“L’Islam? E’ perfettamente compatibile con i diritti delle donne”
Martha Nussbaum con Elisabetta Ambrosi 5 April 2007

Nelle sue riflessioni sulle capacità e i diritti umani, lei ha sempre sottolineato l’importanza sia di uno sviluppo fisico e psichico armonioso sia della possibilità per l’individuo di esprimere le sue idee e emozioni in modo aperto e libero. Se persino nel ricco Occidente le donne soffrono di restrizioni di vario genere, non crede che i diritti di cui lei parla siano sistematicamente negati alle donne nel mondo islamico?

Non penso che esista qualcosa come “il mondo islamico” e di conseguenza “una via” per essere donna al suo interno. Ci sono diversi tipi di musulmani e, così come nel caso dei cristiani e degli ebrei, le donne trovano diversi modi di essere all’interno delle loro tradizioni. I miei amici musulmani in India non corrispondono ad alcun tipo di stereotipo – e perché dovremmo aspettarci che essi lo facciano? – non più, d’altro canto, dei miei amici buddisti o indù. Credo che in tutte le religioni ci siano persone che vogliono vivere una vita tradizionale ed altre che ambiscono invece ad essere parte della modernità, e noi dobbiamo accogliere entrambe e mostrare loro lo stesso rispetto. Quando vado nel quartiere ebreo tradizionale di Boston, chiamato Brookline (come ho fatto recentemente, per comprare dei regali per la Pasqua ebraica), ho visto molte donne che vivono una vita ortodossa (e ciò non significa che non siano avvocate o dottoresse. D’altro canto più o meno tutti a Brookline sono dottori o avvocati!); ma naturalmente ci sono anche persone come me, la cui versione dell’ebraismo è moderna e basata sull’Illuminismo. Possiamo rispettarci l’un l’altro, e lo facciamo.

Tuttavia, lei non potrà negare che esistono casi di drammatica tensione tra religione islamica e condizione femminile.

Come esperta d’India, vorrei farle innanzitutto notare che le tre nazioni islamiche più grandi sono l’Indonesia, il Pakistan e l’India. Ci sono circa gli stessi musulmani in India che in Pakistan, anche se in India ovviamente sono una minoranza. Proprio recentemente ho scritto un libro sulle tensioni tra indù e musulmani, per cui conosco bene questo tema (il libro è intitolato The Clash Within: Democracy, Religious Violence, and India’s Future, e uscirà in Aprile). Ultimamente ci sono stati due importanti studi sulla situazione dei musulmani in India: uno commissionato dal governo e l’altro, focalizzato sulle donne, portato avanti da due eccellenti sociologi (il cui capo era Zoya Hasan della Jawaharlal Nehru University, che è anche un membro della commissione governativa sulle minoranze). Entrambe le indagini hanno rilevato che i musulmani sono drasticamente poveri e che soffrono di vari tipi di discriminazioni. Tuttavia, la condizione delle donne musulmane non è peggiore, a conti fatti, di quella delle donne indù in tutte le regioni: in altre parole, le variazioni significative sono regionali piuttosto che basate sulla religione. Le donne musulmane sono strenue sostenitrici dell’educazione delle loro figlie, e in molti casi il fatto che i loro figli maschi fronteggino discriminazioni sul lavoro le ha spinte a porre maggiore enfasi sull’educazione delle ragazze.

Insomma, potremmo parlare di un “caso indiano”, che sembra smontare tutti gli stereotipi occidentali.

Dovremmo ricordare che questi musulmani sono spesso molto devoti. Ad esempio, un musulmano estremamente religioso, Maulan Azad, è stato uno dei principali alleati del Mahatma Gandhi, e uno dei primi leader del partito del Congresso. Ma persone come lui non interpretano la loro religione in un modo che fa delle donne cittadini di seconda classe. Voglio ricordare che al tempo dell’indipendenza coloro che protestavano più animatamente contro leggi “progressiste”, per esempio quelle che aumentavano l’età per il matrimonio, erano gli indù tradizionalisti. Le donne devono fronteggiare ineguaglianze in ogni regione dell’India, ma hanno gli stessi identici diritti come cittadini, ed esiste un fronte unito di donne e uomini che attraversa tutte le religioni e che combatte per l’eguaglianza sessuale contro i costumi repressivi. Non c’è dunque ragione per pensare che musulmani siano maggiormente contrari all’eguaglianza femminile che gli indù o i parsi o i cristiani. In tutte le religioni ci sono persone sessiste. Le donne cristiane in India hanno avuto il diritto a divorziare, e in maniera drammatica e travagliata, solo nel 2001, ben dopo che le altre religioni avevano ottenuto quel diritto.

Ma, appunto, questo esempio mostra l’esistenza di una difficoltà. Non a caso alcune intellettuali di peso, mi riferisco in particolare a Ayaan Hirsi Ali, arrivano persino a sostenere che l’Islam è contro le donne e che non c’è mediazione possibile.

