La ricca storia della città di Istanbul – prima città greca, poi capitale dell’Impero Romano d’Oriente e infine capitale dell’Impero Ottomano – farebbe da sola pendere la bilancia in favore di un suo ingresso nell’Ue. Dal punto di vista storico-culturale la Turchia è già Europa. Non lo è però dal punto di vista politico. Sul perché il processo si sia arenato e sulle prospettive di un eventuale adesione si sono focalizzati – nel corso di una tavola rotonda organizzata nell’ambito degli Istanbul Seminars di Resetdoc – il filosofo polacco Zygmunt Bauman, il sociologo francese Alain Touraine, il direttore di Reset e cofondatore di ResetDoc Giancarlo Bosetti e Cengiz Aktar professore di Studi Europei presso la Bahçesehir University.
Secondo Aktar la Turchia oggi sta attraversando un periodo di trasformazioni, forse le più profonde sin dall’epoca del secolarismo kemalista. Il processo di adesione, avviato nel 1999, ha subìto negli ultimi anni diverse battute d’arresto e la Turchia nell’immaginario europeo si è trasformata da paese candidato in “paese dai 70 milioni di musulmani”. Una prospettiva che spaventa non poco le istituzioni europee. Nel suo ritratto a tinte fosche, Aktar delinea l’esistenza di una lobby anti-turca in seno all’establishment di Bruxelles, che si sarebbe messa al lavoro per far deragliare silenziosamente (e sistematicamente) il processo di adesione. Capeggiata da Francia, Germania, Olanda e Austria, la lobby anti-turca può contare non solo su personalità di alto profilo istituzionale (il presidente francese ad esempio) ma anche su un think-tank di intellettuali e svariati turco-scettici che oppongono un rifiuto prettamente ideologico. Nel tempo il concetto di ‘adesione piena’ è stato abbandonato ed al suo posto è stato introdotto il concetto di ‘partnership privilegiata’ (lo ha ricordato recentemente la Merkel), un escamotage diplomatico per allontanare l’idea di una piena adesione. Malgrado l’opera di europeizzazione iniziata sin dai tempi di Atatürk e le riforme intraprese (abolizione della pena di morte, riconoscimento dei diritti della minoranza curda), l’ingresso della Turchia nell’Ue resta una difficile scommessa e all’orizzonte ci sono ostacoli ancora maggiori (questione armena, Cipro).
Dal canto suo Alain Touraine ha ricordato che il vero gap non è economico ma culturale, in quanto legato alla paura dell’ingresso di una nazione musulmana nell’Ue. Stigmatizzando l’esempio di Sarkozy – per aver lanciato un dibattito sull’identità nazionale – Touraine ha ricordato che l’Europa può sopravvivere solo se riesce a diventare qualcosa di più di una semplice organizzazione burocratica ed amministrativa attraversata da particolarismi e nazionalismi. Deve riuscire a mutarsi in un’entità multiculturale capace d’integrare le diversità. Anche dal punto di vista geopolitico, un’Europa ripiegata su se stessa, incapace di prendere iniziative e di giocare un ruolo maggiore sulla scena internazionale e soprattutto di dialogare col mondo islamico non ha futuro. L’ingresso della Turchia nella Ue da questo punto di vista potrebbe essere il viatico principale per sanare quella frattura Occidente/Islam che la politica Usa negli ultimi anni ha contribuito a dilatare.
Lungi dal concentrarsi sul come, Zygmunt Bauman invece afferma che occorre individuare il ‘chi’ può farsi carico di questa rivoluzione di prospettiva. Malgrado lo spessore di personaggi come Schuman o De Gasperi ed il fatto che l’idea di una cultura europea resti in sé fondante, manca però l’impronta di intellettuali che spendano le proprio energie per difendere un’altra idea di Europa. L’odierna amministrazione Ue appare un edificio vuoto e distante dai cittadini, addirittura ‘illegittimo’ dal punto di vista del consenso politico (i suoi rappresentanti non sono eletti direttamente dal popolo).
Mancando un’altra idea d’Europa, quest’ultima può definirsi solo in base all’esasperazione dei confini, dei limiti da non oltrepassare. Una governance europea è oggi puramente utopica e allora la palla passa nel campo dei governi nazionali, che annaspano in un’ossessione securitaria, nell’incessante legiferazione per arginare fenomeni come l’immigrazione, la proliferazione di contesti multi-confessionali o per attivare dispositivi anti-terroristici e liberticidi. Per Bauman andiamo incontro all’età della semplificazione, dell’identificazione chiara del nemico, dei confini ‘rigidi’, delle frontiere invalicabili. L’allargamento del mercato, la crescente disoccupazione e la conseguente rinascita dei nazionalismi e particolarismi fa dire a Bauman che l’Europa resta tutto sommato una grande incompiuta. La sua unica missione, conclude il filosofo, può essere allora quella di restare faro della civiltà e farsi promotrice di un nuovo tipo di arte: quello del vivere collettivo.