L’amaro destino di un uomo coraggioso
Paolo Branca 12 agosto 2010

Questo testo è l’introduzione di Paolo Branca al libro di Nasr Hamid Abu Zayd “Una vita con L’Islam” (pp. 240, euro 12,50, Il Mulino, 2004)

Tra gli intellettuali musulmani contemporanei, Nasr Hamid Abu Zayd occupa una posizione del tutto particolare. Non si tratta soltanto di un uomo che ha dovuto pagare a caro prezzo la sua libertà di pensiero, che gli è costata il blocco della sua carriera universitaria e una condanna per apostasia, costringendo lui e sua moglie a prendere la strada dell’esilio. Altri hanno corso rischi anche maggiori e qualcuno ci ha addirittura rimesso la vita. Ciò che rende la sua vicenda singolare non è tanto l’amaro destino che gli è toccato in sorte – comune del resto a molti pensatori indipendenti, un po’ in tutto il mondo arabo – quanto il campo di studi sul quale si è conquistato, di certo involontariamente, la poco invidiabile palma di un simile “martirio”. Docente di Letteratura Araba all’Università del Cairo, sulla scorta di alcuni illustri predecessori e facendo tesoro delle competenze ermeneutiche acquisite in Occidente, egli ha osato affrontare un tema tra i più delicati: la critica del testo applicata al Corano.

Per comprendere la portata di una simile impresa, dobbiamo ricordare la concezione islamica della “rivelazione”. A differenza di quanto avviene nel cristianesimo, il testo sacro non è infatti inteso dai musulmani semplicemente “ispirato” da Dio, ma da Lui letteralmente “fatto scendere” sul profeta che a sua volta lo trasmette ai credenti. C’è dunque uno stretto parallelo non tanto fra Vangelo e Corano, quanto fra Cristo e Corano: come per i cristiani infatti Gesù è il Logos, parola di Dio fatta “carne”, così per i musulmani il Corano è parola di Dio fatta “libro”. Lo dimostrano parallelismi sorprendenti: Maria, pur essendo vergine, concepì Gesù, così come similmente Maometto, pur essendo analfabeta, proclamò il Corano; le dispute a proposito della duplice natura umana e divina di Cristo che hanno tanto travagliato il cristianesimo delle origini sono analoghe alla diatriba islamica relativa alla natura del Corano quale parola “creata” o “incerata” di Dio. Se la Bibbia è composta da numerosi libri differenti per genere ed epoca, attribuiti a vari autori che, pur sotto l’azione dello Spirito Divino, lasciano nei testi anche l’impronta inconfondibile della propria personalità, nulla di simile si può dire invece del Corano, trasmesso dall’angelo Gabriele a Maometto, il quale si è limitato a ripeterlo, senza nulla togliere né aggiungere o modificare minimamente di quanto gli era stato comandato di riferire. Per i musulmani è dunque difficile considerare autentici i nostri Vangeli, neppure uno dei quali è stato redatto nella lingua parlata da Gesù. La modalità stessa della loro trasmissione non rientra infatti nel loro concetto di Rivelazione.

Ne deriva quindi che sottoporre a un’analisi critica il Corano può sembrare di per sé un atto dissacratore paragonabile a dare un’interpretazione psicoanalitica della personalità di Gesù o, peggio, a mettere sotto il microscopio l’ostia consacrata per verificare se sia o meno diventata il corpo di Cristo. Fedeli a tale premessa, i musulmani hanno sempre dato prova di mantenere un rapporto quasi “sacramentale” con il Corano, Parola di Dio che hanno sempre preferito imparare a memoria, recitare rispettando le complesse regole della salmodia, ricopiare in eleganti forme calligrafiche e impreziosire con decorazioni artistiche piuttosto che studiare alla stregua di qualsiasi altro testo letterario. Il fondatore della più intransigente delle quattro scuole giuridiche islamiche, Ahmad ibn Hanbal (m. 855), riteneva pertanto quella dei commentari coranici una scienza senza fondamento.

