«Il Concilio è un grande punto di partenza che sancisce una svolta epocale all’interno dell’autocoscienza e della missione della Chiesa cattolica nella modernità», dice il Presidente dell’Associazione Teologica Italiana. «Esso tuttavia non segna una rottura ma una riforma nella continuità e – come si è detto – ha un unico parallelo, quanto alla sua portata, nella storia della Chiesa: il cosiddetto Concilio di Gerusalemme, quando la comunità cristiana uscì dal cerchio ristretto dell’appartenenza all’Israele storico per aprirsi a trecentosessanta gradi verso le culture e i popoli del tempo». Secondo Coda, la Chiesa considera il Vaticano Secondo non come un mero punto di arrivo del rinnovamento, ma una «vera pedana di lancio verso il futuro». Anche se, proprio avendo una tale portata, è ancora «difficile dare una valutazione ponderata sulla sua ricezione, possibile solo nel lungo periodo».
Küng critica Wojtyla, e in parte Ratzinger, per aver dimenticato la Chiesa del Concilio e “restaurato”, in un certo senso, la Chiesa tridentina. Come giudica questa accusa?
Giovanni Paolo II, in realtà, è un papa che è maturato alla scuola del Concilio, basta leggere la sua opera Alle fonti del rinnovamento conciliare, che scrisse da Vescovo per mediare l’insegnamento del Concilio alla sua Chiesa di Cracovia. In fondo, la sua prima enciclica, Redemptor hominis, altro non è che il progetto di rendere efficace quanto espresso nella Gaudium et Spes (la Costituzione sulla Chiesa nel mondo di oggi), dove l’uomo è visto come la via di Cristo e della Chiesa. C’è poi un altro aspetto importante del suo ministero, nella linea del Concilio, ed è la giornata di preghiera per la pace delle religioni ad Assisi, che egli definì icona della Chiesa conciliare. Un terreno sul quale invece egli non ha molto operato nella realizzazione del Concilio è stato quello più ad intra nella vita della Chiesa, nel senso di favorire l’effettiva dinamica della sinodalità e cioè della partecipazione e della corresponsabilità a tutti i livelli. Benché sia stato proprio papa Wojtyła ad aver avuto il coraggio di un’affermazione, che mi pare ancora poco recepita, secondo cui i grandi carismi di rinnovamento sono coessenziali all’identità e alla missione della Chiesa al pari dell’istituzione ministeriale.
Quanto a Benedetto XVI?
Questo papa è certamente più attrezzato come teologo nel leggere la dinamica della vita interna della Chiesa e le ingenti sfide culturali dell’epoca presente, e ha dato in questo senso, come dice anche Küng, dei segnali importanti fin dall’inizio del suo pontificato. C’è tuttavia una difficoltà di propositività all’altezza dei segni dei tempi a mio avviso molto radicata nella situazione generale della Chiesa oggi, che esige un’apertura disarmata all’azione dello Spirito nella lettura del Vangelo e il coraggio di rischiare nuove forme di fedeltà e testimonianza di ciò che è essenziale nella fede in Gesù Cristo.
Su alcuni punti sembra esserci in effetti una sorta di “arretramento” rispetto al momento del Concilio. Penso all’ecumenismo e all’affermazione conciliare della possibilità di salvarsi anche fuori della Chiesa (nella Nostra Aetate si parla di “semi di verità” presenti nelle altre Chiese cristiane). Al contrario, la Dominus Jesus, scritta da Ratzinger e firmata da Giovanni Paolo secondo, va nella direzione opposta: nulla salus extra ecclesiam.
