Sono oltre dodici milioni, quindici secondo le stime ufficiose. Sono giudicati il popolo senza terra più popoloso del mondo e, almeno in Turchia, possiedono tante contraddizioni almeno quanto il Paese che li ospita. I curdi vivono soprattutto nelle regioni a sud est di Ankara. Mardin, Hakkari, Van, fin giù al confine con Siria ed Iraq. A Diyarbakir, capitale morale di uno stato che non è mai esistito e che non esisterà mai, il cosiddetto Kurdistan turco. A Şirnak, dove ogni settimana i guerriglieri del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, che dal 1984 lotta per uno stato curdo indipendente, uccidono decine di militari della Mezzaluna, per la maggior parte ragazzi di leva, di 18-20 anni. Una guerra intestina, e che in oltre 30 anni ha provocato quasi 40mila morti e che, se la Turchia compirà un intervento armato di terra nella Regione autonoma curda del Nord Iraq, rischia di destabilizzare definitivamente una territorio già abbastanza travagliato.
Contrariamente a quanto si pensi, i curdi sono un popolo molto variegato, anche quelli che vivono nello stesso Paese. Parlano dialetti differenti, soprattutto due, il kurmanci e il zaza. Spesso praticano anche fedi diverse. Tendenzialmente sono musulmani, ma soprattutto nelle zone vicine al confine con l’Iraq e la Siria, ci sono stati curdi che si sono convertiti al Cristianesimo. Molti, poi, seguono la dottrina alevita, che predica un Islam più moderato e che ha avuto in passato non pochi problemi con il governo turco. Di questi 12-15 milioni la maggior parte vive integrata nella società turca. Molti conducono una vita quotidiana normale e se gli parli del Pkk inorridiscono. Altri chiedono al governo uno statuto speciale per la regione, altri ancora, una minoranza, ha scelto la lotta armata o di appoggiare chi ha deciso di impugnare i mitra. Dal punto di vista legale non vi sono disparità di sorta e curdi e turchi alla nascita godono dei medesimi diritti.
Indipendenza, no grazie
Nella Türkye Büyük Millet Meclisi, la Grande assemblea nazionale turca, ossia il Parlamento, siedono 26 deputati del Dtp, il Partito curdo per la società democratica, regolarmente eletti alle elezioni dello scorso 22 luglio e che stanno partecipando, insieme alle altre componenti politiche, alla bozza della nuova Costituzione. Tutto normale, apparentemente. I problemi sorgono quando i primi chiedono specifici riconoscimenti etnici, linguistici e culturali. La maggior parte dei curdi che vive in Turchia in questo momento non è interessata alla creazione di uno Stato indipendente. Lo dice un sondaggio dai risultati sorprendenti, pubblicato di recente dal quotidiano Turkish Daily News: mostra che appena l’1% dei residenti nel sud est del Paese vorrebbe un Kurdistan indipendente, anche fuori dal territorio turco. Ma in compenso chiedono il diritto di poter studiare la loro lingua a scuola e di vedere riconosciuta l’etnia curda nella Costituzione. In questo periodo il Parlamento è impegnato in un vivace dibattito sul tema, ma le probabilità che i curdi possano ottenere qualcosa sono scarse, vista la situazione di grande tensione che si è venuta a creare. Per questo non è un’esagerazione affermare che la recrudescenza del Pkk ha nuociuto prima di tutto alla minoranza curda. Una coincidenza che fa sorgere anche qualche dubbio.
Dall’altra parte c’è una nazione monolitica, che ancora oggi, a tratti, preferisce appianare la straordinaria stratificazione culturale presente sul suo territorio anziché metterla in evidenza. “Non si può dividere la Patria”. “Felice di essere turco”. Lo trovi scritto a caratteri cubitali sulle montagne, visibili a chilometri di distanza. A Van, ad Hakkari, a Mardin. A Diyarbakir. La gente parla curdo, non considera Atatürk il “Padre della Patria” e porta avanti le tradizioni di un’etnia che ha alle spalle secoli di storia. Se nomini la parola “Kurdistan” a İstanbul ti dicono che parli di qualcosa che non esiste. Se chiedi alla gente in giro per il Paese cosa pensi della questione curda, ti rispondono che vogliono distruggere l’unità della Nazione fondata da Atatürk, che uno stato curdo non esiste e non si capisce perché debba nascere proprio in seno alla Turchia.
