di Ayşen Candaş Bilgen, Bogazici University, Istanbul
E’ necessario considerare criticamente l’idea che la popolazione della Turchia sia monoliticamente e maggioritariamente musulmana, e che le persone vivano la religione con lo stesso grado di intensità. Un altro punto che è necessario sottolineare è che vi sono delle differenze significative tra una democrazia musulmana ed una costituzionale, che vengono spesso dimenticate. Io voglio sostenere che una democrazia "islamica", per quanto moderata possa essere, non è sinonimo di democrazia costituzionale, e potrebbe non essere neanche compatibile con essa. In questa nostra era neoliberale, il collegamento tra cultura (o identità o religione) e politica è stato "naturalizzato" al punto tale che la maggior parte delle persone tendono a dare per scontato che una determinata "cultura", data, fissa, ascrittiva, inesorabilmente determini le preferenze politiche. In questo breve saggio io non posso dimostrare perché l’appartenenza religiosa non determina necessariamente l’appartenenza politica, ma il caso turco può aiutare a risolvere dei dubbi riguardo alla correlazione quasi automatica tra religione e politica. Questo è lo scopo più ampio di questo articolo.
La teoria politica contiene un importante filone che considera la "cultura" come una "variabile dipendente", o come un qualcosa che ha bisogno di essere spiegato piuttosto che dato per scontato. C’è anche una forte tradizione di teoria sociologica che cerca di comprendere i modi in cui la cultura si forma, si modifica, si interpreta e reinterpreta all’interno e attraverso il contesto storico, sociale e istituzionale. Come i lavoro di Seyla Benhabib sottolineano costantemente, le tradizioni non sono mai monolitiche; sono sempre molteplici, comprendono valori contraddittori, certamente differenti stili di vita, e di solito anche memorie conflittuali nei riguardi del passato.
La Turchia è a maggioranza musulmana?
Come Habermas ci ricorda, le identità e le culture possono essere preservate solo nella misura in cui le loro tradizioni vengono rinegoziate e valutate in un ambiente libero, e quando i loro valori sono considerati degni dalle persone che le ereditano e che avrebbero il compito di preservarle. Le attuali prospettive teoretiche, che possono essere descritte come diverse versioni del "culturalismo", non sembrano lasciare molto spazio ai destinatari delle culture per rinegoziare e appropriarsi selettivamente delle proprie identità acquisite. Dal momento che analizzare ciò che si cela nella frase "la Turchia è a maggioranza musulmana" ha molto da offrire per mostrare la complessità della questione della cultura ascrittiva, dovremmo spacchettarla e indagare ciò che significa, e che cosa intendiamo riferendoci alla Turchia come ad un paese a maggioranza musulmana. Che cosa è in gioco quando dipingiamo la popolazione della Turchia in un modo piuttosto che un altro, sulla base dell’appartenenza religiosa dei suoi abitanti, e ne traiamo poi delle conseguenze politiche?
Il primo punto che vorrei sottolineare è che suggerendo che una democrazia musulmana non è compatibile con una democrazia costituzionale, non intendo dire che vi sia qualcosa di essenzialmente "sbagliato" nell’islam, né che la teologia islamica sia "essenzialmente" diversa dalle teologie delle altre religioni monoteistiche. Benché io non sia un esperto di teologia, penso che sia corretto dire che la teologia islamica non è fondamentalmente diversa dalle teologie del cristianesimo o del giudaismo. Le caratteristiche della teologia islamica che la distinguono dalle altre religioni monoteistiche non sembrano implicare una "incapacità intrinseca" dell’islam a liberalizzarsi. La similitudine essenziale dell’islam con le altre teologie monoteistiche implica che come gli altri monoteismi si sono liberalizzati, sia attraverso le lotte che attraverso il tempo, così può fare l’islam, e così possono le società musulmane. Dunque quando suggerisco che la democrazia musulmana non è una democrazia costituzionale, non voglio suggerire che l’islam in particolare sia incompatibile con la democrazia, ma che anche altre religioni monoteistiche lo sono state. In verità, ritengo plausibile sostenere che una democrazia ebraica o cristiana sarebbe ugualmente incompatibile con l’idea di democrazia costituzionale.