Si comprende allora che il problema dell’interpretazione del Testo sacro è sempre stata, in ambito islamico, una questione delicatissima. Eppure, la necessità di uno sforzo interpretativo viene enunciata dallo stesso Corano, ove si afferma in un celebre passo: “Egli è Colui che ti ha rivelato il Libro: ed esso contiene sia versetti solidi, che sono la Madre del libro, sia versetti allegorici”. Tuttavia, il medesimo versetto, continuando, mette anche in guardia verso i rischi insiti in un simile approccio: “Ma quelli ch’hanno il cuore traviato seguono ciò che v’è d’allegorico, bramosi di portar scisma e di interpretare fantasiosamente” e conclude consigliando di rimettersi alla suprema scienza divina: “Mentre la vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio. Invece gli uomini di solida scienza diranno: ‘Crediamo in questo Libro; esso viene tutto dal Signore nostro!’. Ma su questo non meditano che gli uomini di sano intelletto” (3, 7).

E’ il paradosso di ogni interpretazione, che risulta “inevitabile” pur essendo contemporaneamente “impossibile”, vale a dire sempre incerta in quanto parziale, provvisoria, incompiuta. La maggior parte dei commentatori del Corano si sono quindi prevalentemente attenuti a un atteggiamento prudente, anche se alcuni hanno osato spingersi oltre. Lo stesso versetto che abbiamo citato può infatti intendersi in modo del tutto diverso, se lo si suddivide in proposizioni differentemente ripartite (cosa del tutto legittima, mancando nell’originale arabo qualsiasi tipo d’interpunzione): “La vera interpretazione di quei passi non la conoscono che Dio e gli uomini di solida scienza, essi diranno…”. Questa lettura rivaluta decisamente il ruolo e la possibilità della ragione umana di comprendere a fondo ciò che è stato rivelato.

Nei fatti, pur tra mille incertezze, la necessità di fornire chiarimenti e delucidazioni a proposito di un testo di così grande importanza finì comunque per imporsi fin dalle origini. Gli esegeti si misero dunque al lavoro, ricostruendo anzitutto un parallelo tra il testo coranico e i vari momenti della vita di Maometto e della primitiva comunità musulmana, principalmente per poterne stabilire l’esatta cronologia collegandone i vari passi a fatti ed episodi che furono definiti asbâb al-nuzûl (motivazioni od occasioni della rivelazione). Mentre però alcuni commentatori si limitarono a spiegare su basi linguistiche il senso oggettivo di ogni passo – e in questo caso si parla di tafsîr, o esegesi – altri tentarono di definire gli intenti ultimi del messaggio coranico. In questo caso si può parlare di ermeneutica, o ta’wîl, termine che significa “ricondurre all’origine”: un lavoro dunque più interpretativo che semplicemente descrittivo. Si tratta di due opposti orientamenti che all’interno della comunità islamica si fronteggiavano anche in altri campi, opponendo i partigiani della stretta aderenza al portato della tradizione (naql) a quelli che propendevano a un uso più ampio della ragione (‘aql).

Tra i primi – di matrice sunnita – alcuni si spingevano fino a una sorta di antropomorfismo: se il Corano parla di “occhi” e “mani” di Dio, si tratta di verità da prendere alla lettera piuttosto che metaforicamente, pur senza pretendere di poter capire la loro “modalità”. Gli sciiti, i filosofi e i mistici – più propensi allo sforzo interpretativo – inclinavano invece verso il ta’wîl, fino a sfociare nella corrente esoterica, detta bâtinita, che talvolta proponeva letture talmente simboliche degli attribuiti e degli atti divini da rischiare una sorta di “spoliazione” dell’Essere Supremo e delle Sue prerogative. Fatte salve queste ed altre conseguenti differenze, i grandi commentari classici del Corano sono state prevalentemente opere di taglio linguistico e lessicologico, arricchite da altri contenuti nei quali si rifletteva l’erudizione dei loro autori, uomini spesso dai molteplici interessi. Per quanto dotti e talvolta arguti, costoro si impegnarono anzitutto a raccogliere con perizia e completezza quanto avevano già proposto i loro predecessori, limitandosi ad esprimere la propria preferenza per una o l’altra delle posizioni elencate, raramente avanzando proposte alternative rispetto a una tradizione nei confronti della quale si ponevano in sostanziale continuità. Ne derivò un progressivo affastellamento di materiali eterogenei che progrediva senza badare troppo al problema dei fondamenti, delle metodologie e delle finalità dell’esegesi. Quest’ultima, dopo aver dato i suoi frutti migliori nei primi secoli che furono quelli del “rinascimento” musulmano, si è in seguito impoverita, cristallizzandosi in forme canoniche destinate ad essere almeno parzialmente superate o comunque modificate nell’epoca moderna e contemporanea.

