidenti avvenuti al Cairo domenica 9 ottobre, nel corso dei quali hanno perso la vita ventiquattro cristiani copti (ma il numero potrebbe essere più alto), rappresentano un momento di preoccupante involuzione della “primavera egiziana” di cui si può cercare di individuare le responsabilità, e valutare i rischi, ma di cui è ancora prematuro prevedere le conseguenze.
Ridotto all’essenziale, l’episodio ruota intorno ad un affollato corteo che dal quartiere cairota di Shubra si dirigeva verso piazza Tahrir ed il centro della città, per protestare circa l’incendio di una chiesa copta, avvenuto nel villaggio di el Marinab ad Assuan, e rimasto impunito. Da quanto si desume dai racconti – peraltro assai confusi – il corteo, una volta giunto sul lungo Nilo all’altezza del centro, è stato aggredito da gruppi di facinorosi armati. Arrivato poi davanti alla sede della Televisione di Stato gli scontri tra i dimostranti copti ed i loro assalitori sono degenerati. A quel punto vi è stato un intervento dell’Esercito (non della Polizia, che di questi tempi in Egitto brilla per la sua assenza), un intervento molto brutale con l’uso di armi da fuoco e di blindati, che ha determinato, appunto, due dozzine di morti, forse di più e numerosi feriti. Le immagini dei blindati, lanciati a grande velocità, che investivano i manifestanti sono raccapriccianti. I resoconti fanno stato di cittadini musulmani scesi in strada per difendere i copti dall’attacco dei militari, e di altri musulmani, tra i quasi certamente dei salafiti, scesi in campo a fianco dei militari, contro i concittadini cristiani. Una situazione, quindi, molto confusa ed ambigua che viene a creare un grosso trauma in un momento molto delicato della transizione, a ridosso delle prime elezioni del post Mubarak, che avranno inizio, in varie fasi, a partire dalla fine di Novembre.
Siamo davanti ad un rigurgito dell’ostilità tra musulmani e cristiani in Egitto? Certamente le tensioni di sempre tra le due religioni si sono andate aggravando nell’ultimo periodo, ma non sembra questa la chiave di lettura di quanto è avvenuto. Non si è trattato infatti di uno scontro interconfessionale, ma di una deliberata provocazione nei confronti di una dimostrazione pacifica di cristiani copti, i quali sono poi stati brutalmente assaliti da unità militari.
È vero che, da sempre, i copti sono stati in Egitto cittadini di seconda classe. La legislazione in merito risale al periodo khediviale: i copti sono di fatto esclusi dalle cariche civili e militari più importanti, la costruzione di nuove Chiese ed il restauro delle antiche è sottoposto a autorizzazioni molto difficili da ottenere, le conversioni al cristianesimo sono represse pesantemente. Ma, entro questi limiti, le due religioni hanno convissuto per oltre mille anni e lo stillicidio di incidenti interconfessionali che si sono sempre verificati ha sempre avuto componenti tribali, legate a interessi locali o gelosie sociali.
Se mai, dal momento della caduta di Mubarak è stato chiaro il pericolo che forze esterne che avessero interessi contrari ad una evoluzione democratica dell’Egitto potessero utilizzare questa faglia della società egiziana per provocazioni mirate a far deragliare i progetti in corso. In effetti si è assistito in Egitto (come, d’altronde, anche in Tunisia) alla comparsa di attivi gruppi salafiti che hanno inscenato provocazioni anti cristiane, molto probabilmente (e questo è un eufemismo) finanziati ed appoggiati da regimi arabi del Golfo, per i quali una evoluzione dell’Egitto verso la democrazia rappresenta un pericolo diretto. La tensione interconfessionale appare quindi aumentata.
Ma, fatta la tara di questi ricorrenti incidenti, non si può dire che tra cristiani e musulmani egiziani vi sia una situazione di aperto scontro e contrasto. Il mondo musulmano egiziano è molto articolato. È vero che salafiti e Jama’a Islamyia sono apertamente anti cristiani, ma si tratta di gruppi di dimensioni ridotte. I Fratelli Musulmani, che da soli rappresentano forse il venti per cento della popolazione, mantengono un atteggiamento di separatezza, ma di pacifica convivenza. I movimenti Sufi (molto avverasati dagli islamisti) hanno anch’essi atteggiamenti amichevoli verso i copti e raccolgono anch’essi una porzione importante della popolazione. I successivi Sceicchi della Università di el Azhar si sono sempre espressi a favore della pacifica convivenza e contro ogni tipo di violenza interreligiosa.
