Questo testo è la trascrizione di una conversazione tenutasi il 4 giugno a Istanbul, durante gli Istanbul Seminars di Resetdoc. Andrew Arato è Dorothy Hirshon Professor in Teoria sociale e politica alla New School University, e direttore di Constellations. Benjamin Barber è Gershon and Carol Kekst Professor di Società civile all’Università del Maryland, ex consigliere del presidente Clinton e l’autore di “Jihad vs. McWorld” e “Consumed”. Jim Sleeper è lecturer di scienze politiche a Yale e autore di “Liberal Racism”. Il forum è stato coordinato da Daniele Castellani Perelli, online editor di Resetdoc.org.
Daniele Castellani Perelli: Anche Hillary Clinton ha sfoderato la carta della paura, con il famoso spot tv in cui un telefono squilla alle 3 del mattino, e l’interrogativo su «chi vorreste rispondesse». Come può un candidato democratico dimostrarsi incisivo ed efficace su questioni come la lotta al terrorismo, senza tuttavia giocare la carta della paura?
Andrew Arato: Il punto, in realtà, è se una strategia del genere possa funzionare o meno. L’allarme terrorismo è stato oltremodo enfatizzato, questo è chiaro, ma di fatto non si è dovuto far fronte a particolari attacchi. La questione andrebbe ridefinita in termini politico-strategici. Siamo sicuri, tuttavia, che insistendo su questo punto si raccoglieranno frutti? Con John Kerry non è andata così, e non sono affatto sicuro che Obama desideri cimentarsi in un secondo tentativo. Al suo posto, cercherei piuttosto di mettere assieme un solido team di esperti in materia di sicurezza. Non mi pare che vi siano altre opzioni, dopo tutto… Obama non ha le credenziali necessarie in questo campo, perciò deve avvalersi di un gruppo di consiglieri capaci di colmare le sue lacune. È assai improbabile, per altro, che la stampa possa dipingerlo come un leader forte e risoluto quanto McCain. Su questo terreno, purtroppo, McCain è il più forte. Non saprei dire per quali ragioni il candidato repubblicano vanti tale primato, né perché egli sarebbe effettivamente più affidabile e competente di Obama su questo versante. Sia il mondo dell’informazione che gli elettori, tuttavia, al momento la pensano in questa maniera. L’unica via d’uscita risiede nella scelta di sminuire, in un certo senso, la portata del problema, ad esempio designando il giusto vicepresidente. Se, per varie ragioni, Obama optasse per Hillary Clinton, un personaggio di tutto rispetto, egli dovrebbe rendere noto già ora, almeno a grandi linee, quale sarà il suo team di sicurezza e politica estera, tentando in ogni modo di persuadere l’opinione pubblica della sua competenza e risolutezza.
Benjamin Barber: Per come la vedo io, ai democratici resta sempre e comunque una scappatoia: spostare l’attenzione su un altro argomento. Ricordate Bill Clinton e il tormentone “It’s the economy, stupid”, no? Beh, credo che l’escamotage possa ancora funzionare, giacché a meno che non si verifichi un’altra tragedia negli Usa, che calamiti tutta l’attenzione sull’allarme terrorismo, oggi è effettivamente l’economia a suscitare maggiore inquietudine e preoccupazione. Il Paese è ancora scosso dalla crisi del settore immobiliare, seguita a ruota dalla stretta creditizia e compagnia bella. E la situazione non sembra accennare a miglioramenti. L’economia, per altro, è l’unico punto di forza di Obama e dei democratici, e al contempo la principale debolezza dei repubblicani e in particolare di McCain; anche se quest’ultimo potrebbe aggirare lo scoglio designando il giusto vice (cioè un politico che si destreggi bene nel mondo degli affari qual è Mitt Romney, secondo i pronostici del sottoscritto). Il nodo dell’economia, dunque, sarà probabilmente al centro della sfida presidenziale. Ciò non toglie che lo schieramento democratico nel suo insieme verrà messo a dura prova: compresa Hillary Clinton, che pure ha puntato molto sulla sua esperienza e competenza in questo campo…
Jim Sleeper: Non è possibile minimizzare la “guerra al terrore”. È necessario invece restare sull’offensiva e rimarcare la dannosità e inadeguatezza delle scelte compiute dai repubblicani su questo versante. Se di qui a novembre si verificasse un altro attacco terroristico, direi che avremmo la prova provata della scelleratezza con cui sono state dilapidate le risorse – anche economiche – della nazione, e a che pro? Abbiamo sacrificato tutte le nostre libertà, ma qual è stata la contropartita effettiva? Ecco il tasto su cui i democratici dovrebbero insistere, nell’eventualità in cui si verificassero altri attacchi alla nazione.
