“La prima cosa con la quale dobbiamo fare i conti è il vuoto istituzionale che abbiamo davanti ai nostri occhi” fa notare Obeidi che spiega che concetti come quelli di società civile, partiti e organizzazioni politiche sono ancora estranei alla cultura locale. Quando alla fine degli anni ’70 è nata la Jamahiriya, la repubblica delle masse, i partiti in Libia sono stati vietati e “non abbiamo mai avuto idea di cosa voglia dire fare parte di un’organizzazione di questo genere. Anche ora, dopo l’uscita di scena di Gheddafi, la gente continua ad aver paura del termine partito e preferisce parlare di movimenti o alleanze.”
In aggiunta, negli ultimi mesi è divenuto sempre più evidente che quello libico è uno stato enormemente diviso al suo interno. “All’inizio volevamo tutti una sola cosa: l’uscita di scena di Gheddafi e la fine del suo regime dispotico, ma ora le cose sono cambiate. Diversi gruppi si identificano in una città piuttosto che nell’altra e sono sempre di più le persone che parlano di federalismo” aggiunge Obeidi. A mostrarlo anche quanto accaduto a inizio marzo, quando un’assemblea delle tribù e delle milizie della Cirenaica si è riunita a Bengasi per dare vita al Consiglio provvisorio di Barqa (Cirenaica), chiedendo la piena autonomia da Tripoli. Così facendo l’Est si è autoproclamato una regione autonoma, mettendo a suo capo Ahmed al Zuabair, il pronipote di Re Idriss, l’ultimo monarca libico.
È proprio in questa regione che si trovano i porti più importanti e il più alto numero di giacimenti e di raffinerie di greggio. Anche se ce ne sono altri in Tripolitania, l’oasi del petrolio è in Cirenaica. È anche per questo motivo che la secessione di Barqa non è piaciuta né alla Tripolitania, la regione occidentale, né al Consiglio Nazionale Transitorio che ha fissato per giugno le elezioni di un’assemblea nazionale che avrà il compito di nominare il nuovo capo di governo e riscrivere la Costituzione.
“Quella libica è una società estremamente tribale e questo influisce su tutti gli aspetti della nostra vita” aggiunge Obeidi. “Basti pensare alla gestione della giustizia. Fino a ora erano le tribù a regolare i conti tra loro, adesso dobbiamo cambiare la mentalità e l’attitudine della gente per far capire che esiste un ente garante della giustizia di tutti i cittadini.”
Questi problemi si aggiungono a quello della demilitarizzazione della società. Da quando la guerra è finita, fra le varie milizie rivoluzionarie sono infatti scoppiati frequenti scontri a fuoco per il controllo dei depositi di armi. “Gli studenti all’università camminano armati e con divise mimetiche” spiega la professoressa, “ dobbiamo capire cosa fare con loro e con tutti gli altri ragazzi muniti di armi che si aggirano nel paese. Sarebbe il caso di farli confluire in un esercito nazionale.”
E se da un lato la Libia è ben lontana dall’unità, dall’altra lo è anche dal perdonare e dall’integrare nella nuova società che sta creando quanti hanno appoggiato il regime di Gheddafi. Negli ultimi mesi la situazione sembra essersi addirittura aggravata. A mostrarlo è anche l’accanimento contro la minoranza nera dei Tawargha, accusata di aver stuprato ed ucciso, per conto di Gheddafi, gli abitanti di Misurata.
Fino a dicembre questa minoranza viveva a 250km a est da Tripoli, a Tawargha, una città di trentacinquemila abitanti ora distrutta e deserta. “In Libia c’è ora un elemento di vendetta. Basti guardare le case di questa città bruciate e abbandonate. I suoi ex abitanti faranno fatica ad integrarsi nella nuova Libia.”
Infine ci sono problemi economici, perché “non riusciamo davvero a capire dove siano finite le ricchezze prodotte dal nostro paese negli ultimi anni. Siamo un popolo costretto, e ormai abituato, a uscire dai nostri confini per sottoporci a visite mediche, per riceve assistenza sanitaria e molte famiglie vanno all’estero costantemente” conclude Obeidi. “È evidente che le sfide alle quali dobbiamo rispondere sono numerose. Abbiamo fatto cadere il grande despota, ma ora è tutto da ricostruire.”