Ciò non toglie che i “classici” dell’esegesi coranica siano tuttora largamente utilizzati e mantengano un valore e una popolarità che non trovano riscontro, in ambito biblico, in nessuna opera coeva: un commentario del XII secolo come quello di al-Zamakhshari ha avuto ben tre edizioni nel solo Egitto tra il 1926 e il 1970, mentre quello cinquecentesco dei due Jalâl, sempre in Egitto, è stato ristampato ben sei volte tra il 1926 e il 1940! Del resto, basta entrare in qualsiasi libreria araba, per non parlare delle biblioteche dei centri islamici anche europei, per constatare che questi commentari siano spesso gli unici presenti, talvolta affiancati soltanto dalla più “militante” opera di Sayyid Qutb, rispondente a esigenze del tutto diverse da quelle recentemente affermatesi nell’esegesi biblica.

L’epoca moderna ha comunque determinato anche tra i musulmani la necessità di sviluppare metodologie ermeneutiche che rispondessero a nuovi criteri e a nuovi intenti. Almeno di una differente sensibilità si può parlare anche per le opere ancora sostanzialmente di stampo tradizionale. In tal senso si sono distinti alcuni esponenti del pensiero riformista musulmano indiano, già fin dalla fine del XVIII secolo, impegnati nel dimostrare il sostanziale accordo tra fede e scienza, contestatori dello spirito di pedissequa imitazione che predominava negli studi religiosi e promotori di audaci iniziative, come la traduzione del Corano in altre lingue… L’emancipazione rispetto al modello classico si evidenziava soprattutto nei confronti della Sunna o Tradizione del Profeta, che costituisce la fonte principale del diritto musulmano. L’aspetto normativo, tanto rilevante nella “nomocrazia” islamica, è infatti quello maggiormente problematico, in quanto le disposizioni dettate per contesti sociali di molti secoli or sono si adattano difficilmente alle condizioni proprie di Paesi moderni. Si pone dunque la delicata questione di poter distinguere, nella stessa Rivelazione, quanto vi sia di permanente e quanto di transitorio, legato a condizioni e circostanze particolari: “Quando qualcuno sostiene che ogni ingiunzione coranica richiede una stretta osservanza, con tutto il rispetto dichiaro di non essere d’accordo. La legge, infatti, può mutare, mentre la religione ha un grado maggiore di stabilità”.

Qualcosa di simile si era già verificato in precedenza, non foss’altro per il fatto che taluni versetti coranici propongono norme talora divergenti, quando non addirittura del tutto opposte. Era stata così escogitata la teoria dell’abrogazione di un versetto da parte di un altro più tardo, senza porsi troppo il problema di spiegare il cambiamento in termini evolutivi, ma affidandosi all’imperscrutabile saggezza dell’arbitrario volere divino. Il fine era del resto principalmente quello di stabilire “come” obbedire a Dio, rispondendo a esigenze eminentemente giuridiche. I moderni commentatori del Corano, mossi da diverse motivazioni, non potevano restare appagati da un simile approccio. Nove domande, di cui erano portatori più o meno consapevoli, li hanno indotti a trascurare ciò che gli antichi ritenevano invece essenziale, talvolta a contestare apertamente quanto era ormai da lungo tempo dato per scontato e comunque a immettere nella lettura e nell’interpretazione del Corano preoccupazioni e finalità inedite che, prima o poi, avrebbero sollevato anche problemi metodologici e d’impostazione generale di grande rilievo e potenzialmente rivoluzionari rispetto all’approccio tradizionale. Si constata in effetti un generalizzato recupero di una certa libertà di interpretazione rispetto ai modelli tradizionali, elemento di capitale importanza poiché manifesta la volontà di emanciparsi dalle autorità del passato.