Il tema della salvezza fuori dei confini visibili della Chiesa è un tema acquisito nella tradizione ecclesiale ed è ripreso dal Concilio nel contesto di un’ecclesiologia coerente: là dove c’è retta coscienza ed esercizio della libertà in riferimento al bene e alla giustizia, lì opera la grazia di Cristo. Questo non è dunque un tema oggetto di discussione. Ciò che talvolta può dare l’impressione di un arretramento, nella comunicazione che viene data di questi temi dai mass media, riguarda piuttosto l’atteggiamento in cui ci si pone di fronte ai fedeli di altre religioni e a coloro che affermano altre convinzioni. La Dominus Jesus, in realtà, è espressione di una convinzione fondata nella coscienza della Chiesa: il fatto che chi segue la propria coscienza ed opera in riferimento al bene è visitato dalla grazia, e quindi è oggetto della salvezza in Cristo, non deve far dimenticare quella pienezza e universalità di vita e di amore che ci è offerta da Dio in Gesù Cristo. La Dominus Jesus direi che è un caso tipico in cui si è messo il piede sul pedale del freno non per tornare indietro, ma per capire bene come agire nel senso dell’accelerazione impressa in questo ambito, ad esempio, dalla giornata di Assisi.
Questo tema si ricollega a quello del rapporto col mondo, che è il tema della Gaudium et Spes. Sembra che la Chiesa di oggi rimetta in discussione quella visione ottimista della storia, denunciandone l’eccessivo progressismo e forse una scarsa consapevolezza della presenza del male. È così?
Certamente, è un dato di fatto, il Concilio respira di quel momento particolare della storia occidentale, e più latamente planetaria, che sono gli anni sessanta, Kruscev, Kennedy, il disgelo e il boom economico…: insomma, un momento di slancio in avanti, dopo il quale abbiamo però sperimentato il crollo dei regimi del comunismo reale, i disastri del sistema capitalistico rampante in termini di impoverimento delle aree del mondo non sviluppato e le forme, prima non prevedibili, del terrorismo su scala scientifica. Si è perciò verificato anche un mutamento spirituale e culturale, nel senso che quell’ottimismo ha ceduto il passo a una consapevolezza più seria delle molte difficoltà che incombono; anche la Chiesa si rende conto adesso, più che al tempo del Concilio, delle enormi sfide che all’umanità oggi vengono poste.
Ma non c’è il rischio così di “storicizzare”, relativizzare, il Concilio (persino da una posizione non storicista)? E rinunciare al ruolo di “avanguardia”, di portavoce del mutamento etico della società da parte della Chiesa?
Sì, questo pericolo c’è. La Chiesa in quanto profezia di una umanità nuova, così com’è stata proposta nel Concilio e percepita nel mondo, può correre il rischio di essere interpretata invece come la paladina della conservazione. Molte volte è questione di linguaggio e più in profondo della modalità di rapportarsi alla situazione dell’uomo e della società contemporanea: non ci si può porre dal di fuori brandendo il criterio del discernimento definitivo sulle varie questioni, ma occorre, come insegna il Concilio, farsi compagni di viaggio della donna e dell’uomo di oggi, nella ricerca, nelle ansie, nelle istanze positive che ci sono.
A questo proposito, però, talvolta si ha la sensazione che la Chiesa di oggi, invece che essere quel Popolo dei credenti nel cammino della storia come diceva il Concilio, si concepisca piuttosto come societas perfecta; una visione forse più tridentina. O no?
Proprio perché è inserita nei ritmi della storia, e oggi stiamo vivendo un riflusso identitario di fronte a dinamiche che interessano globalmente l’esperienza umana, anche la Chiesa può incorrere nella tentazione di un tale riflusso: un pericolo da cui guardarsi. L’equilibrio da mantenere è quello tra la fedeltà all’identità evangelica più radicale e quell’apertura a trecentosessanta gradi che è conforme proprio all’identità evangelica più vera, come mostra il Cristo sulla Croce che vive la sua identità nel dare la vita per tutti. Questa è anche la croce della Chiesa, la quale con le proprie mani liberamente si stende sulla croce di Cristo e non deve più schiodarsi da essa, ma tenere vivo in sé, e nell’annuncio che fa, il paradosso del Vangelo.
Eppure si avverte una certa difficoltà proprio rispetto al tema del cambiamento, ovvero del tentativo di autoriformarsi senza perdere l’identità di cui lei parla. Sembra che talvolta si preferisca, per evitare il conflitto, mantenersi saldi sulle posizioni del passato: mi riferisco ad esempio alle questioni lasciate aperte dal Concilio, come il tema della contraccezione, del celibato dei preti, del sacerdozio femminile. Temi sui quali oggi non sembra esserci fermento.
