Istanbul e le mille culture dell’Islam
Nicola Mirenzi 27 May 2011

Istanbul è una città dalle mille facce, ancora non stanca di lasciarsi rifare il volto. Sempre diversa, questa metropoli metà Europa metà Asia è incessantemente teatro di cambiamenti irrimediabili e rapidissimi. Eppure in essa c’è qualcosa che rimane sempre identico a se stesso, un nocciolo immutabile e fermo. A cui è difficile dare un nome preciso, ma la parola che gli si avvicina di più è anima. «Noi spesso ci concentriamo su ciò che cambia piuttosto che su ciò che rimane uguale», dice a Resetdoc Alan Duben, antropologo della Istanbul Bilgi University e titolare del corso “Istanbul nel ventesimo secolo”. «In effetti è più facile dire cosa muta rispetto a cosa rimane identico. Perché se guardi alla Istanbul degli ultimi cento anni ti rendi conto che i cambiamenti sono stati radicali».

All’inizio del ventesimo secolo gli abitanti della città erano un milione. Oggi non esiste una stima unica. Alcuni dicono dodici milioni, altri quattordici, altri ancora venti. Dipende da quanta parte dell’area metropolitana si fa entrare nella definizione di Istanbul. Ma qualsiasi numero si prenda per buono («la stima più larga è quella più corretta» dice Duben) ci si rende conto dello sconvolgimento che la città ha subito. «L’aumento della popolazione rappresenta però il cambiamento nella sua dimensione più semplice», spiega Duben. «Perché il cambiamento più importante e incredibile è stato in realtà quello registrato in termini di etnie e classi sociali. Nel primo decennio del novecento, Istanbul era composta per metà da musulmani, per metà da non musulmani (greci, armeni, ebrei, levantini e stranieri). Oggi la popolazione non musulmana è meno dell’un per cento. Prima della prima Guerra Mondiale c’erano all’incirca 250 mila greci. Oggi ce ne sono 3 o 4 mila. Pochissimi sono anche gli armeni, forse 60 mila. Ancora meno gli ebrei, 25 mila. E si può dire che la Istanbul multiculturale di un centinaio d’anni fa non esiste più».

Eppure, Istanbul è riuscita a trovare un modo diverso per restare se stessa. «Quando i greci lasciarono la città – racconta Duben – a migliaia cominciarono ad arrivare dall’Anatolia. Alcuni di loro trasferendosi proprio nei posti nei quali prima vivevano i greci, ma anche gli armeni e gli ebrei. Molti di loro si spostarono invece nelle periferie. La maggior parte della sua popolazione divenne così musulmana. Solo che se si guarda alla composizione etnica di questa popolazione, si scopre che è ancora una volta piena di differenze. Ci sono moltissimi curdi e aleviti. Come altre etnie. Di fatto si è creato un multiculturalismo interno all’islam stesso. Anche se non tutti i musulmani sono osservanti. E questo è un altro aspetto della questione. Perché oggi ci sono sia laici sia religiosi. Negli anni trenta, invece, la città era molto più secolarizzata. La religione era repressa dal partito unico kemalista e in giro si vedevano pochi segni dell’islam. Le cose sono iniziate a cambiare dagli anni ottanta. Quando le donne hanno preso a coprirsi e la religione è diventata molto più visibile nella vita quotidiana. Questa trasformazione è in effetti una delle più grandi questioni politiche del nostro tempo. Perché l’idea dei fondatori della Repubblica era che la religione appartenesse al passato. Che significasse qualcosa solo per i poveri e i contadini. Le elite laiciste pensavano che man mano che queste persone si fossero urbanizzate e modernizzate anche la religione avrebbe perso importanza. Ma non è successo. È successo in Europa. Non qui».

Secondo Duben, «il fenomeno nuovo e imprevisto è che si è formata una classe di persone giovani, nate in città, sofisticate, istruite, ma religiose. Questo è qualcosa che la vecchia elite non si sarebbe mai aspettata. Le donne coprono i capelli ma sono vestite con abiti molto belli e ricercati. Non si tratta di persone povere e ignoranti. Ma di una nuova classe religiosa urbana. Che condivide con la classe laica il consumismo, l’integrazione nel sistema capitalistico. E anche questo è una sorta di multiculturalismo. A Istanbul puoi trovare due stili di vita incredibilmente opposti: uno è quello islamico, l’altro è quello laico. Poi ci sono gli islamici più moderati e quelli più radicali. Come anche nel campo dei laici ci sono quelli più estremi e quelli più aperti. E anche quest’altro è un tipo speciale di multiculturalismo».

In questi anni la Turchia e Istanbul stanno vivendo una potente crescita economica. Che si riflette nello stravolgimento dell’architettura e della vita stessa della città. «Solo che se si mette da parte la crescita del potere d’acquisto», ci spiega Coșkun Așar, fotografo e autore di una mostra intitolata “Istanbul Invisibile”, «si capisce che ci sono molte cose di questa città che stanno andando distrutte. L’imperativo della costruzione edilizia a ogni costo sta sfregiando interi quartieri. Senza che nessuno si curi di tutelare un patrimonio che non è fatto di grandi opere d’arti ma di palazzi magari fatiscenti e cadenti, e che però custodiscono la storia e l’identità di questa città».

Așar è stato anche autore di una mostra intitolata “Bambini nell’oscurità”. Che ha come soggetto «i poverissimi ragazzi di strada che fino a un decennio fa scorazzavano sulla Istiklal Caddesi (la via dello shopping e della movida istanbuliota n.d.r.) e sfangavano la vita rubando qualcosa e chiedendo l’elemosina». Il loro numero oggi è molto diminuito, «non perché lo sviluppo economico li abbia salvati, ma perché il governo vuole tenere pulito il centro, e allora li ha ricacciati lontano dagli occhi delle persone per bene. Ma invece di occuparsi di loro, li ha emarginati ancora di più. Peggiorando la loro condizione. E facendoli diventare ancora più violenti e aggressivi. Così, mentre tutti lodano il boom dell’economia, ci sono tantissime persone che vivono al lastrico. Senza prospettive. Solo che nessuno parla di questioni sociali quando deve raccontare Istanbul».

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