Le strade di Diyarbakir
Ma Diyarbakir, piaccia o no al forte e rispettabile spirito di identità che caratterizza il popolo turco, è un mondo a parte. La lingua è diversa, il cibo è diverso, il modo di vestire è diverso, anche nei veli bianchi indossati dalle donne, che proprio in questo stato che non esiste subiscono le maggiori violenze a causa di un sistema sociale che è ancora molto primitivo e fondato su un’organizzazione per clan. Per le strade della “capitale” Diyabakir la parola d’ordine è miseria. Anche se le forze dell’ordine hanno la situazione sotto controllo, il senso che si prova camminando per le sue vie e i numerosi vicoli è di profondo disagio. Uno stato d’animo che contrasta con il carattere aperto della sua gente e con i colori accesi delle loro vesti tradizionali. I bastioni della città, in basalto nero e recentemente restaurati, vengono utilizzati come pascolo per le pecore, le arcate e i cunicoli come bagno e deposito per la spazzatura. I bambini usano le montagne di terra dei cantieri come scivoli per giocare. Molti non vanno a scuola e passano la loro giornata chiedendo l’elemosina, od offrendosi come guide a viaggiatrici solitarie, alle quali insegnano qualche parola nella loro lingua: il curdo, non il turco. Un’immagine che non rende giustizia a questo luogo, che è una delle città più antiche del mondo e che potrebbe traboccare di bellezza, se solo l’odio e la povertà non percorressero le sue strade.
La questione curda è una delle più grandi spine nel fianco della Turchia Moderna e dell’Unione Europea. Una spina che trova le sue radici nel Medio Evo e la sua nascita “ufficiale” dopo il trattato di Losanna del 1923, quando fu cancellato il proposito di creare uno stato curdo indipendente sancito dal trattato di Sevres del 1920. Da quel momento, in fasi più o meno alterne, con momenti di maggior violenza e di relativa distensione turchi e curdi sono vittime dello stesso odio. Il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, organizzazione terroristica riconosciuta come tale anche da Europa e Stati Uniti, da oltre trent’anni conduce una lotta contro il governo turco per il riconoscimento di uno stato indipendente, finanziato da fonti di cui, ancora oggi, non si conosce la provenienza. Ankara ha le sue colpe, ma fino a un certo punto. Il governo ha cercato di fronteggiare la situazione, a tratti anche coraggiosamente. A fine 2005 il primo ministro, Recep Tayyip Erdogan, si era recato personalmente a Diyarbakir, tenendo un discorso che aveva aperto la strada a nuove speranze, in cui il premier aveva anche annunciato nuovi investimenti nella regione.
Un messaggio positivo a cui i Tak, i Falchi alati per la Libertà del Kurdistan, braccio armato del Pkk, ha risposto con una raffica di attentati, spesso in località turistiche, mietendo decine di vittime innocenti. La grande tregua unilaterale dichiarata dopo l’arresto del leader del Pkk, Abdulah Ocalan, nel 2002, è finita nel 2004. Dall’altra parte, però ci sono torture e persecuzioni. Da anni le organizzazioni umanitarie, fra cui Amnesty International, hanno denunciato la sistematica violazione dei diritti umani da parte del governo di Ankara ai danni delle popolazioni che vivono nel Sud-Est del Paese. Lo scorso ottobre, l’esecutivo guidato da Recep Tayyip Erdogan ha respinto l’appello alla tregua lanciato dal leader dei separatisti curdi Abdullah Ocalan, attualmente detenuto nel carcere di İmrali, che aveva esortato i ribelli a deporre le armi e ad abbandonare la lotta armata contro le forze di Ankara. In mezzo alle ragioni, ai torti di entrambe le parti c’è il dramma di un popolo, quello curdo, che in parte si considera senza terra, e di una nazione, quella turca, che ha il diritto di garantire sicurezza e prosperità a tutti i cittadini che la abitano. Turchi e curdi.