Questa volta la provocazione sembra invece essere stata di altra natura e provenire da un’altra parte. La rimozione del Presidente Mubarak, e del suo gruppo familiare, non ha significato la sparizione del gruppo di potere socio-economico che si era formato all’ombra del regime. Si tratta di un folto gruppo di uomini di affari arricchitisi lavorando con articolazioni dello Stato, alti funzionari e alti dirigenti del Partito Nazionale Democratico corrotti, autorità locali il cui status sociale ed economico verrebbe direttamente minacciato da una democratizzazione del Paese. Fin dall’inizio della rivolta di piazza Tahrir hanno più volte assoldato centinaia di provocatori armati per creare incidenti in dimostrazioni dichiaratamente pacifiche, intimidire i dimostranti e giustificare l’intervento delle forze dell’ordine. È rimasta iconicamente famosa la loro irruzione in groppa a cammelli e cavalli in una delle prime manifestazioni di piazza Tahrir, episodio per cui è d’altronde in corso un processo ai possibili mandanti.
Questi epigoni del passato regime stanno organizzando vari partiti, di cui per il momento è difficile valutare la consistenza, per partecipare alle elezioni, cercando alleanze con altre forze più conservatrici, tra cui partiti islamici. Nel periodo più recente tuttavia questo settore della società si è trovato davanti ad una nuova minaccia. Sotto la pressione dei movimenti progressisti è stata infatti riesumata la “Treachery Law”, norma approvata all’epoca di Gamal Abd el Nasser per processare gli esponenti e profittatori del precedente regime monarchico e, in particolare, per privarli dei diritti politici. Vari Ministri di Mubarak e uomini di affari con essi collusi sono già sotto processo o riparati all’estero. La reazione promette di essere dura e decisa. Nel corso di una recente conferenza, cui hanno partecipato sei dei nuovi partiti che rappresentano questo settore della vita politica, un esponente dell’NDP ha dichiarato: “Non lasceremo il Paese alla gente di piazza Tahrir, abbiamo uomini che possono esercitare un completo controllo” , “Siamo in grado di incendiare l’Egitto”. È quindi molto probabile che la provocazione contro i dimostranti copti – che ripete d’altronde modelli già utilizzati dalla stessa parte politica – venga da questo settore politico ed abbia appunto lo scopo di attizzare le tensioni interreligiose per ostacolare il processo di transizione verso un regime più democratico. Anzi, che la responsabilità degli incidenti sia da attribuire a ex esponenti dell’NDP, lo ha affermato chiaramente la Guida dei Fratelli Musulmani, Mohamed Badie. L’attuale situazione è quindi delicatissima e basta davvero poco per destabilizzarla.
Ciò che sorprende però – ed è più difficile da spiegare – è la violenza della reazione dei militari (la polizia, ripeto, non ha svolto un ruolo di rilievo), e la loro scesa in campo contro i dimostranti copti che protestavano per un torto subito e, almeno fino a quel punto, erano stati le vittime di una grave aggressione. I morti ed i numerosi feriti sono stati quasi tutti copti, le persone arrestate anche, ed i giornali di proprietà statale, così come la televisione pubblica, hanno minimizzato gli incidenti ed attribuito la colpa ai cristiani. Sembra che una emittente televisiva di Stato abbia addirittura lanciato un appello alla cittadinanza incitandola a prendere le parti della polizia, cioè, in sostanza, a partecipare alla repressione della dimostrazione dei cristiani.