Qualcuno ha voluto parlare di una tendenza “protestante” da parte di tali riformatori che rivendicavano un accesso diretto alle fonti, svincolato dalla tradizione, e la riapertura della “porta dell’ijtihad”, ossia dello sforzo interpretativo, che la legge islamica aveva invece ritenuto chiuso da circa un millennio. Come nel passato il contatto col pensiero greco aveva dato fiducia nelle capacità e nel ruolo della ragione, così accadeva all’alba dell’era moderna. Emblematico, a questo proposito, è il più celebre tra i commentari coranici contemporanei, pubblicato sulla rivista al-Manâr (Il Faro) sulla base di una serie di lezioni tenute dall’egiziano Muhammad `Abduh (m. 1905) dal 1899 al 1905, riviste e completate dal discepolo Rashîd Ridâ (m. 1935), che si distingue dagli eruditi commentari del passato ponendosi soprattutto finalità pedagogiche e apologetiche. Riprendendo le numerose esortazioni del Corano rivolte a “gente dotata d’intelletto”, esso rivalutava il ruolo della ragione per un’adesione alla fede non di sola abitudine, ma vissuta con maggior consapevolezza e responsabilità. Dichiarare che l’uomo ha in sé la capacità di riconoscere ciò che è bene e ciò che è male, ancor prima che la rivelazione giunga ad insegnarglielo, può sembrare un’affermazione scontata, ma bisogna ricordare che essa non era più stata ripetuta dai dotti musulmani dal tempo della caduta in disgrazia dell’antica scuola, detta Mu’tazila, nel IX secolo.

La corrente teologica da allora predominante aveva infatti preferito non porre limiti all’assoluta libertà divina, considerando buono ciò che Dio ordina e malvagio ciò che proibisce, senza osare spingersi oltre. Quanto una simile impostazione potesse risultare paralizzante per lo sviluppo del pensiero religioso è facilmente intuibile. Non è quindi stato un merito trascurabile della scuola di M. ‘Abduh quello di aver rivalutato il ruolo autonomo della ragione umana. Non del tutto chiara restava tuttavia la distinzione di campi tra ragione e rivelazione, per cui il commentario si attarda talvolta nel cercare di spiegare scientificamente i prodigi narrati dal Corano, nel fornire giustificazioni igienico-sanitarie delle prescrizioni e dei divieti della legge islamica o nel proporre audaci concordismi tra le più recenti teorie relative all’origine dell’universo e le narrazioni che ne fa il Testo sacro. Per quanto tali tendenze possano sembrarci ingenue, se non alla lunga controproducenti, esse sono significative poiché indicano quali nuovi valori di riferimento influenzassero i loro autori. La parte dell’opera più innovativa e originale resta comunque quella morale, dove viene dato ampio rilievo ai doveri sociali e si giunge persino a sconsigliare la poligamia per i suoi effetti negativi sulla stabilità e l’armonia delle famiglie. In generale le disposizioni giuridiche tradizionali sono considerate con larghezza di vedute e si avversano in particolare gli atteggiamenti fatalistici e deresponsabilizzanti diffusisi nel periodo della decadenza.

Si è trattato di un primo tentativo di adeguare l’interpretazione del Corano alle esigenze del tempo e corrispondono alla fase di maggiore apertura verso le sollecitazioni emerse dal rinnovato contatto con la cultura occidentale. Una fase entusiastica e talvolta un po’ ingenua cui però ben presto è subentrata una profonda crisi, determinata da due fattori: da un lato si acutizzarono i problemi dovuti all’aggressione coloniale europea rispetto ai paesi musulmani, dall’altro – com’era inevitabile che accadesse – ci si rese conto che l’affannarsi nel volersi uniformare a modelli “d’importazione” rischiava di produrre uno scollamento dalla propria tradizione che avrebbe potuto compromettere l’originalità e l’indipendenza dell’identità islamica.

