“Il liberalismo non è neutrale. Ma questa è la sua forza”
George Crowder 18 September 2007

Innanzitutto devo ammettere che provo una certa diffidenza quando sento dire che l’umanità è entrata in una nuova fase macrostorica che può essere ingabbiata in prefisso “post”. Ad esempio, l’idea marxista di “postcapitalismo” o la più recente concezione di “postmodernità”, intesa come presunto abbandono dei valori e della prospettiva dell’Illuminismo. Questi pomposi proclami fanno perdere fiducia nel tentativo stesso di individuare le epoche “post”. Vorrei poter annunciare l’avvento del “postpostismo”, ma forse anche questa definizione sarebbe discutibile.

È comunque lecito affermare che negli ultimi tempi in molte parti del mondo si è assistito a una sorta di riaffermazione delle idee religiose nella sfera pubblica. Un esempio quasi fin troppo ovvio da menzionare è l’ascesa dell’islamismo radicale insieme, forse, all’affermazione di forme meno radicali di islam in molti paesi. A tale fenomeno fa eco, in certa misura, il persistente vigore della destra cristiana negli Stati Uniti, incarnato dalle politiche e dalla retorica dell’amministrazione Bush. “Perfino nel momento della tragedia Dio è vicino”, proclamò il presidente Bush nel discorso sullo stato dell’Unione all’indomani dell’11 settembre.

Ma la religione dovrebbe giocare un ruolo maggiore nel dibattito pubblico? La posizione tradizionale della democrazia liberale è che introdurre la religione in politica è pericoloso. Tale concezione risale all’epoca delle guerre di religione in Europa da cui trasse origine il movimento a favore della tolleranza religiosa, precursore del liberalismo. Rilevando la devastazione che il tentativo di imporre l’ortodossia religiosa ai non credenti aveva causato, alcuni protoliberali come Locke e Bayle riconobbero che la religione era terreno di scontri profondi, laceranti e permanenti. Quindi ostinarsi malgrado ciò a imporre ad altri la propria religione è a un tempo crudele e vano. La risposta più umana e assennata è accettare che in questo ci sia disaccordo: lasciare le convinzioni religiose alla coscienza privata e limitare l’autorità coercitiva dello Stato a quelle questioni “pubbliche” – ad esempio le condizioni fondamentali per la sicurezza personale e collettiva – che più facilmente creano consenso.

Di recente, la dottrina della tolleranza è stata trasformata dai teorici liberali (come John Rawls) nel principio di “neutralità dello Stato”: lo Stato liberale proclama di non promuovere una concezione di vita buona particolare, sia essa religiosa o secolare, bensì di fondare le proprie politiche su argomenti che tendano a essere assolutamente incontrovertibili. Tale prospettiva potrebbe essere interpretata come l’espressione teorica dell’ideale americano di mantenere un solido “muro” di separazione tra Stato e Chiesa, sebbene alcuni aspetti dell’ideale neutralista si ritrovino anche nella pratica, diffusa altrove, di fornire sostegno pubblico alle istituzioni religiose, purché ciò avvenga in modo autenticamente imparziale. Ritengo che la posizione del liberalismo rispetto alla religione sia fondamentalmente corretta: immettere la religione nella politica, soprattutto nei principi costituzionali e nelle istituzioni basilari, è infatti pericoloso proprio per le ragioni illustrate dai liberali, da Locke a Rawls.

Ma la questione non si esaurisce qui, poiché talvolta si pone il seguente interrogativo: la posizione liberale non è essa stessa espressione di una determinata concezione di bene, nella fattispecie una concezione basata sui valori della libertà individuale e della tolleranza? E se è così, allora non è corretto affermare che il liberalismo non è, o meglio non può essere, completamente neutrale, dal momento che è fondato su una specifica interpretazione “onnicomprensiva” del bene che potrebbe, a giusta ragione, essere contestata da altre prospettive?

Tutto ciò è vero, in certa misura. È vero, ad esempio, che il liberalismo non è del tutto neutrale; ma se è per questo nessun sistema politico è assolutamente neutrale da un punto di vista filosofico ed etico. Nondimeno, il liberalismo può vantare un sistema di valori di rara e inusitata flessibilità, entro cui è possibile la convivenza pacifica tra le varie concezioni religiose e non. Certo, non si tratta di un accomodamento illimitato – esistono infatti pratiche che il liberalismo non può tollerare – ma è il meglio che possiamo fare. Il valore liberale fondamentale che rende possibile tutto ciò è, a mio avviso, l’autonomia personale: la facoltà di ciascuno di riflettere in modo critico sul proprio modus vivendi e quindi di scegliere autonomamente il proprio modus vivendi (compresa la religione). A quanti ritengono che questo sia incompatibile con la sensibilità religiosa, ribatto che il pensiero critico è compatibile con qualsiasi cosa, eccetto con le concezioni più fondamentaliste e irrazionali.