Benjamin Barber: Sappiamo bene che la minoranza artefice del terrorismo è imbevuta di tale e tanto narcisismo e stupidità da paventare un’eventuale vittoria di Obama, poiché egli la farebbe inevitabilmente sentire spiazzata, negandole quella sorta di tacito appoggio di cui attualmente gode. Agli occhi dei terroristi, pertanto, la vittoria di McCain offrirebbe un maggiore incentivo proseguire lungo questa china. È dunque probabile che stiano tramando qualcosa, nell’eventualità in cui le cose andassero per il verso sbagliato…
Andrew Arato: Il modo di ragionare dei terroristi, tutto imperniato sul tornaconto personale, ha una sua logicità. Con ogni probabilità, un’eventuale vittoria Obama li farebbe andare su tutte le furie. Sì, i terroristi preferirebbero vedersela con Bush. Nel discorso di Osama Bin Laden rilasciato alla vigilia delle presidenziali, ad esempio, George W. è puntualmente colpito dai loro strali. Ma Osama sa che Bush non esce per nulla danneggiato dalle sue invettive, che indicano implicitamente una strizzata d’occhio ai democratici: è vero il contrario. Dunque sì, esiste la possibilità che i terroristi tornino a farsi sentire. Ma non sono così sicuro che ne abbiano le capacità.
Daniele Castellani Perelli: Obama ha torto o ragione nel sostenere che l’America può dialogare con l’Iran di Ahmadinejad? Il senatore democratico può farsi promotore di un approccio più equilibrato nei riguardi del conflitto israelo-palestinese? E saprà resistere alle pressioni della «lobby israeliana» (ammesso che secondo voi esista)?
Jim Sleeper: Quel che è certo è che non osteggerà Israele nel corso della campagna elettorale… (risate) Le questioni che lei ha sollevato sono ben distinte, ed è molto interessante discuterne. Qualche tempo fa, quando Robert Kagan, uno degli intellettuali e storici neo-con più in vista, lanciò improvvisamente l’idea di dialogare con l’Iran, molti dei circoli a lui vicini reagirono con un silenzio pressoché scioccato. Obama può senz’altro giocare la carta del dialogo, ma lo farà poco o nulla nel corso di questa campagna. Quanto all’approccio al conflitto israelo-palestinese, cedo volentieri il testimone ai miei interlocutori… (risate).
Benjamin Barber: Credo che occorra anzitutto chiarire due aspetti. Obama ha incontrato non poche difficoltà su questo versante, alle quali deve a mio avviso trovare un rimedio. Il problema non sta affatto nell’aver dichiarato che “dialogheremo con tutti: amici e nemici”: è un’idea più che saggia. Le insidie si presentano nel momento in cui egli dà l’impressione di una certa superficialità, come se bastasse semplicemente bussare alla porta di costoro e chiedere di “scambiare quattro chiacchiere e metterci d’accordo”. In realtà, ogni situazione di dialogo, anche con i propri amici e alleati, richiede un’estesa e attenta preparazione. Non si intavola mai una discussione se non si conosce, almeno in parte, il probabile esito della stessa.
Daniele Castellani Perelli: Obama ha commesso un errore, dunque…
Benjamin Barber: …a livello tattico, non di strategia. Dichiarare che “siamo disposti a dialogare con amici e nemici, a qualunque nazione essi appartengono”, è una mossa saggia e lodevole sul piano strategico. Dal punto di vista tattico, però, lasciare intendere che ciò sia possibile con un semplice schioccar di dita… Ma Obama si è sempre guardato bene da un simile approccio e – è persino ovvio ricordarlo – ha posto ogni volta come requisito una serie di negoziati preliminari. Veniamo ora alla seconda questione: l’approccio verso l’Iran e Israele, ma anche Cuba e il Venezuela, ossia tutti i Paesi considerati “antagonisti” dell’America. Ebbene, credo che Obama sconti qui il problema esattamente opposto a quello di Nixon. Quest’ultimo rivendicava per sé, e per sé soltanto, la facoltà di recarsi in Cina: se qualcun altro avesse osato compiere quel viaggio, sarebbe stato bollato dallo stesso Nixon come “comunista”… (ride) Nel momento in cui egli sbarca in Cina, invece, nessun alter ego può rivolgergli l’infamante accusa. Per certi versi, è molto più semplice, per un politico con forti e solide credenziali filo-israeliane, anti-cubane e anti-iraniane in materia di sicurezza nazionale, alzarsi la mattina e annunciare che “dialogheremo”. Per quanti hanno dovuto mostrare a ogni piè sospinto il pugno duro verso Cuba, l’Iran, Hezbollah o Hamas, invece, tutto si fa più complicato, anche dopo l’insediamento al potere. Difficilmente essi potranno muovere un dito, senza che si scatenino accuse di “morbidezza” verso i palestinesi, gli iraniani, e via andare… Dunque sì, questo sarà un campo minato per Obama. Anche se la sua tempra e lungimiranza lo indurranno senz’altro a proseguire per la strada intrapresa, egli dovrà superare molti ostacoli insidiosi, specie nel primo anno dall’eventuale insediamento, prima di compiere i passi necessari.