Nacquero così correnti di pensiero radicale, secondo le quali lo stato di decadenza e di sottomissione nei quali versava il mondo musulmano non sarebbe dipeso da una presunta inadeguatezza della religione rispetto alle sfide della modernità, ma semplicemente dalla mancata adesione sincera e totale ai principi e alle norme dell’islam da parte dei suoi seguaci. La vera riforma della quale si aveva bisogno non era pertanto quella proposta dai modernisti, ma la restaurazione di un modello ideale che trovava nel Corano i suoi fondamenti e che aveva assicurato ai musulmani la prosperità e il successo nelle epoche precedenti. Il progressivo logoramento delle ideologie laiche mutuate dall’Occidente, quali il nazionalismo e il socialismo, ha contribuito alla diffusione dell’islamismo radicale nel quale, soprattutto nella seconda parte del secolo scorso, molti hanno creduto di poter trovare la risposta adeguata all’ansia di riscatto che pervade tuttora gran parte del mondo islamico. Di qui il grande successo di autori che propendono per una rilettura socio-politica del Corano in chiave rivoluzionaria, come quella di Sayyid Qutb (m. 1966), maître-à-penser del movimento dei Fratelli Musulmani, che nel suo commentario coranico propone soprattutto l’islam come “sistema” fondato sull’esclusiva legittimità dell’autorità divina e quindi radicalmente alternativo a ogni altro. Questa lettura ideologica e rivoluzionaria del Corano è d’altronde comune a tutti i leader dell’islamismo radicale contemporaneo, a partire dal pakistano al-Mawdûdî (m. 1979), la cui esegesi è divulgata su larghissima scala, in forme però talvolta propagandistiche e semplificate che non sempre rendono giustizia all’impianto comunque notevole dell’opera originaria.

Pur nella loro differenza, gli orientamenti fin qui analizzati sono paradossalmente simili in un punto di capitale importanza. Si tratta, infatti, di tendenze profondamente segnate dalla loro dipendenza rispetto a un modello acculturante: quello occidentale. Poco importa, in fondo, se alcuni vi si ispirano per uniformarvisi e altri sembrano invece determinati a contrastarlo accanitamente. La rilettura del Corano finalizzata a modernizzare l’islam per metterlo al passo coi tempi non è sostanzialmente diversa da quella che invece tende a ritenerlo la base per fondare un modello alternativo a quello della modernità occidentale. Fatalmente si finisce per assumere i caratteri di ciò che si combatte, e non è detto neppure che si riesca sempre a filtrare quelli migliori… Uscire da una simile trappola non è affatto facile. Sembra una rete che si attorciglia sempre di più attorno alla sua vittima, tanto peggio quanto più questa si agita divincolandosi per liberarsene. Dedurne che un’interpretazione aggiornata del Corano sia condannata a scegliere tra la mera imitazione delle mode culturali dell’Occidente e un’altrettanto disperata quanto velleitaria ideologizzazione antagonista sarebbe una conclusione affrettata e ingenerosa. Quasi in sordina, qualche tentativo originale sta invece lentamente maturando.

Non sono infatti mancati quanti hanno cercato di introdurre nell’esegesi del Corano innovativi criteri storico-critici. Già il tunisino Tâhir al-Haddâd (m. 1935) parlava di una distinzione tra intenti e spirito generale del Testo da un lato e disposizioni legate alle condizioni specifiche della società araba antica dall’altro. Il discorso fu portato avanti dall’egiziano Muhammad Ahmad Khalaf Allâh (m. 1998), il quale nel 1947 affrontò il problema dell’arte narrativa nel Corano, rilevando l’intento essenzialmente pedagogico delle narrazioni coraniche e riconoscendone quindi senza problemi le discrepanze, come nel caso delle parole circa Mosè attribuite ora ai consiglieri del Faraone, ora al Faraone stesso (cfr. Corano 7, 109; 26, 34); o nell’episodio dell’annuncio della nascita di un figlio rivolto ora ad Abramo (15, 53) ora a sua moglie (11, 71). A parere dell’autore ciò non compromette la validità del Testo sacro, poiché le scelte di stile e di contenuto, nel Corano come in qualsiasi altro libro, seguono le leggi che regolano la comunicazione tra narratore e uditori e sono state quindi influenzate dalle relazioni che sussistevano tra il Profeta e i suoi contemporanei. Ovviamente questa tesi sembrò a molti un’inaccettabile relativizzazione del Testo rivelato e un attentato alla trascendenza e alla libertà di Dio.

