Secondo l’UNHCR, l’Agenzia Onu per i Rifugiati, il numero di rifugiati in territorio Libanese è raddoppiato dall’inizio di agosto, e ad oggi i siriani registrati sono quasi 73mila, comprese le persone in fase di identificazione, che sono circa 20mila. E come ha ricordato il Primo Ministro all’Assemblea dell’Onu, il paese sta ancora cercando di far fronte alle conseguenze della guerra del 1948 e alla diaspora palestinese.
Oggi in Libano ci sono ancora 12 campi dei profughi nati allora, popolati da in prevalenza palestinesi, che rappresentano il 10% dell’intera popolazione del paese, ma oggi sempre più anche da libanesi del sud, fuggiti dalla guerra dei trentatré giorni del 2006, iracheni, siriani. Si tratta di Beddawi, Burj Barajneh, Burj Shemali, Dbayeh, Ein El Hillweh, El Buss, Mar Elias, Mieh Mieh, Nahr El Bared, Rashidieh, Shatila e Wavel.
Shatila sorge nel tessuto urbano di Beirut, nella periferia sud, ed è il più tristemente noto per il massacro del 1982. Oggi la popolazione non solo è duplicata rispetto a trent’anni fa, ma si è anche diversificata. Secondo il Comitato Popolare, ormai solo il 60% degli abitanti è di origine palestinese, il restante 40% si compone di siriani, libanesi, curdi e rom.
Burj Barajneh, periferia sud di Beirut, fa parte dei campi creati nel 1948 dalla Croce Rossa Internazionale, e ha sopportato un peso enorme durante la guerra civile. Resta uno dei campi più popolati e in condizioni più difficili; nel 2009 l’Unione Europea ha attivato un progetto di recupero all’interno per sostituire la rete fognaria e ripensare l’approvvigionamento idrico, uno dei problemi comuni a tutti i campi.
Sempre vicino alla capitale, dodici km ad est, c’è Dbayeh, nato nel 1956 per accogliere i rifugiati palestinesi che arrivavano dalla Galilea. Nel 1990, alla fine della guerra civile, era andato in gran parte distrutto. Anche il piccolo Mar Elias è a poca distanza da Beirut, ed è stato fondato dall’omonimo convento ortodosso nel 1952.
Beddawi è nato nel 1955, e sorge nel nord a cinque km da Tripoli. I sistemi idrico e fognario sono stati recentemente messi a posto dall’UNRWA, anche se il campo sconta ancora l’esodo del vicino Nahr El Bared durante gli scontri del 2007 fra i miliziani di Fatah Al Islam e l’esercito libanese, quando la popolazione passò dai 15 ai 30mila abitanti, anche se oggi si è tornati ai numeri di allora.
A tre km ad Est di Tiro sorge Burj Shemali, anche questo sorto nel 1948, dal 1955 sotto mandato Onu. La maggior parte dei rifugi andati distrutti negli anni della guerra civile sono stati ricostruiti con blocchi di cemento, e coperture di zinco. La popolazione registrata è di circa 19mila persone. Anche qui il sistema di drenaggio delle acque è stato finanziato dall’Unione Europea. Oggi il campo è dotato, secondo quanto riferisce l’UNRWA, di quattro pozzi di acqua potabile.
El Buss, fra i campi più piccoli, si trova invece a meno di due chilometri a sud di Tiro. Originariamente era stato creato nel 1939 dal governo francese per i rifugiati armeni, e ha cominciato ad ospitare i palestinesi dal 1950.
Nella stessa zona c’è anche Rashidieh, che si compone di due parti: una più antica costruita nel 1936 dal governo francese per i profughi armeni, e una più recente, del 1963 realizzata dall’agenzia Onu per accogliere i profughi evacuati dal campo Gouraud Baalbek. Ancora oggi, il campo non ha un sistema fognario.
Ein el-Hillweh si trova vicino a Sidone, e ad oggi è il campo più grande del Libano, come popolazione (47mila e 500 persone registrate) e dimensioni dell’area. Le violenze della guerra civile lo hanno quasi totalmente distrutto nel 1990, ed è stato ricostruito dall’UNRWA fra i 1993 e il 1994. Anche Mieh Mieh è vicino a Sidone, a quattro km dalla città, ed è stato creato nel 1954.
