Questo articolo è tratto dall’ultimo numero di Oxygen, la rivista di ENEL
Il 2010 sarà un anno rivoluzionario. “Segnerà l’inizio di una nuova era, quella dell’elettricità, che prenderà il posto dell’età del petrolio”. Nel suo ufficio parigino, a due passi dalla Tour Eiffel, Fatih Birol, nato 51 anni fa ad Ankara, capo degli economisti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE), non sembra avere dubbi. “Soprattutto se dalla conferenza di Copenaghen sul cambiamento climatico arriverà, come spero, un segnale forte”, precisa. “È un momento assai favorevole anche a causa della crisi finanziaria e del cambiamento del panorama politico mondiale”.
Birol non è un guru né un visionario. Parla da illustre economista ed esperto affermato solo in base ai numeri: ecco perché viene consultato da tutti i governi. Lo chiamano “Mister Energia”. Prima di approdare nel 1995 alla AIE, una costola dell’OCSE, l’organizzazione che raggruppa 30 paesi occidentali, ha lavorato per sei anni nella segreteria dell’OPEC, a Vienna. Come dire che conosce assai bene sia il mondo dei fossili sia quello delle nuove tecnologie.
“Rivoluzione” non è una parola fin troppo abusata?
Le spiego perché uso questo termine. Per affrontare i due principali problemi che abbiamo oggi di fronte, la sicurezza energetica e il cambiamento del clima, occorre davvero fare una grande rivoluzione sia nel modo con cui produciamo energia sia come la usiamo.
La crisi finanziaria ed economica ha favorito o rallentato la svolta epocale di cui parla?
Ha prodotto due effetti: uno positivo e uno negativo. L’effetto positivo per quanto riguarda il cambiamento climatico è stato che, mentre negli ultimi 15 anni le emissioni di CO2 sono aumentate ogni anno in media del 3%, nel 2009 ci aspettiamo che diminuiscano del 3%. Questa è una grande finestra di opportunità.
E il lato negativo?
Molti investimenti che erano stati decisi sono stati posposti, come diverse centrali nucleari, che costano in media 5 miliardi di euro. Ma, ripeto, se a Copenaghen ci sarà un segnale forte diretto agli investitori, e cioè che se continuano a costruire ancora impianti convenzionali alimentati a carbone saranno puniti a causa delle nuove regole sul clima, allora si può ritenere che gli investitori torneranno a riconsiderare le loro scelte. Dunque aspettiamo quello che succederà in Danimarca.
Lei personalmente cosa prevede?
Spero che esca fuori un’intelaiatura politica generale, cioè un accordo di massima di tutti i paesi che sarà poi circostanziato più tardi. In breve, mi attendo che i paesi occidentali fissino un obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2020, e anche oltre, e che i paesi in via di sviluppo, come Cina, India e Brasile, prendano impegni precisi, sulla base delle loro politiche nazionali, sulle emissioni complessive di CO2. Se si coniuga tutto questo come obiettivo generale, allora posso dirmi fin da ora ottimista.
Cosa è cambiato nei governi di tutto il mondo negli ultimi anni, anche sotto la pressione dell’opinione pubblica?
Essenzialmente due cose hanno mutato radicalmente la psicologia dei governanti: una è stata il prezzo del petrolio a 147 dollari. L’altra l’11 settembre.
L’elezione di Barack Obama non è il terzo fattore?
La nuova amministrazione americana ha un ruolo davvero speciale dal momento che ha definito la questione del cambiamento climatico come la più importante nell’agenda della nostra epoca. Ora però deve mantenere fede alle promesse fatte in campagna elettorale. Penso che anche molti paesi europei e il Giappone stanno creando il terreno fertile per la rivoluzione. Ma, per essere onesti, non bisogna nemmeno dimenticare la Cina, che si sta ponendo in prima linea nella lotta contro il cambiamento climatico. Secondo le nostre stime, la Cina taglierà le emissioni nel 2020 di un gigatone [un miliardo di tonnellate] di CO2, vale a dire il 25% di quello che il mondo intero deve ridurre per lanciarsi sul percorso virtuoso della rivoluzione.
Perché Pechino ha deciso di fare questo importante passo?
È una situazione assai vantaggiosa per i cinesi, che possono contemporaneamente ridurre l’inquinamento e diventare meno dipendenti dal petrolio acquistato all’estero.
La Cina sarà dunque l’attore principale del summit di Copenaghen?
Per la verità, i protagonisti saranno due: Cina e Stati Uniti. Sono i due principali produttori mondiali di anidride carbonica e insieme totalizzano il 40% delle emissioni globali. Senza di loro non c’è alcuna possibilità di arrivare a un accordo sensato.
Il presidente Barack Obama forse ha bisogno ancora di un po’ di tempo per consentire al congresso di approvare la nuova legislazione.