In fondo, l’insegnamento e la prassi della Chiesa non hanno ancora fatto i conti sino in fondo con quella maturazione antropologica che si esprime nella nuova coscienza dell’identità e del ruolo femminile, nella Chiesa e nella società, e di conseguenza nell’esercizio della sessualità (nel senso integrale della parola) in un modo più dinamico e antropologicamente pertinente. Non dimentichiamo però che il Concilio ha posto premesse importanti in questo senso, quando per esempio ha definito il significato della sessualità non solo in riferimento alla generazione, ma all’espressione della sponsalità e dell’amore coniugale, e che Giovanni Paolo II ha scritto la Mulieris dignitatem. Si tratta di temi antropologicamente delicati e importanti, che richiederebbero un riflessione pacata, libera, ad ampio respiro.
Al tempo stesso però la rivendicazione dei temi morali occupa il centro della scena, mentre i temi teologico-evangelici sono messi in ombra. Perché questa “ossessione” verso i temi etici?
Il problema dell’identità antropologica è molto grosso: ci sono pericoli di deriva in tutti i sensi e addirittura rischi di disintegrazione dell’identità dell’uomo e della donna. E allora la sindrome che talvolta si manifesta nelle prese di posizione ufficiali della Chiesa è quella della riaffermazione forte dei principi per far fronte a queste possibili derive. Questo però non è sufficiente, e molte volte non è neppure la strada più adatta; più urgente è invece una riflessione che sappia agganciare queste tematiche a una visione positiva dell’essere umano nel disegno di amore di Dio, rilanciando un’adeguata e ricca proposta antropologica. Ciò richiede un’impegnativa conversione di mentalità e di linguaggio e un serio cammino di apertura a tutte le posizioni degne di essere in attenzione.
Secondo lei, allora, è necessario un nuovo Concilio, come il card. Martini aveva auspicato?
È difficile che alcune tematiche di grande spessore possano essere dibattute senza un’assemblea qualificata che esprima l’autocoscienza della Chiesa oggi in ascolto del perenne messaggio di Cristo e del suo rendersi attuale oggi in ascolto dello Spirito; ma è al tempo stesso difficile dire se i tempi sono maturi per un Concilio, perché sarebbe opportuna prima una maturazione a livello locale nel segno della sinodalità e del discernimento comunitario. Credo che la proposta di Martini abbia un positivo significato provocatorio, per dire che ci sono questioni che devono in ogni caso essere affrontate. Come e in quali tempi è arduo dirlo: c’è bisogno – ripeto – di una seria preparazione comune.
Lei ha appena partecipato al convegno della Fondazione Italiani Europei dove ha molto fatto discutere l’affermazione dell’ex Ministro degli Esteri Massimo D’Alema sulla Chiesa attraversata dalla tentazione demoniaca del potere. Coma la commenterebbe? E come vede il rapporto con la politica della Chiesa di oggi, specie se comparato col rifiuto conciliare dell’alleanza tra trono e altare?
Durante il Convegno ho detto che la posizione di principio e anche strategica della Chiesa all’interno della società è quella che Gesù definisce con la metafora del sale e del lievito: un’azione di presenza attiva, responsabile e critica, che rifugge da atteggiamenti precostituiti o pregiudiziali di potere o da strategie che non siano misurate, appunto, sulla misura evangelica del servizio e dell’amore. La comunità cristiana, come tutte le comunità umane, non è immune dalla tentazione di usare scorciatoie, d’incappare in cortocircuiti, di utilizzare metodi impropri anche per affermare punti di vista positivi. La linea da battere è un’altra, consiste nell’essere radicalmente coerenti con la scelta evangelica del sale e del lievito. D’altra parte, non bisogna identificare la posizione della Chiesa, specie in campo sociale e politico, con gli orientamenti espressi a livello strategico dalle gerarchie al di là della riaffermazione dei principi che loro compete: la Chiesa non s’identifica semplicemente con la gerarchia, ma è popolo di Dio, ricco anche oggi di fermenti innovativi, di opzioni e di esperienze che cercano di tradurre nel qui e nell’ora della storia il messaggio di Gesù per l’uomo di tutti i tempi.