La distinzione tra il livello formale e quello contenutistico comportava quindi delicati problemi, ma la cosa poteva diventare ancora più grave se si fosse operato qualcosa di analogo addirittura nella parte normativa, come è avvenuto più di recente con il sudanese Mahmûd Muhammad Taha (m. 1985), il quale ha osato proporre un islam non già compiuto definitivamente con la sua “prima missione”, svolta dal Profeta presso gli Arabi del VII secolo, ma come una realtà dinamica, tesa a una più piena realizzazione. L’aspetto permanente del messaggio coranico sarebbe da rintracciare, secondo questo autore, nello spirito e nei contenuti della prima predicazione del Profeta alla Mecca. La parte normativa che si è sviluppata a Medina dopo l’egira sarebbe invece da considerare una parziale e transitoria forma di applicazione di quei principi, oggi non più riproponibile poiché legata a quei tempi e quei luoghi particolari.

Insomma, una concezione progressiva ed evolutiva del pensiero religioso: ”In conclusione, ripetiamo che la religione ha una forma piramidale, di cui il vertice è presso Dio all’infinito, e la base presso l’umanità: ‘In verità la religione presso Dio è l’Islam’ (3, 19). Nel passato la religione è stata abbassata dal suo vertice fino al livello dei bisogni e delle capacità umane e materiali, e ha preso la forma della legge (sharî’a), mentre il vertice della piramide rimarrà per sempre al di fuori della nostra portata. Come individuo, ognuno continuerà a progredire nella comprensione della religione, distinguendone i segni nel mondo materiale e in noi stessi (…) Dio vuole che in ogni momento noi Lo conosciamo sempre più. Egli dice: ‘Ogni giorno Ei lavora ad opera nuova’ (55, 29). In altri termini, Egli si rivela sempre al Suo creato così che esso possa conoscerLo. Egli è l’unico che ci insegna; Egli dice: ‘Non affrettarti a recitare il Corano prima che ne sia conclusa la rivelazione, ma dì: ‘Signore, accrescimi in scienza!’‘ (20, 114). Questo accrescimento della conoscenza è in effetti la più elevata ascesa dalla base verso il vertice della piramide dell’Islam in continuo progresso. Quando l’uomo sviluppa la comprensione della religione e progredisce in essa, egli evolve la sua sharî’a secondo i propri bisogni e capacità, verso una base sempre più raffinata”.

L’audacia di una simile proposta, sfociata drammaticamente nella condanna a morte del suo promotore, rivela quanto aspro possa essere il confronto su un tema tanto cruciale. Proprio N. H. Abû Zayd ha recentemente ridato impulso a questo campo di studi, distinguendo il senso ultimo del messaggio divino dalla forma storica che esso assume per potersi comunicare agli uomini: “Il pensiero religioso non può sottrarsi alle leggi che reggono il movimento del pensiero umano in genere, poiché il suo oggetto – la religione – non può in alcun modo conferirgli il proprio carattere sacro e assoluto. Occorre qui soffermarsi un istante sulla distinzione fra religione e pensiero religioso: la religione è costituita dall’insieme dei testi sacri stabiliti storicamente, mentre il pensiero religioso consiste negli sforzi umani di comprendere questi testi e di interpretarli correttamente. In queste condizioni, è naturale che gli sforzi intellettuali umani differiscano da un’epoca all’altra, da un ambiente – inteso in senso sociale, storico, geografico, etnico ecc. – all’altro, ma anche da un pensatore all’altro all’interno di una certa epoca e in un determinato ambiente”.