Quello che vediamo in alcune nazioni non è l’Islam in sé, ma una sua versione politicizzata che non è un’interpretazione obbligatoria dei suoi testi religiosi. Questo punto è stato sottolineato ripetutamente dai dissidenti delle società in cui questa versione politicizzata dell’Islam è influente, come Shiran Ebadi e Akbar Ganji in Iran. Entrambi sono musulmani devoti ed entrambi insistono, con argomenti convincenti, che non c’è nulla nelle loro proposte democratiche circa la parità dei sessi che sia incompatibile con l’Islam. Sfortunatamente, la gente occidentale spesso non sa molto dell’Islam, così mette in relazione l’intera religione con la sua versione politicizzata di cui magari ha sentito parlare.

Anche Hirsi Ali?

Per quanto riguarda Hirsi Ali, penso che forse avrebbe dovuto trasferirsi in India invece che negli Usa: sicuramente avrebbe avuto migliori chance di avere un ruolo da leader nella vita politica o intellettuale di laggiù, come donna, di quanto ne abbia negli Stati Uniti. Potremmo anche citare il Bangladesh, una democrazia dove l’85 per cento della popolazione è musulmana e dove due donne (entrambe musulmane) sono a capo dei due principali partiti politici.

Arriviamo al problema della compatibilità tra Islam e democrazia. Lei sicuramente avrà notato che il livello della tensione è cresciuto, dopo i violenti attacchi a scrittori e registi occidentali da parte di islamici. Le cito a proposito una recente disputa tra Ian Buruma e Timoty Garton Ash da un lato, e Pascal Bruckner e Ayaan Hirsi Ali dall’altro, sulla possibilità o meno che l’Islam diventi liberale.

Le persone che dubitano della possibilità di un Islam liberale dovrebbero andare a vivere in India per un po’. Per quanto riguarda il dibattito europeo, credo che esso sia basato sull’assunzione secondo cui essere un buon cittadino democratico significa accettare le norme e i comportamenti della maggioranza. Ma perché dovremmo pensar questo? Forse una buona democrazia è un posto dove le persone si esprimono ciascuna a proprio modo, e tuttavia vivono con gli altri rispettandosi reciprocamente. A questo proposito, sto finendo un libro sul tema della libertà religiosa nella tradizione americana e credo che per una volta tanto qualcosa vada detto in favore delle tradizioni della mia nazione. Qui le persone diverse dalla norma non solo ottengono scrupolosa giustizia, che persino John Locke auspicava, ma ottengono anche quelli che vengono chiamati diritti di “accoglienza” (rights of accommodation): ciò significa che non devono osservare alcune norme che peserebbero sulla loro coscienza, a meno che non ci sia uno “stringente interesse di stato”.

Può fare qualche esempio?

Se tu sei ebreo e ricevi una citazione in giudizio per testimoniare in tribunale di sabato, puoi rifiutarti senza alcuna conseguenza penale. Se sei un prete cattolico romano, e stai testimoniando sotto giuramento in un processo criminale, puoi rifiutarti di diffondere le informazioni che hai avuto in confessionale, senza alcuna pena. Se la tua religione ti vieta il servizio militare, vieni esonerato dalla coscrizione militare, senza andare in carcere per il tuo rifiuto. Ancora: se la tua religione richiede l’uso di droghe illegali nelle cerimonie sacre, puoi essere esentato, relativamente a quel contesto, dalle leggi sulla droga. Io credo che questa tradizione di “accoglienza” esprima uno spirito di rispetto per le minoranze che vivono all’interno di maggioranze. Il nostro primo presidente Gorge Washington, motivando ai quaccheri la ragione per la quale non avrebbe richiesto loro di adempiere il servizio militare, disse: “Gli scrupoli di coscienza di tutti gli uomini dovrebbero essere trattati con la più grande delicatezza e tenerezza”“. Bene, vorrei vedere più di questa delicatezza e tenerezza in Europa.

In che senso?

Credo sia spaventoso che le nazioni vogliano bandire il tradizionale velo islamico. L’argomentazione secondo cui le donne velate in strada costituiscono un problema di sicurezza è davvero comica (ho scritto un articolo in proposito su un quotidiano olandese): noi abbiamo a che fare ogni giorno con persone dal volto coperto, dai chirurghi e dentisti agli abitanti di Chicago quando escono in inverno! E nessuno sostiene che ci sia un rischio per la sicurezza, fino a quando uno straniero la cui religione ci sembra non familiare vuole fare la stessa cosa per motivazioni religiose. Per fare un altro esempio: lo stato del New Jersey ha emanato una norma secondo cui nessun ufficiale di polizia può avere la barba e ha licenziato alcuni ufficiali musulmani che si erano rifiutati di radersi. Naturalmente hanno detto che si trattava di una questione di disciplina e sicurezza, ma alla fine è risultato che, in realtà, avevano già permesso ad alcuni poliziotti con problemi di pelle di tenere la barba. Per questo, giustamente, la Corte d’appello degli Usa ha deciso che gli ufficiali musulmani dovevano essere reintegrati senza obbligo di radersi. Insomma, la gente ama l’omogeneità, ma la legge deve difendere i diritti di chi è diverso.

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