Jim Sleeper: È bene ricordare un significativo precedente: John F. Kennedy. Kennedy era considerato un democratico, e in quanto tale fu costretto a mostrare il pugno duro con la sua campagna sul missile gap e, a seguire, la disastrosa missione nella Baia dei Porci. Si sentì obbligato ad agire in tal maniera. Vogliamo sperare che Obama non incappi in simili errori…
Andrew Arato: Per quanto riguarda il primo punto, è bene ricordare Obama si è espresso al plurale – ha detto “dialogheremo” –, come se fosse già il presidente in carica. Sebbene l’esempio di Kennedy inviti istintivamente a proseguire in tale direzione, però, non è necessariamente questa la strategia più idonea. L’ideale sarebbe mettere assieme un valido team di esperti, e avviare tutti i meccanismi cui si è già accennato. Nondimeno, l’idea di dialogare con tutti, amici e nemici, è giusta e fondata. L’appeasement risponde a una strategia completamente diversa, e affibbiare questa definizione al progetto di Obama sarebbe assurdo. Alla luce delle promesse fatte durante la campagna elettorale, il primo problema cui l’Obama presidente dovrà far fronte è il conflitto in Iraq. Per avvicinarsi a una concreta soluzione, però, non è sufficiente imbastire contatti con le autorità del Paese. Urge un compromesso con l’Iran, in assenza del quale il groviglio iracheno resterà tale e quale. Quanto al Vicino Oriente, devo smentire in parte quanto è stato appena detto: l’esempio su “Nixon in Cina” è ficcante, ma va anche ricordato come Jimmy Carter e Bill Clinton abbiano dato un esempio di buona politica in quella regione: il primo riuscì a negoziare un importantissimo accordo, e il secondo sfiorò un compromesso storico, culminato con il summit di Taba, poi sfumato soltanto a causa delle imminenti elezioni israeliane. Ora, otto anni di presidenza Bush hanno avuto ripercussioni senz’altro deleterie sul processo di pace, e il fatto che gli Usa non esercitino pressioni di alcun tipo su Israele è, a mio avviso, un problema sempre più preoccupante. Nessun presidente americano l’ha fatto in passato e, come è già stato detto, per il momento Obama non ha annunciato alcuna inversione di rotta.
Jim Sleeper: McCain, intanto, ha raccolto attorno a sé tutti i circoli neo-con, e si avvale della loro costante collaborazione. Israele a parte, forse è possibile far leva sul fatto che sono questi individui ad aver trascinato l’America in Iraq… e McCain che cosa fa? Va a braccetto con loro. Non sto insinuando che essi rappresentino la lobby israeliana e debbano perciò essere smascherati in pubblico, ciò sarebbe ingiusto. Ma insistere su questo punto potrebbe rivelarsi utile…
Andrew Arato: Hanno scatenato un conflitto sanguinoso, hanno fatto promesse poi rivelatesi ridicole, hanno raccontato bugie…
Benjamin Barber: Vorrei ricordare che oggi, qui a Istanbul, a questo tavolo siedono tre intellettuali americani intenti a discutere di affari internazionali, Israele, Cuba, il terrorismo e via dicendo. Se guardiamo agli Stati-chiave da cui dipenderà l’esito di queste elezioni – tra cui Ohio, Pennsylvania, West Virginia, New Mexico, Missouri e tutti gli “Stati in bilico” –, però, è evidente che i voti decisivi non restano appesi alle problematiche di cui stiamo discutendo, eccetto forse la questione razziale. I temi cruciali e che tengono la popolazione con il fiato sospeso sono ben altri, ad esempio l’economia. Da lì nascono i problemi che i comuni cittadini sperimentano sulla propria pelle, con cui fanno i conti tutti i santi giorni, e di cui pagano direttamente gli effetti. Per questo mi sento di affermare, forse con un pizzico in più di ottimismo rispetto a Jim, che i democratici hanno ottime probabilità di riportare una vittoria schiacciante alle prossime elezioni, in entrambi i rami Congresso così come alla Casa Bianca. L’economia americana, infatti, è ormai in condizioni così tragiche che, quando verrà il momento di esprimere il proprio voto, gli elettori si schiereranno non tanto con Obama, quanto con i democratici e il “cambiamento”.
