«La crisi economica? Colpa del consumismo»
Raj Patel intervistato da Sara Hejazi 18 giugno 2010

Signor Patel la sua personale biografia, il fatto che lei abbia vissuto in così tanti paesi, ha influenzato le idee che ha poi sviluppato nei suoi studi?

Non si tratta di idee solo mie. Io le ho semplicemente fatte mie e sviluppate, e questo sicuramente ha avuto a che fare con le mie esperienze di vita in diversi paesi, specie in India quando ero piccolo, un’esperienza che mi ha da subito fatto sorgere spontaneamente la domanda sul perché vi erano così tanti poveri e così pochi ricchi. Poi ho passato il resto del tempo a cercare di capire le ragioni di questa povertà contrapposta alla ricchezza. E non ve ne sono di buone ragioni, ma ve ne sono di cattive, in compenso. E bisogna prima comprenderle, per poi combatterle.

Com’è giunto il sistema capitalista alla crisi del 2008?

La presente crisi finanziaria non è un’anomalia, ma la naturale continuazione della lotta per le risorse, per la proprietà e per il potere politico, che risale alla privatizzazione delle terre comuni nei primi decenni della rivoluzione industriale inglese. E nonostante l’opinione diffusa sia che prima o poi l’economia mondiale tornerà alla normalità, la realtà è che la crisi finanziaria è la normalità di un sistema che non può funzionare così come è strutturato. Insomma credere che tornerà tutto a posto è un’illusione perché in realtà non abbiamo mai avuto un terreno solido sotto i piedi. La richiesta costante di una crescita economica ha trasformato l’umanità in un agente di auto-estinzione attraverso una sistematica svalutazione dell’ecosistema che tiene in vita il pianeta. Insomma l’economia fondata sul consumismo dà per scontate un sacco di cose, le vuole gratis, e non è mai in grado di pagarle. Questa è l’origine della crisi economica che stiamo attraversando.

Che ruolo giocano le religioni in questa lotta spietata per le risorse? Servono all’opinione pubblica per giustificare le politiche di accaparramento della terra?

Nel corso della storia religione ed economia si sono sempre alleate alla ricchezza. Sto parlando delle grandi istituzioni religiose e non dei culti locali, ovviamente. Così si sono avuti esempi di buddismo reazionario come di radicalismo cristiano; in questo senso, il culto, attraverso l’istituzionalizzazione, può diventare una forma di giustificazione per l’accaparramento della terra.

Quali sono oggi le nazioni maggiormente responsabili in questa lotta per le risorse della terra?

Il Regno Unito e la Cina. E il continente africano è chiaramente la più grande vittima di questo accaparramento. In questo senso, tornando alla domanda di prima, in realtà non vi sono particolari bandiere religiose nell’atto di accaparrare terre coltivabili, ma vi è un’unica bandiera ideologica: quella del capitalismo, che dice alla gente: “Noi compreremo la vostra proprietà e la useremo in modo più efficiente e produrremo più prodotti.” Così le ragioni addotte servono a spiegare perché il capitalismo è una buona cosa, la migliore possibile.

Qual è allora il futuro dell’economia e del capitalismo?

Non mi faccio illusioni sul mondo del presente. Però ho davanti agli occhi diversi tipi di resistenza e di sforzi per cambiare il sistema attuale. Io e il mio collega stiamo lavorando a un libro in cui descriviamo gli esempi concreti, sparsi un po’ ovunque nel mondo, in cui vere e proprie alternative alla proprietà privata e al capitalismo sono messe in atto e funzionano davvero.

Che opinione ha dell’energia nucleare?

L’energia nucleare rappresenta un rischio, statisticamente non elevato, ma che se si avverasse avrebbe conseguenze catastrofiche. E’ la stessa cosa dell’industria finanziaria che ha valutato come molto bassa la probabilità di implosione, ma quando poi l’implosione finanziaria è avvenuta, tutti abbiamo pagato molto care le conseguenze. Non ci si può assicurare sui rischi legati all’energia nucleare, è impossibile. Quindi non è un’energia intelligente. E in termini di convenienza dei costi sembrano esserci oggi idee migliori, anche nei paesi in via di sviluppo. Bisogna ormai scostarsi dal modello esistente di un’unica grossa centrale energetica da cui altre più piccole dipendono. L’alternativa consiste in centrali energetiche più piccole e distribuite in modo più omogeneo, cioè una rete di microgeneratrici di energia.