Signor Oetker, Lei personalmente e da industriale, come ha reagito alla crisi in Egitto?
I primi due giorni abbiamo chiuso la fabbrica, dovevamo proteggere i nostri collaboratori. Abbiamo anche sventato un tentativo di saccheggio. Adesso siamo tornati al lavoro, soprattutto perché siamo nel pieno del raccolto delle fragole. Abbiamo superato ormai la crisi tunisina ma non è ancora finita, un cambio al vertice arriverà prima o poi anche nei paesi vicini. Penso alla Libia o allo Yemen, dove già sono scoppiati disordini.
Lei che ne ha fatto analizzare il mercato e i comportamenti sociali, ci può dire se esiste in Egitto un ceto medio in grado di costruire un futuro veramente democratico?
No, purtroppo per il momento non esiste un vero ceto medio, né dal punto di vista del benessere, né da quello demografico. Come negli altri paesi arabi, circa il 30 per cento della popolazione è rappresentata da giovani tra i 15 e i 29 anni. Una volta, per ogni donna si contavano in media 6-7 bambini. Oggi il rapporto è sceso a 3, che comunque è ancora il doppio rispetto a noi. C’è una fascia di popolazione giovane che cerca il suo spazio ma per la quale non c’è lavoro, e che si trova quindi a lottare per la sopravvivenza. Siamo dunque ancora molto lontani da un ceto medio. Anche in Spagna c’è un alto tasso di disoccupazione giovanile, ma lì i ragazzi vengono sostenuti dalle famiglie. Con due figli si può fare, ma non con cinque o più. Sarebbe un problema per qualsiasi governo. Mubarak chiaramente ha cercato di stabilizzare questa situazione. Il problema che è al cuore di questa rivoluzione dunque non è nuovo. Giovani senza futuro e prospettive, giovani che non hanno nulla da perdere sono stati da sempre il combustibile delle rivolte.
Il Suo contributo per portare maggiore crescita economica e formazione è dunque una chiave per un futuro migliore. Da quanto tempo Lei è impegnato in Egitto?
Negli ultimi dieci anni abbiamo creato un buon mercato in Egitto, assieme al nostro management del gruppo Hero e due straordinari partner di minoranza locali, di cui uno fino a poco tempo fa faceva parte del governo, e l’altro proveniva dall’opposizione liberal-conservatrice. La visione era quella di concentrare le competenze nel campo della trasformazione della frutta in Egitto e rifornire da qui il mercato dell’intera regione, cioè i 22 stati islamici. Il gruppo Hero vanta una lunga tradizione nella produzione di confetture, miele e succhi di frutta. Abbiamo ovviamente studiato con attenzione il mercato e la gente, per verificare se esistesse o meno nel nascente ceto medio una domanda per questo prodotto. Certo abbiamo dovuto produrre in maniera più economica, per adattarci al potere d’acquisto di un ceto medio che qui come detto è ristretto. Ma stiamo comunque costruendo il mercato. Alla fine ci sono 80 milioni di egiziani. Questo processo di costruzione del mercato vuol dire certamente che si vengono a creare dei posti di lavoro e che i collaboratori possono sviluppare una visione per il proprio futuro.
E l’Università Tedesca, la GUC, a cui Lei ha partecipato attivamente?
È stata messa in piedi dieci anni fa da un egiziano formatosi in Germania, il signor Mansour, e grazie a fondi egiziani e tedeschi. Io personalmente mi sono impegnato molto per questo progetto e ne è valsa la pensa. Oggi ci studiano 7mila studenti, la tendenza è crescente. La qualità accademica è molto elevata, e abbiamo un campus collegato con il mondo delle industrie, che ci vengono non solo per presentare i loro prodotti e macchinari, ma anche per formare gli studenti. La lingua d’uso è l’inglese, ma si insegna anche il tedesco. Li si sta favorendo la nascita di una classe media. Questo modello di interscambio è un modello di successo, di cui trae profitto tanto l’Egitto quanto noi. Una volta l’Università Americana del Cairo era qualcosa di molto speciale, una specie di unità d’élite. Oggi la situazione è cambiata, in favore dell’Università Tedesca.
Ma l’America ha comunque una grande influenza sull’Egitto?
L’influenza statunitense si sta indebolendo, 10-20 anni fa era molto più forte. Questo è dovuto da un lato agli Usa e alla loro attuale debolezza finanziaria, dall’altra alla loro perdita di credibilità e dunque delle loro fondamenta, ad esempio per la guerra in Iraq. L’influenza europea invece cresce lentamente ma costantemente. Se il nostro modello di università e di crescita economica si potesse moltiplicare, attraverso industrie come le mie ed altre, sarebbe già un gran risultato. Si sente qui la mancanza di una visione chiara, come abbiamo visto per la Turchia, e manca anche un programma di sviluppo con delle scadenze temporali precise.
Lei come vede i prossimi sviluppi? Mubarak se ne andrà?
Mubarak ha detto: “Io voglio morire in Egitto”. Per un nazionalista come lui, l’esilio è un disonore. A me sembra che l’esercito stia cercando di trovare un’uscita di scena dignitosa per Mubarak.