Andrew Arato: In ogni caso, Obama farebbe bene a giocarsi tutte le carte a sua disposizione. Come quando ha avuto il coraggio di mobilitare la sua macchina elettorale anche in Florida, cosa che nessuno avrebbe immaginato. In realtà, forte di sondaggi e rilevamenti statistici, egli sa che la comunità vive una sostanziale lacerazione, con la nuova generazione incerta sull’opportunità o meno di proseguire con la vecchia linea politica, complice il giro di vite sulle rimesse in denaro ai parenti in patria. Qui il senatore, con estrema abilità, ha annunciato un parziale cambiamento di rotta. È stata una mossa molto intelligente, dato che il grosso della popolazione di questo Stato voterà comunque per il candidato repubblicano. La Florida potrebbe rivelarsi meno irraggiungibile di quanto oggi non appaia, se Obama riuscisse a conquistare parte del voto cubano. La proposta di dialogare con Ahmadinejad non sta fruttando nemmeno un voto in più, né credo che insistere su questo tasto possa favorire un incremento della quota di elettorato, fermo restando il fatto che parte di esso potrebbe gradire un migliore e più autorevole profilo degli Usa sullo scenario mondiale. Nel caso dei rapporti con Cuba, però, il ritorno in termini di voti potrebbe essere tangibile: è evidente che gli Usa debbano avviare un dialogo con il governo dell’isola e ripensare politiche ormai obsolete, che non hanno minimamente contribuito a mutare il volto del regime. Ecco perché urge esplorare nuove strade, e abbracciare il “cambiamento”. Il cavallo di battaglia per arrivare alla vittoria resta l’economia, su questo sono abbastanza d’accordo. Ma dal nuovo presidente si attendono cambiamenti anche a livello di politica estera. Non vi nascondo che una delle mie più grandi paure è che McCain risulti più convincente di quanto meriti sul dossier iracheno, sfruttando ad esempio l’attenuazione del livello di violenza in quel Paese.
Benjamin Barber: Credo che il primo problema che Obama dovrà affrontare, una volta eletto presidente, sarà come trovare un escamotage per rimangiarsi le tutte promesse fatte durante la campagna elettorale: non vedo in che modo, infatti, le truppe Usa possano essere ridispiegate nel giro di appena 6-12 mesi.
Jim Sleeper: Probabilmente siamo soltanto tre intellettuali che discutono chiusi in una stanza, ma credo che tu sottovaluti l’impatto dei militari impegnati nei teatri di guerra sulle famiglie… Tutti conoscono per via diretta o indiretta qualcuno che presta servizio in Iraq…
Daniele Castellani Perelli: Chi sarà il vincitore, dunque?
Jim Sleeper: Obama, ma di misura…
Benjamin Barber: Obama, e sarà una vittoria schiacciante!.
Andrew Arato: Non vi nascondo che sono piuttosto combattuto… Mettiamola così: do 2 possibilità su 10 a un vero e proprio trionfo di Obama, e (purtroppo) altrettante all’eventuale vittoria di McCain. Per il resto, prevedo una sfida giocata sul filo di lana. Il fatto è che nutro profonda sfiducia verso l’elettorato Americano sin dalle ultime elezioni, quando ha nuovamente consegnato il Paese a Bush. Non posso ancora crederci: come si fa a rieleggere qualcuno che già allora aveva danneggiato così profondamente l’economia con le sue politiche fiscali dissennate, e una non meno disastrosa gestione della guerra in Iraq, mettendo invece alla porta un candidato ben più credibile, affidabile e con un curriculum militare di tutto rispetto? Ecco perché mi dico: se ciò è potuto accadere, non si può di fatto escludere la possibilità che vinca McCain. Per questo sono preoccupato.
Benjamin Barber: Non farti suggestionare dal “fattore Nader”…
Andrew Arato: Oh, sì che mi preoccupo…
Benjamin Barber: Nader può aspirare tutt’al più al voto di 73 amnesici… (risate).
Jim Sleeper: Ricordate la vecchia massima? “È possibile ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per tutto il tempo, ma non è possibile ingannare tutti per tutto il tempo”.
Andrew Arato: Ma McCain è un personaggio alquanto diverso da Bush. E la stampa è troppo blanda con lui. Incredibilmente blanda…
Benjamin Barber: Sì: è possibile ingannare alcuni per tutto il tempo, tutti per qualche tempo, ma la Cnn per tutto il tempo… (risate).
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Traduzione di Enrico Del Sero