Se dunque l’autonomia personale è il fulcro del liberalismo, allora il liberalismo è compatibile con l’accomodamento della religione. Ma includere la religione non equivale a consentire che essa determini i principi basilari e le politiche pubbliche; anzi, è possibile accogliere religioni diverse solo nella misura in cui si evita proprio questo. Ciò non significa d’altra parte impedire che i leader esprimano pubblicamente le loro convinzioni religiose, a patto che però siano disposti a tollerare le critiche a tali convinzioni e che siano in grado di giustificare le proprie idee in termini accessibili a tutti i cittadini.

Per questo non concordo sul modo in cui Böckenförde pone il suo “dilemma”. Lo Stato liberale non promette affatto ai cittadini una libertà assoluta, intesa come autodeterminazione illimitata solo in base alla propria coscienza. Quel che voglio dire è che i liberali non promettono l’anarchia. Pur accordando un valore altissimo alla libertà individuale, i liberali stessi ammettono che spesso su questioni importanti non c’è accordo tra le persone (la religione, ad esempio), e che di conseguenza occorre trovare un modo per risolvere tali dispute; un modo che in ultima analisi, ove necessario, preveda anche il ricorso alla coercizione. Quel brano, tuttavia, sottende una questione più profonda del liberalismo: da un lato, qualsiasi società ha bisogno di puntelli etici e culturali; dall’altro, spesso si ritiene che lo Stato liberale tenda alla neutralità morale. Tutto ciò sembra suggerire che la moderazione morale del liberalismo costituisca una minaccia per le condizioni della sua stessa esistenza.

È questa una preoccupazione ben nota, che nel passato è stata espressa più volte: ad esempio, nel XIX secolo dai critici del saggio Sulla libertà di Mill o da Tocqueville ne La democrazia in America, e prima ancora nel XVIII secolo da pensatori come Burke, i quali ritenevano che qualsiasi minaccia alla religione equivalesse a una minaccia al tessuto morale della società. Tale questione si ritrova nel pensiero di molti marxisti e socialisti, e soprattutto fa parte dell’armamentario dialettico dei conservatori; è inoltre fonte di inquietudine anche per i liberali, in particolare per alcuni pensatori contemporanei statunitensi. Eppure, ribadisco che a mio avviso Böckenförde ha sopravvalutato la questione, come del resto hanno fatto molti dei critici che ho menzionato. È vero infatti che i liberali cercano di evitare che lo Stato predichi una morale particolare, contestabile, specie se si tratta di una morale fondata sulla religione, ma ciò non significa che il liberalismo manchi di una propria base morale. Al contrario, la concezione dei diritti umani è una dottrina morale oltremodo ricca e illuminante. Peraltro, gli ideali di autonomia personale, eguale trattamento e tolleranza (e quella più recente di reciproco rispetto) costituiscono di per sé ideali etici fondamentali in nome dei quali molti si sono sacrificati.

Per giunta, i valori generali del liberalismo vengono spesso espressi in forme particolari, locali che le persone alla fine identificano – e con le quali si identificano – quali aspetti della propria cultura. Ad esempio, quelli che in Australia vengono spesso celebrati come “valori australiani” (la chance e il mateship, “cameratismo”, sono gli esempi più noti) si rivelano a un’analisi più attenta la declinazione locale di valori liberaldemocratici (eguaglianza delle opportunità e mutua assistenza). Storicamente le società liberali hanno dimostrato di essere capaci di difendersi dagli oppositori sia interni che esterni, e sia sul piano militare che etico. Ciò non necessita di una base religiosa, sebbene come ho gia detto il liberalismo accolga la maggior parte delle religioni. E anche i fedeli possono riuscire ad argomentare le loro motivazioni religiose ricorrendo ai valori liberali. Tale questione è stata sottolineata da Rawls nel suo ultimo libro, e peraltro coincide con l’affermazione di Amartya Sen secondo cui correnti di pensiero liberali possono essere rintracciate in molte illustri culture. Il liberalismo non è un mero contenitore neutrale: è una solida visione della morale e della politica. Ma al contempo ha un potenziale universale assolutamente raro.

George Crowder insegna alla Scuola di Studi Politici e internazionali della Flinders University (Adelaide, Australia). Tra i suoi libri: The One and the Many: Reading Isaiah Berlin (con Henry Hardy, 2006).

Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Reset, numero 101.

SUPPORT OUR WORK

 

Please consider giving a tax-free donation to Reset this year

Any amount will help show your support for our activities

In Europe and elsewhere
(Reset DOC)


In the US
(Reset Dialogues)


x