Che ruolo ha oggi l’esercito? Il suo potere è solo militare o anche economico?
Il potere effettivo da 60 anni risiede nell’esercito. Mubarak, Sadat e Nasser sono tutti andati al potere grazie all’esercito. L’esercito controlla anche ampi settori dell’economia, in più sono auto-produttori, proteggono l’approvvigionamento energetico, e l’agricoltura con le sue ampie sovvenzioni. Hanno anche mantenuto un profilo intelligente, evitando di intervenire se non in caso di estrema necessità. Ma certo la situazione non è molto chiara e pochi capiscono veramente quale ruolo giochi l’esercito in tutto ciò. Posso però immaginare che i militari vedrebbero di buon occhio un governo di unità nazionale, che comprenda le diverse forze politiche del paese.
Nel caso in cui si avvii un vero processo di democratizzazione, chi potrebbe guidarlo?
Non so proprio chi dovrebbe guidarlo. Si svilupperà comunque un lento processo democratico. Come soluzione potrei immaginarmi un governo di transizione. Tra gli ex-rivali di Mubarak ci sono delle ottime figure, per esempio Amr Mussa. El Baradei in un certo senso è andato in esilio per l’Agenzia atomica internazionale, Mussa come segretario generale della Lega araba. Né l’uno né l’altro sono perciò molto radicati a livello popolare. Anche l’attuale vicepresidente Omar Suleiman, l’ex capo dei servizi segreti, è un uomo molto forte. Chiaramente è legato a Mubarak, per questo potrebbe suscitare delle resistenze. Personalmente penso che il paese sarebbe pronto per un processo di democratizzazione.
Il modello democratico turco, che viene indicato oggi come esempio da seguire, sarebbe praticabile per l’Egitto?
In Turchia è stata la candidatura all’ingresso nell’Ue a fare da stimolo per lo sviluppo, per mobilitare il popolo e l’economia, e per imporre standard economici, politici e soprattutto giuridici simili. Certo, i diritti umani sono ancora una questione complicata in Turchia, e il problema della libertà di culto delle minoranze come ad esempio dei cristiani non è ancora risolto. Ciononostante ci troviamo di fronte ad uno sviluppo molto più avanzato. L’Egitto si trova all’incirca 15-20 anni più indietro rispetto alla Turchia dal punto di vista dello sviluppo. Ci troviamo di fronte a fasi di sviluppo totalmente diverse.
I nuovi mezzi di comunicazione hanno un ruolo importante?
Si certo, i mezzi di comunicazione velocizzano questo processo – gli smartphone, Facebook, Twitter. Ma il modo in cui si adoperano e che cosa si può ottenere con essi, per creare valore aggiunto nel paese, dipende anche da un diverso sistema educativo e da una formazione scolastica più completa. Il popolo deve imparare a pensare e ad agire in maniera più indipendente. Il livello di educazione delle masse è molto basso. Non so come si potrebbe velocizzare da fuori questo processo. Soprattutto servono dei leader con una visione, che tengano d’occhio il quadro economico e promuovano le cooperazioni. E serve una forte identificazione dei leader politici con il popolo.
Che cosa si può fare per sostenere lo sviluppo e il processo democratico?
L’Unione europea negli ultimi anni si è occupata di se stessa e della crisi. Deve tornare a porsi il problema di come riuscire a stimolare paesi come l’Egitto. L’era di Mubarak sta finendo, ma ci sarà una nuova dirigenza, non è ancora chiaro se si tratterà di un nuovo, predominante “faraone”. Questo comunque non sarebbe giusto, servirebbe una leadership più legittimata democraticamente. Questo processo deve essere sostenuto dalla comunità internazionale, cioè dall’Ue, dagli Usa e dalle Nazioni Unite. La Lega araba è troppo debole per realizzare qualsiasi visione, dall’idea di un mercato comune ad esempio sono ancora molto lontani, è tutto ancora molto nazionale. Anche l’Unione mediterranea non ha portato a delle risposte.
Il dottor Arend Oetker è Chairman e Presidente della Hero AG e della Schwartauer GmbH. Ricopre il ruolo di membro del comitato esecutivo o di presidente di svariate fondazioni tedesche: l’Associazione dei Donatori per la Promozione della Scienza e degli Studi Umanistici in Germania; la Fondazione Tedesca per la Ricerca DFG; l’Associazione dei Donatori per l’Economia Tedesca; L’Associazione Industriali Tedeschi; il Consiglio Tedesco per le Relazioni Estere DGAP; la Confederazione delle Associazioni dei Datori di Lavoro Tedeschi; la Società Max Planck per il Progresso della Scienza; la Fondazione Fritz Thyssen. Il dr. Oetker ha studiato gestione e amministrazione d’affari e scienza politica alle Università di Amburgo, Berlino e Colonia, ottenendo un dottorato di ricerca in scienza politica all’Università di Colonia. Ha studiato gestione di affari e scienza politica alla Freie Universität di Berlino.
Traduzione di Matteo Landricina