Se per ipotesi volessimo convincerci del fatto che una democrazia costituzionale e una democrazia islamica (o ebraica o cristiana) sono la stessa cosa, allora non avremmo la necessità di usare l’aggettivo "musulmana" (o "ebraica" o "cristiana") prima della parola "democrazia" in questo specifico contesto. Perlomeno a livello intuitivo sembriamo tutti comprendere che ci sarebbe qualcosa di anomalo in una democrazia islamica, o religiosa, che renderebbe quel regime politico qualcosa di meno di una democrazia costituzionale. Un sistema politico religioso che cerca di governare una società complessa è un ossimoro se si autodefinisce una democrazia. Una democrazia islamica deve necessariamente fare riferimento a un regime venato dalla cultura e dalla visione del mondo dell’islam.
Il secondo chiarimento che desidero fare riguarda la prospettiva che sto assumendo nel formulare le osservazioni che sto per fare nei confronti della Turchia. La complessità del contesto turco rimane a volte parzialmente celata al punto di vista degli osservatori esterni, soprattutto se questi sono alla ricerca di qualche forma di "alterità", e se in un impeto di bontà dipingono questa "alterità" che incontrano come qualcosa di necessariamente e assolutamente benigno. Questo è in parte ciò che accade ai liberal europei e americani quando analizzano un paese a maggioranza musulmana come la Turchia. Per replicare agli atteggiamenti pregiudiziali contro i musulmani nelle loro società, cercano di mettere in risalto le qualità positive dei musulmani o dello stile di vita musulmano, dimenticandosi a volte di applicare gli standard normativi e critici che essi applicherebbero rispetto alle problematiche che si presentano nel contesto politico di casa propria. Questa osservazione di solito calza al caso della Turchia. L’alterità presupposta della Turchia viene solitamente salutata come uno sviluppo positivo, da considerarsi come un modello per la democrazia musulmana in via di realizzazione.
I "musulmani buoni"
La maggior parte di noi che studiamo la Turchia e ne scriviamo, mettiamo in risalto la complessità delle sue caratteristiche, ma questa complessità viene in parte appiattita quando la Turchia viene rappresentata come una democrazia islamica, o come un paese a maggioranza musulmana abitato da quelli che Mamdani chiamava "musulmani buoni". Io vorrei assumere una prospettiva partecipativa nel fare le seguenti osservazioni, e vorrei guardare alle contraddizioni tra musulmani e democrazie costituzionali dal punto di vista dei loro membri cosmopoliti, post- e areligiosi, atei, agnostici, indifferenti, femministi, omosessuali e aleviti. Non pretendo di conoscere tutte le problematiche che riguardano ciascuna di queste identità, ma posso parlare a nome di alcuna di esse, i cui problemi e circostanze specifiche possono essere più o meno generalizzate alle altre all’interno dello stesso gruppo.
Dalla prospettiva delle persone che ho sopra elencato, la spesso celebrata transizione della Turchia verso una democrazia islamica significherebbe l’ascesa di un regime politico in cui i gruppi menzionati sarebbero esclusi. Dicendo musulmani riformati, faccio riferimento al genere di individui musulmani che hanno popolato l’Anatolia negli ultimi sette- o ottocento anni. I musulmani riformati in effetti praticano riti religiosi selettivamente e periodicamente, possono decidere di digiunare o pregare di tanto in tanto o regolarmente, ma solitamente o non sempre seguono i precetti dell’abbigliamento islamico, le donne di solito non nascondono la capigliatura, e spesso non si astengono dall’uso di bevande alcoliche. Noi non possiamo semplicemente assumere che questo tipo di musulmani sia il prodotto dell’ingegneria sociale dei fondatori della repubblica, dal momento che la storiografia ci attesta che alcuni sultani ottomani ansiosi di proibire l’alcol non riuscirono nel loro intento prima degli inizi del XVII secolo nonostante le mortali sanzioni che fino a quel momento avevano introdotto.
Dunque, parlando di una Turchia a maggioranza islamica che si sta ridefinendo come una democrazia islamica, magari senza volerlo finiamo per mettere da parte e ignorare l’esistenza di quei 15-20 milioni di persone che o non si considerano musulmani (intendo dire, se avessero l’occasione di rispondere a questa domanda in un ambiente in cui non debbano preoccuparsi delle conseguenze sociali di questa scelta), o che si considerano musulmani secolarizzati o riformati, mentre i musulmani ortodossi non li considerano o non li considererebbero affatto come musulmani. Il problema della possibile nascita di un nuovo gruppo di esclusi nel contesto di una democrazia islamica è la principale questione di giustizia in questo dibattito, e questa tendenza esclusiva costituisce la differenza tra una democrazia musulmana e una costituzionale. Una democrazia costituzionale protegge tutti gli individui al di là della loro appartenenza religiosa, una democrazia islamica no. Paradossalmente, le minoranze non-islamiche sarebbero meglio protette in una democrazia islamica se i loro membri si identificassero attivamente con la propria chiesa o sinagoga. Ma musulmani aleviti, omosessuali, laici, femministe, persone post- o areligiose nate in famiglie islamiche riformate, o genitori agnostici o atei, sarebbero invece esclusi, non potendo dimostrare alcuna appartenenza religiosa. Da dove vengono i 15-20 milioni di cosmopoliti che attualmente vivono in Turchia? Chi sono? Che cosa fanno in una società che consideriamo essere prevalentemente islamica?
