Una “dorsale verde” nell’ex Jugoslavia. Una sacca di islamismo militante, incastonata tra Bosnia, Macedonia e Kosovo, oltre che Albania, colma di guerriglieri pronti a essere arruolati in Afghanistan, in Iraq e sui vari fronti della guerra santa. Dopo l’11 settembre la stampa, italiana e internazionale, ha pubblicato numerose inchieste sul jihadismo nell’ex Jugoslavia, dipingendo una situazione allarmante.
Ma tale quadro risultò esagerato, viziato dalla voglia di scoop. Una generalizzazione mediatica in piena regola, secondo gli esperti. In certe occasioni si sono manifestati fenomeni radicali, ma l’Islam dell’ex Jugoslavia non ha affatto una natura jihadista. Né tanto meno, come la teoria della dorsale verde ha indotto a credere, una dimensione omogenea. Piuttosto, è un Islam molteplice: nelle forme, nei costumi e nelle tradizioni.
Riti e dottrine
Le comunità musulmane dell’ex Jugoslavia appartengono a quattro gruppi etno-linguistici, il principale dei quali è quello slavofono. I musulmani di etnia e lingua slava sono radicati prevalentemente in Bosnia e in misura minore in Kosovo e nelle regioni storiche del Sangiaccato serbo e del Sangiaccato montenegrino.
Accanto a quello slavo figurano i gruppi albanofono (diffuso in Kosovo, Macedonia e una piccola porzione di Montenegro), turcofono (localizzato in Macedonia e in alcuni territori del Kosovo) e rom, distribuito a macchia di leopardo in tutti i distretti della regione.
Anche dal punto di vista della giurisprudenza islamica le articolazioni sono plurime. La maggioranza delle comunità aderisce all’hanafismo, una delle quattro scuole del sunnismo. Dipende, questo, dal fatto che nell’impero ottomano, cui si deve il radicamento dell’Islam nei Balcani, era proprio l’hanafismo la scuola prevalente.
Gli altri rituali diffusi nella regione sono quello alevita e quello baktashi, senza contare la tradizione mistica del sufismo. Il quadro, come si diceva, è quindi molto frastagliato.
Il fattore identitario
A fronte della sua natura variegata, c’è comunque un tratto che accomuna l’Islam balcanico. Il fatto è che oggi la religione musulmana ha caratteristiche fortemente identitarie. In molti casi si evidenzia un legame tangibile tra l’adesione all’Islam, l’appartenenza a una comunità etnica e la “fede” in una causa nazionale.
La spiegazione di questo fenomeno risiede nei conflitti degli anni ‘90 e in senso più ampio nel processo di disgregazione della Jugoslavia. Lo sfaldamento di uno stato federale, la nascita di tante piccole patrie (sette a essere precisi) e le teorie etniche con cui sono state giustificate le guerre, hanno dato alle comunità musulmane una maggiore visibilità, trasformandone il ruolo e sancendone il passaggio da minoranza religiosa a espressione di una nazione o di uno stato-nazione, come qualche anno fa l’esperto francese Xavier Buogarel spiegava al sito Osservatorio Balcani e Caucaso, la testata più attenta, in Italia, ai fatti dell’oltre Adriatico.
È così che i musulmani di Bosnia hanno usato l’Islam, durante e dopo la guerra, allo scopo di marcare la loro precisa identità storico-culturale e differenziarsi dalle altre due etnie del paese, croati e serbi. In Macedonia, gli albanesi hanno riscoperto l’Islam con l’intenzione di rivendicare una maggiore compattezza davanti alla maggioranza slava, sebbene la loro fede non sia così solida. Nel Sangiaccato montenegrino e ancora di più in quello serbo si riscontra le stessa narrazione. Discorso analogo a quello macedone per il Kosovo, infine. Con una differenza: gli albanesi del Kosovo sono maggioranza nel paese.
Il caso bosniaco
La Bosnia è il contesto dove l’Islam ha maggiore presa. Sia in chiave numerica, visto che i bosgnacchi (così si autodefiniscono i musulmani della Bosnia) rappresentano la maggioranza della popolazione, sia politicamente, tenuto conto che durante e dopo la guerra l’Islam ha acquisito peso crescente nella sfera pubblica e valoriale. È il caso di ripercorrere brevemente le tappe di quest’evoluzione.
L’Islam politico emerge con forza, in Bosnia, quando nel 1970 Alija Izetbegovic, eletto presidente negli anni ’90, diffonde la Dichiarazione islamica, proponendo una sintesi più stretta tra religione e politica, comunque inserita in un contesto di accettazione della cultura occidentale e sprovvista dell’obiettivo finale del governo islamico. Ma tant’è: le autorità jugoslave lo mettono agli arresti.
Nel 1990-1991, quando sulla Bosnia iniziarono a soffiare i venti di guerra, la causa islamica si riaffacciò prepotentemente sulla scena e costituì il pilastro che sancì la rielaborazione identitaria della cultura bosgnacca. La religione divenne fattore unificante dei musulmani di Bosnia e strumento con cui distinguere la loro vicenda storico-culturale da quella dei serbi e dei croati.
A questa dinamica interna s’è affiancata, nel corso del conflitto, una penetrazione dell’Islam radicale internazionale. Diversi mujaheddin, provenienti più che altro dall’Arabia Saudita, arrivarono in Bosnia e si arruolarono nelle file dell’Armija, l’esercito bosgnacco, facendo – così sostengono numerosi esperti – le prove generali della guerra santa.
Dopo la firma della pace di Dayton alcuni si sono spostati sul fronte ceceno e in seguito su quelli iracheno e afghano. Altri, invece, sono rimasti in Bosnia, formando alcune sacche di islamismo radicale, tuttavia residuali e minoritarie.
Dopo l’11 settembre, l’Ue e il governo americano hanno esercitato pressioni su Sarajevo affinché espellesse gli ex veterani considerati pericolosi. L’élite politica bosgnacca ha in larga parte accolto le richieste euro-statunitensi.
Oggi, vent’anni dalla guerra, il connubio tra politica e religione, in Bosnia, è consolidato. Il clero ha molta influenza sull’élite politica – ma questo avviene ovunque nei Balcani, anche nei paesi ortodossi – e il Partito democratico d’azione (Sda), la principale formazione bosgnacca, fondata da Izetbegovic, ha una piattaforma impregnata di etica islamica. Ma non ci sono tracce di radicalismo. Né riferimenti alla sharia. Sarajevo, inoltre, la capitale del paese e la roccaforte dei musulmani, non è quella “Teheran d’Europa” che i serbi, propagandisticamente, descrivono. Ma – questo sì – è ormai è una città musulmana, nei ritmi della cultura e nei tempi della politica. L’epoca in cui, orgogliosamente, sfoggiava la fama di “Gerusalemme d’Europa” in virtù della coesistenza delle tradizioni serba, musulmana e croata, oltre che di quella ebraica, è un ricordo sbiadito.