Sono fatti più facili da descrivere che da interpretare. È vero che il Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) ed il Governo hanno condannato le violenze (chi non lo avrebbe fatto!), hanno promesso una inchiesta ed hanno chiesto scusa alle famiglie delle vittime. Ma per la prima volta dall’inizio della transizione politica l’Esercito ha represso nel sangue una dimostrazione pacifica, sembra aver abbandonato del tutto la posizione di arbitro “super partes” che si era già andata erodendo negli ultimi mesi, e sembra averlo fatto a favore degli esponenti del regime del deposto Presidente Mubarak, ancora numerosi e potenti nel Paese.
Occorre ricordare a questo proposito che gli alti gradi militari erano essi stessi organici al regime di Mubarak il quale, attraverso una rete molto estesa di industrie militari e para-militari, li aveva implicati in importanti gestioni economico/industriali: il “military industrial complex” esiste anche in Egitto e non è di dimensioni trascurabili. Anche questo può costituire un importante elemento di giudizio.
La reazione dei media non governativi è stata molto forte e, a conferma delle considerazioni di cui sopra, non si è soffermata troppo sui problemi interconfessionali, ma ha sopratutto denunciato l’atteggiamento dei militari che detengono il potere (“Il Maresciallo Tantawi se ne deve andare”), formulato dubbi sulla capacità del Consiglio Supremo delle Forse Armate di governare la transizione (“lo SCAF riproduce i peggiori comportamenti del regime di Mubarak”), espresso preoccupazioni a proposito della correttezza e trasparenza delle prossime elezioni, e anche il timore che i militari le vogliano rinviare per gestire il potere direttamente. Questa ipotesi – che è stata suscitata da una passeggiata che lo stesso Maresciallo Tantawi, ripresa dalla televisione di Stato, ha fatto nelle vie del Cairo in abiti borghesi – appare improbabile se non impraticabile, ed è stata seccamente smentita da fonti militari. Ma vale la pena riportarla per dare la sensazione di una atmosfera. Nel clima concitato che si è creato sono da registrare anche articoli di stampa che fanno stato di divisioni all’interno dello SCAF tra generali favorevoli alla evoluzione democratica e fautori della restaurazione. Ma qui entriamo nel campo di insondabili (almeno per ora) misteri.
Per concludere, la prima impressione che si può trarre a qualche giorno dagli avvenimenti è di una netta perdita di legittimazione politica da parte del Consiglio Superiore delle Forze Armate, che ha in questi mesi consumato gran parte del prestigio e della fiducia di cui godeva all’inizio della transizione. Ma, a meno che i risultati delle elezioni non ci sorprendano, le nuove forze politiche egiziane continuano ad essere estremamente frammentate e largamente impreparate a gestire il potere. Non sfugge ad un osservatore attento che quando, negli scorsi giorni, si sono aperti i termini per la presentazione delle liste elettorali, i primi a farlo sono stati i partiti che si richiamano all’eredità dell’NDP di Mubarak. Evidentemente erano gli unici ad essere pronti.
Il processo di transizione alla democrazia appare ancora lungo. Le elezioni per la Camera dei Deputati e per la Shura inizieranno a fine novembre e si dovrebbero protrarre, in varie fasi, fino a febbraio. Il nuovo Parlamento dovrà nominare una Assemblea Costituente che avrà sei mesi per produrre una nuova Costituzione, il che significa che le elezioni presidenziali avranno probabilmente luogo nel 2013. Si tratta di una “road map” che è già stata modificata più volte e che richiede una visione politica ed una continuità di azione di cui si sono viste fino ad ora poche tracce. Le forze progressiste ed innovatrici che fino a poche settimane fa chiedevano un rallentamento del processo elettorale per avere il tempo di prepararvisi, oggi ne chiedono invece una accelerazione perché temono che la dirigenza militare possa promuoverne una involuzione.
Nel frattempo la situazione economica sta peggiorando rapidamente e gli incidenti di cui qui scriviamo assesteranno certamente un altro grave colpo al turismo, uno dei principali cespiti dell’economia del Paese. Si assiste in queste settimane ad una recrudescenza di scioperi e proteste sindacali che, al di là delle loro pur valide motivazioni, possono prestarsi anch’essi a provocazioni e strumentalizzazioni politiche.
È quindi possibile che – quando con il senno di poi ripercorreremo la storia di questi mesi – l’incidente del 9 ottobre venga considerato un punto di svolta della “primavera egiziana”.