Al di là di come giudichiamo il modo in cui ciò è avvenuto, se lo consideriamo coercitivo o ideologico, totalitario o benevolo, il fatto è che il processo di secolarizzazione della Turchia, promosso dallo stato, è iniziato esplicitamente alla fine del XIX secolo durante il regno ottomano. Se volessimo assumere una prospettiva oggettiva, noteremmo che sia coloro che si considerano al giorno d’oggi musulmani ortodossi, sia coloro che si considerano areligiosi o islamici riformati, sono il prodotto dell’ambiente sociale in cui essi vengono socializzati. Non ha senso sostenere che un tipo di socializzazione è il risultato di "ingegneria sociale" e dunque sbagliata, mentre l’altro tipo di socializzazione sarebbe "naturale" e dunque benigna. Come sosteneva Locke tanto tempo fa, i bambini non vengono al mondo con una religione che essi hanno scelto per propria volontà. L’individuo islamico ortodosso è tanto un prodotto di processi di socializzazione che lui o lei hanno vissuto, quanto lo è l’individuo laico o areligioso.
Riassumendo, gli odierni abitanti cosmopoliti della Turchia sono i discendenti di famiglie che sono state oggetto di un processo di secolarizzazione a cui è stato apertamente dato il via più di 180 anni fa. I musulmani riformati, gli aleviti, i cosmopoliti, le femministe, gli areligiosi, atei, agnostici, e gli omosessuali della Turchia, ammontano oggi a un numero che oscilla tra i 15 e i 20 milioni di persone. Per dare un’idea di quanto sia grande questo numero, basti ricordare ad esempio che la popolazione della Svezia arriva appena a 1/3 dei cosmopoliti turchi. E’ possibile che anche più di 1/3 della popolazione turca, se venissero interrogati circa la propria identità, e se avessero la possibilità di rispondere senza rischiare alcuna conseguenza negativa della loro scelta, nemmeno si dichiarerebbero come musulmani, o in prevalenza musulmani.
Quel terzo della popolazione non sarebbero considerati "musulmani buoni" o neanche "musulmani" dagli ortodossi. A quel punto si dovrebbe decidere se democrazia significa garantire piena libertà culturale ai gruppi ortodossi (e non ai suoi singoli membri) all’interno della società, o se si tratta della inclusione democratica di ciascun cittadino. Se scegliamo la seconda, allora, invece di considerare il riconoscimento da parte delle Turchia dei suoi abitanti musulmani in quanto gruppo dotato di diritti collettivi come una influenza democratizzante, dobbiamo spingere affinché la Turchia riconosca i suoi abitanti non musulmani, areligiosi, non sunniti e cosmopoliti come una minoranza rilevante di cittadini con pari dignità. La questione dell’inclusione democratica in Turchia in genere viene evidenziata solo come la problematica del riconoscimento dei musulmani ortodossi come gruppo. Ma il riconoscimento dei musulmani ortodossi come gruppo renderebbe necessario escludere e zittire le voci dei membri degli altri gruppi e di quegli individui che spesso hanno dei nomi che suonano molto religiosi in apparenza, ma che non sono né ortodossi né particolarmente religiosi, ammesso e non concesso che siano religiosi.
