La strategia dell’emergenza
Ejaz Ahmad 10 ottobre 2008

Eccoci serviti: il razzismo è legale.
La paura dell’altro va a sostituire la machiavellica strategia della tensione utilizzata dalla prima Repubblica. Sempre necessaria ai potenti per riempire vuoti di idee e risoluzioni disattese. Gli episodi gravi, anzi gravissimi, di violenza, che riempiono quotidiani e talk show negli ultimi tempi, sempre più spesso hanno come protagonisti “l’altro”. I dibattiti ruotano sul “noi” e sul “voi”. La parola d’ordine è stato d’emergenza. Emergenza sbarchi, emergenza clandestini, emergenza Rom, emergenza Islam. Emergenza sempre emergenza. Ed ecco la nuova crociata di un’Italietta che non riesce a diventare grande. Un razzismo preconfezionato per chiudere le falde di un futuro senza futuro, di una gioventù costretta a galleggiare su di un mare di mediocrità. Un razzismo necessario per contenere i sogni che non si potranno mai realizzare. E chi meglio dello straniero, il male venuto da fuori, può incarnare e rendere visibile il disagio?

Un popolo che non sia in grado di controllare l’aggressività è costretto all’oblio. E l’aggravante in questo contesto è “futili motivi”. Ma, allora: militanza. Raccogliamo le forze buone e organizziamo una Resistenza. Noi e voi tutti compatti. Facciamo che le parole, regole, legalità e doveri siano da contrappeso a parole come giustizia, diritti e convivenza civile. Perché i sogni dei ragazzi italiani sono gli stessi dei ragazzi nati da genitori stranieri ma cresciuti nel Bel Paese. Senza compassione non c’è integrazione. Integrazione che non sia un’assimilazione, ma partecipazione. Il premio Nobel Amartya Sen sostiene che quando gli immigrati votano i partiti xenofobi cominciano a cambiare gli slogan. E chi ha paura della visibilità politica dei nuovi cittadini sa che questa potrebbe essere la strada giusta verso un cammino di convivenza. L’America, per arginare i conflitti etnici, prepara i leader delle diverse comunità con corsi di mediazione. In Italia, invece, nascosti dietro a “stranieri go home” facciamo finta di credere che gli immigrati non servano a far sopravvivere questo Paese che invecchia. Molti lavorano, alcuni delinquono, i problemi esistono e ne siamo consapevoli. Ma non è con l’emarginazione e la repressione che ne usciremo. Non con una giustizia a due binari, con l’aggravante di “clandestino”. Chi sbaglia paga, questo è chiaro, “la responsabilità penale è personale” recita la Costituzione.

Però cambiare il linguaggio, questo sì che è una forza. Immigrato, clandestino, extracomunitario sono ancora sinonimi di brutto sporco e cattivo. Tutti chiamati in causa, mass media, scuola, istituzioni, chiunque detenga un potere sulle menti ha il dovere di riflettere sulle parole, che non sono solo un ammasso di sillabe, ma significato e significante. Ed è proprio il significante che riempie l’immaginario collettivo di incubi e mostri, tanto da rendere sopportabile e legale azioni violente. Ripartiamo dalla scuola per dare il via ad una cultura della intercultura che può solo aggiungere e nulla sottrae. Insegniamo la storia dei milioni di emigrati italiani in giro per il mondo partiti per inseguire il sogno di una vita possibile al di là della sofferenza. Un sogno divenuto staffetta, che nei secoli passa di mano in mano. E che prima o poi toccherà a tutti, perché questa è storia.

Ripartiamo… ma partiamo, perché il tempo è poco. E mentre noi stiamo ancora fermi all’emergenza, le seconde generazioni, come la sociologia chiama i figli degli immigrati nati in Italia, sono già pronte per il mondo del lavoro. Ma non per il lavoro dei loro genitori. Allora sì, che il conflitto sarà totale.

Ejaz Ahmad, giornalista, è membro della Consulta Islamica d’Italia