Non dunque una rivelazione letterale, ma una ispirazione “tradotta” in linguaggio umano che dunque si può e si deve studiare secondo le più moderne metodologie dell’analisi e della ricerca linguistica: “Il nostro metodo si fonda sulle acquisizioni delle scienze del linguaggio, in particolare nel campo dello studio dei testi. Contrariamente al pensiero religioso che focalizza la propria attenzione sull’enunciatore del testo – Dio nella fattispecie – e ne fa il punto di partenza delle proprie riflessioni, noi situiamo invece il ricevente – ovvero l’uomo nelle sue condizioni storico-sociali – al centro del nostro interesse e ne facciamo, per così dire, il punto di partenza e il punto di arrivo. Il problema del pensiero religioso, invece, è che esso parte dalle proprie concezioni dottrinali dell’essenza divina e della natura umana e delle correlazioni che stabilisce fra queste due entità per proiettarle sui testi religiosi. Detto in altri termini, i sostenitori di questo metodo impongono ai testi, dall’esterno, dei valori necessariamente umani e storici, per presentarli poi, con un gioco di prestigio, come altrettante verità metafisiche, nel tentativo di rivestirle di un carattere trascendente e sovratemporale”.

Ne deriva la contestazione di affermazioni precedentemente considerate quasi delle verità dogmatiche: “Sostenere la dottrina del Corano increato e la sovratemporalità della Rivelazione non produce altro risultato se non quello di imbalsamare i testi religiosi sottraendoli a qualsiasi riflessione. Mentre la tesi opposta, situando il testo sacro in una dimensione storica, lo restituisce alla propria vitalità e lo libera, attraverso la rilettura e l’interpretazione, dall’assoggettamento ai propri limiti temporali, aprendolo al tempo stesso alle preoccupazioni e agli interessi degli uomini nel vivo corso della storia”. A causa di queste sue posizioni, N.H. Abu Zayd ha visto intentare contro di sé un processo per apostasia, alla fine del quale – il 14 giugno 1995 – è stato giudicato colpevole (sentenza confermata in Cassazione l’anno dopo) e ha quindi dovuto lasciare il proprio Paese per salvaguardare la sua incolumità e l’unità della sua stessa famiglia: alla moglie, infatti, non essendo egli più considerato musulmano, non sarebbe stato permesso di rimanere legittimamente sua consorte nel loro Paese di origine. Se non fosse stato per questo dramma, è probabile che i suoi studi sarebbero stati conosciuti solo da pochi specialisti e che oggi non ci troveremmo a presentare l’edizione italiana della sua biografia. Si tratta di un documento eccezionale, il “diario di un’anima” che testimonia la profondità del suo radicamento nella propria cultura di origine unita a un non comune rigore morale e intellettuale. Parlandoci di sé, partendo della sua famiglia e dal suo povero villaggio di campagna sul Delta del Nilo, l’autore ci accompagna in un appassionante safari in un’epoca e in una terra che meglio di ogni altra rappresentano lo scenario dei tormenti propri alle società arabo-musulmane contemporanee.

Passando continuamente dal registro delle vicende personali e persino intime, con straordinarie pagine dedicate alla moglie, a quello della compartecipazione a un dramma collettivo, con la massima naturalezza ci presenta il suo percorso come l’icona forse più significativa del travaglio di un intero universo culturale. I rapporti umani non sono stati meno importanti nella sua formazione rispetto agli ani di studio e di insegnamento in patria, negli Stati Uniti e in Giappone. Anche l’amara esperienza della condanna e dell’esilio sono stati per lui un’occasione in più per approfondire tanto le relazioni con le persone quanto la riflessione scientifica. Per riprendere il celebre titolo delle memorie di prigionia di Andrej Sinjavskij, quella che stiamo per ascoltare è forse solo “una voce dal coro”, un coro di bocche chiuse che stentano a farsi ascoltare per i bavagli che le soffocano e per i clamori di chi grida più forte. Sono barlumi di speranza che sembrano poca cosa tra i cupi bagliori che dominano l’orizzonte, ma sono anche l’unico seme che sotto tante macerie sappia promettere un ritorno alla vita.