Lui ha bisogno di tempo, ma noi nel resto del mondo non ne abbiamo troppo a disposizione. Secondo le nostre indagini, se a Copenaghen non avremo un accordo, il costo dei progetti fino al 2050, così come sono stati approvati a luglio nel G8 dell’Aquila, aumenterà di 500 miliardi ogni anno.
Come giudica il comportamento dell’Unione Europea che, almeno in questo settore, si è posta alla testa degli altri continenti?
È certamente in prima linea, il che è una buona cosa, ma penso anche che l’UE dovrebbe essere prudente se non vuol fare la fine di Don Chisciotte. Voglio dire che l’Unione Europea ha bisogno di partner.
Ha senso parlare di business verde o è solo una moda?
Certo che esiste. Altrimenti perché Stati Uniti e Cina sono lì a spingere il bottone della rivoluzione? Non lo fanno mica per ragioni moralistiche. Vogliono guadagnarci, vogliono essere i primi nella corsa alle nuove tecnologie. Faccio un esempio: secondo le nostre analisi, un elemento chiave della rivoluzione sarà il trasporto. Oggi solo il 2% delle auto vendute nel mondo sono di tipo avanzato, ibride, ecc. Per arrivare nel 2030 a un aumento della temperatura che non superi i due gradi rispetto ai livelli pre-industriali, il 60% delle auto dovranno essere elettriche. E se guardiamo quello che sta accadendo in Cina ci accorgiamo che lì si stanno investendo un sacco di soldi in questo tipo di vetture.
Obama parla anche dell’opportunità di quattro milioni di nuovi posti di lavoro. Ci crede?
Indubbiamente il business verde crea lavoro. Chi sarà il primo in queste tecnologie (solare, eolico, nucleare e via dicendo) avrà non solo know-how per fare la differenza, ma potrà ridurre i costi di produzione. In questo modo avrà il vantaggio competitivo rispetto agli altri paesi. Io sostengo da tempo che anche le aziende che vorranno essere leader dovranno aumentare i loro sforzi e le loro quote di mercato nelle tecnologie pulite.
L’era del petrolio è davvero finita?
Non è ancora finita, ma finirà presto. Dal momento che oggi tutto è basato sul petrolio dobbiamo prepararci ad affrontare quel giorno e per questo dobbiamo cominciare a lavorare oggi. La tecnologia automobilistica deve cambiare e, se abbiamo bisogno di auto elettriche, ci devono essere molti impianti elettrici da costruire. Dovremo cambiare le infrastrutture. Anzi, oggi è già tardi.
Si stanno ancora esplorando nuovi giacimenti petroliferi?
Basta un dato: la nostra agenzia ha registrato nel 2009 un declino degli investimenti nei campi petroliferi pari a più di 90 miliardi di dollari. È una diminuzione ragguardevole.
Dov’è avvenuto?
Negli Stati Uniti principalmente, ma anche in Russia e in Africa. Se l’economia si riprenderà e di conseguenza la richiesta di petrolio sarà forte soprattutto da parte di paesi come la Cina, questo porterà a prezzi di petrolio assai alti. Non è una bella notizia per l’economia mondiale, che è ancora molto fragile.
Qual è la sua stima sul prezzo del barile l’anno prossimo?
Per statuto, non facciamo previsioni, ma posso dirle che se ci sarà una ripresa sostenuta vedremo prezzi più alti rispetto a quelli attuali.
E se la ripresa sarà lenta?
50-60 dollari se ci sarà una nuova ricaduta dell’economia. Ma, detto questo, i 20 dollari al barile di 10-15 anni fa sono storia. L’era del petrolio a basso costo è finita. Il mio motto è che dobbiamo abbandonare il petrolio prima che il petrolio abbandoni noi. Non dovremmo aspettare a usare l’ultima goccia di greggio e poi cambiare.
Quando succederà? Nel 2030, nel 2040?
Dipende da noi. Spero che ci sarà sempre petrolio sotto la terra e che noi però non ne avremo bisogno.
Prendiamo l’Italia. Qual è, a suo parere, il giusto mix energetico per un paese industrializzato?
Tenterei di aumentare la quota di energie rinnovabili e accelererei i progetti sul nucleare, mentre ridurrei la quota legata ai fossili. L’Italia è oggi troppo dipendente dai prodotti petroliferi e ha bisogno di diversificare il più possibile le fonti di approvvigionamento del gas.
Oltre al cambiamento climatico l’altra grande questione è quella della sicurezza energetica. Sono in molti a paventare nuove guerre.
La mia principale preoccupazione è che l’energia e la geopolitica si stanno intersecando sempre di più. L’energia dovrebbe essere un business e basta. Invece se guardiamo al futuro ci accorgiamo che la situazione è destinata addirittura a peggiorare. Ecco perché –ripeto – per tutti i paesi, a cominciare dall’Italia, è importante diversificare le fonti di energia da usare e anche i paesi di provenienza del petrolio e del gas.