Nei pressi di Baalbek, 90 km da Beirut, sorge Wavel, una vecchia caserma dell’esercito francese occupata dai profughi dopo l’esodo del 1948 e ancora oggi sotto mandato UNRWA. È il campo con le condizioni climatiche più difficili, per le rigide temperature invernali.
Quello che accomuna tutti i campi sono le condizioni in cui il rifugiato vive. Amnesty International ha più volte rilevato elementi di discriminazione contro i palestinesi che non possono essere proprietari di casa né esercitare, ad oggi, 72 professioni. Inoltre il mancato accesso ai servizi pubblici, che siano d’istruzione o sanitari, li pone in una condizione di difficoltà oltre che di vincolo ai programmi di protezione delle nazioni Unite, che offrono un sussidio minimo e servizi di base, ma che certo non consentono l’emancipazione da una situazione di sussistenza. Nel 2010 il Parlamento libanese aveva approvato una legge sul lavoro dei profughi, di fatto mai applicata. I palestinesi avrebbero potuto ottenere più facilmente permessi per lavorare regolarmente fuori dai campi e accedere alle assicurazioni sanitarie, nonostante alcune professioni restassero proibite, come l’avvocato, l’ingegnere o il medico.
Non è un caso se nel corso degli anni si sta modificando anche l’approccio al futuro e alla memoria del popolo palestinese residente in Libano. Il mito del ritorno non si è spento, ma le nuove generazioni oggi appaiono più disilluse rispetto ad un futuro fuori dai confini in cui loro, figli e nipoti di profughi, sono nati e si trovano a vivere in condizioni di estrema difficoltà e pressione sociale, data anche da sovraffollamento e impossibilità di avere documenti e basi economiche che consentano una mobilità e una reale capacità di scelta rispetto al proprio futuro.
Alcuni giovani che riescono a laurearsi e trovare lavoro tornano nei campi per aiutare i bambini. È il caso del gruppo di Dream of Refugees, cinque trentenni che hanno deciso di aprire un centro di istruzione e svago a Shatila. Col lavoro volontario e una piccola retta che gli studenti possono sostenere, mandano avanti i loro progetti: corsi di studio di livello avanzato, teatro, danza.
Nel corso dell’ultimo anno si sono trasferiti nei campi anche molti siriani, fuggiti dalla guerra civile. Alcuni di loro sono stati ospitati in casa da famiglie del posto, altri ancora hanno preso case in affitto. Il destino del Libano, e dei suoi profughi, è legato inesorabilmente a quello della Siria. Il regime di Assad ha alleati anche all’interno dei campi, come il Fronte Popolare per la liberazione della Palestina, supporto fra i libanesi di Hezbollah e Amal, oltre che fra i cristiani maroniti. Anche se ufficialmente il governo sta cercando di restare super partes, e anzi ribadire la sua sovranità in un paese che legato a Damasco anche da un accordo di cooperazione siglato nel 1991 dopo la fine della guerra civile.
Esiste anche un fronte anti-Assad, che all’estero ha trovato espressione nell’ex primo ministro Saad Hariri, figlio di Rafiq, da tempo fuori dal Libano, ma che all’interno, soprattutto lungo il confine, crea tensioni fra combattenti delle resistenza e fedeli del regime, fra libanesi anti Assad e sostenitori del governo di Damasco. L’emblema di queste tensioni è Arsal, una cittadina sunnita che ben rappresenta il legame fra i due paesi. Come le altre località sunnite, è schierata a fianco della rivolta siriana, e da mesi gli abitanti stanno ospitando numerose famiglie di profughi. Ma l’accoglienza in questo caso contravviene alle regole del già citato accordo del ’91, col quale i due paesi si sono impegnati a non fornire sostegno a chi agisca contro gli interessi dello stato amico. Un doppio filo che unisce i due paesi, anche nelle forze armate che rispettivamente hanno nel tempo arruolato entrambe le nazionalità. Un’unione politica fra apparati, che può continuamente diventare divisione e tensione nell’unione “di sangue” fra due popoli.
Immagine: Rifugiati nel campo UNRWA di Gouraoud, Baalbek, Libano. United Nations Photo (cc)