Il termine globalizzazione è ormai entrato pienamente a far parte dell’immaginario collettivo, in tutto il mondo. Da più di dieci anni di globalizzazione si parla e si scrive moltissimo, nel bene e nel male. Eppure, nella maggior parte dei casi, fautori e detrattori di questo fenomeno si limitano a considerarne le implicazioni economico-sociali, lasciando a margine il legame che invece esiste fra globalizzazione e politiche culturali.
Ecco perché vale decisamente la pena di leggere La fine delle culture nazionali? Le politiche culturali di fronte alla sfida della diversità (Armando Editore, Roma 2010 – Traduzione di Maria Guglielmi e Flavio Sorrentino – Euro 22,00), una raccolta di saggi a cura di Lluìs Bonet ed Emmanuel Négrier. Un volume certamente di non facile approccio, sia per la varietà e la specializzazione degli argomenti trattati sia per il linguaggio molto tecnico, che può disorientare il lettore inesperto. Ma con un po’ di pazienza e di impegno le difficoltà iniziali lasciano subito spazio a un reale interesse, poiché la prospettiva utilizzata dagli autori nella costruzione del volume è davvero innovativa e fuori dagli schemi dei testi accademici tradizionali.
Scrive Giovanni Puglisi nella sua introduzione al libro: “Oggi la reazione [alla globalizzazione] sembra essersi concentrata nel campo culturale, e in particolare in quello della difesa delle diversità culturali di fronte a una tendenza omologatrice che appare schiacciante e inarrestabile. La pressione esercitata da questa tendenza globale si è rivelata così forte da rendere impraticabili per i singoli Stati soluzioni isolate e rendere, al contrario, necessaria la ricerca di soluzioni condivise”. Se dunque fino alla fine degli anni ’90 ciascuno Stato nazionale poteva pensare a delle politiche culturali proprie e applicarle sulla base di finanziamenti quasi sempre di natura pubblica, con l’avvento della globalizzazione anche la gestione della cultura deve confrontarsi con le leggi del mercato, sottostare alle regole delle istituzioni sovranazionali, e rispondere a sfide contrastanti. Se, infatti, è ormai molto forte la spinta all’appiattimento su un unico modello proveniente, in maniera preponderante, dagli Stati Uniti, è pur vero che le culture locali sperimentano una nuova vivacità, e la presenza dei migranti nel tessuto sociale complica ulteriormente il quadro.
Ecco dunque che la diversità culturale si pone come concetto-chiave dell’analisi sviluppata nel libro di Bonet e Négrier. Come essa debba essere intesa e quali sono, o potrebbero essere, le strategie poste in essere dai singoli Stati per confrontarsi con essa. La diversità culturale può infatti riguardare esclusivamente la resistenza alla standardizzazione dei contenuti e delle forme artistiche e culturali, oppure essere definita come difesa delle minoranze, di una cultura plurale in senso antropologico. La maggior parte delle politiche culturali attuali, sostengono gli autori nell’introduzione generale, “si fonda sui concetti di eccellenza, di innovazione o di diversità artistiche, non culturali”. Eppure questa ambivalenza rimane, e lascia aperte numerose questioni, sulle quali vanno a intervenire i singoli contributi raccolti nel volume.
Scrivono ancora Bonet e Négrier: “L’incertezza sui contorni del concetto [di diversità culturale] ha, non dimentichiamolo, una conseguenza ulteriore: spinge a una nuova dinamica nel dibattito sul senso delle politiche culturali. In alcune nazioni si è potuto constatare, negli ultimi anni, un deficit di dibattito sulla consistenza delle politiche pubbliche culturali. (…) La politica culturale mal sopporta l’assenza di dibattito, fosse anche sostenuto da un concetto così paradossale quanto quello delle diversità culturali”. Se l’intento degli autori è dunque suscitare delle domande, senza tuttavia pretendere di dare alcuna risposta, La fine delle culture nazionali? è da considerarsi un ottimo strumento per chi non si accontenta del comune dibattito sulla globalizzazione culturale, ma vuole andare ulteriormente in profondità.