Una politica cripto-sunnita
Il problema dei nomi dal suono musulmano ci offre l’opportunità di analizzare l’attuale regime della cittadinanza in Turchia. Questo regime si presenta in apparenza come solidamente laico, è considerato e spesso criticato per essere troppo laico in questa nostra era "post-secolarizzata", ma il fatto è che l’attuale regime di cittadinanza in Turchia può essere descritto più precisamente come un regime cripto-sunnita. Basta citare due esempi per dimostrare questo punto. Primo, le carte d’identità rilasciate dallo stato a ciascun individuo riportano l’identità religiosa. Coloro che ne fanno domanda, o che ricevono una di queste carte d’identità, non vengono mai interrogati circa la loro appartenenza religiosa. I nomi vengono considerati come sufficientemente indicativi. A meno di non dichiarare esplicitamente di essere membri di una chiesa o di una sinagoga, si viene considerati automaticamente musulmani sunniti. A quanto pare, le uniche opzioni possibili a disposizione di un cittadino turco sono di essere o musulmano sunnita, o cristiano, o ebreo. Si dà per scontato che chiunque debba essere membro di una religione monoteistica, e che tutti debbano possedere una identità religiosa. Inoltre queste identità si considerano come ereditarie e non possono venire cambiate a piacere. Finora si era pensato che l’impostazione laica dello stato controbilanciasse questa politica cripto-sunnita. Ma da quando, sotto l’influenza ritenuta democratizzante della "cultura", l’impostazione laica dello stato non è più considerata una problematica rilevante, e dal momento che chiunque difende la laicità è visto come un militarista, la politica cripto-sunnita sta procedendo spedita verso il dispiegamento del suo pieno potenziale, e il metodo amministrativo neo-ottomano sta facendo un tentativo di riaffermarsi. Da questo punto di vista, la tendenza che possiamo definire come ri-islamizzazione della Turchia, che ultimamente si è intensificata, produce non una democratizzazione, bensì una de-democratizzazione della Turchia.
Secondo, la minoranza islamica alevita, i cui numeri si aggirano intorno ai 10-15 milioni di persone, non viene riconosciuta dallo stato come minoranza. L’establishment sunnita tratta la religione alevita come una sorta di mutazione della "vera" fede sunnita, e si pensa che questo dia allo stato il diritto di iscrivere gli studenti aleviti alle lezioni di religione, obbligatorie alla scuola media e superiore, in cui si insegnano solamente l’islam sunnita e i suoi rituali. Neanche a dirlo, i genitori cosmopoliti, areligiosi, agnostici e scettici dai cognomi apparentemente islamici, che si presentano con la dicitura "Islam" sulle loro carte d’identità, non hanno nemmeno loro una voce in capitolo, i loro figli vengono automaticamente iscritti alle ore di religione sunnita, anche perché anche le carte d’identità dei bambini indicano che essi sono musulmani. I genitori non islamici possono inoltrare una domanda alle scuole, e in questo modo i loro figli sono dispensati dall’obbligo di frequentare queste lezioni, ma così facendo i bambini devono confrontarsi con l’idea di essere in qualche modo "una cosa a parte". L’ideale dell’uguaglianza tra i cittadini riceve il suo primo colpo quando i bambini hanno solo nove anni, quando gli viene rivelata la differenza religiosa dei loro migliori amici. L’EHRC recentemente ha deliberato a nome di un genitore alevita che voleva tenere suo figlio al riparo dalla dottrina sunnita, ma i genitori areligiosi o sunniti riformati ancora non hanno il diritto di inoltrare domande alle scuole allo scopo di non far partecipare i loro figli all’insegnamento della religione sunnita. Va ricordato che fu il golpe del 1980 ad introdurre l’insegnamento sunnita. Proprio gli auto-proclamati guardiani dello stato laico, o i militari in teoria laici, sono stati i colpevoli in questo caso.
Il problema è il seguente: gli abitanti cosmopoliti della Turchia che vivono in questo paese oggi non sono tali perché sono costretti ad esserli, e non sono cosmopoliti per provocare i religiosi, né lo sono per sembrare presentabili agli europei. Sono membri di questa società, laici, musulmani riformati, agnostici, atei, femministe e omosessuali, perché questo è ciò che sono, e questo è il modo in cui hanno scelto di vivere. La maggior parte di loro sono nati in famiglie di agnostici, atei, laici, musulmani riformati e stanno semplicemente cercando di esercitare il loro diritto alla libertà "culturale", se volessimo metterla in termini "culturalistici". Convertire l’attuale regime di cittadinanza cripto-sunnita in una democrazia musulmana a tutti gli effetti, secondo quanto il contesto neoliberale e culturalista globale sembra pretendere, servirebbe solo a creare un dispotismo culturale per le le persone non religiose e areligiose, e per i musulmani non sunniti. Dal momento che l’islam tenderebbe ad essere "inclusivo" nei confronti dei suoi membri islamici, tutte le donne e gli aleviti e gli omosessuali e le femministe, gli agnostici e gli atei con nomi dal suono musulmano e con carte d’identità musulmane, verrebbero subito "inclusi" nello stile di vita musulmano. Questi gruppi di individui non possono avere né una voce in capitolo né una via di uscita in questa situazione. L’islam non permette né l’eresia né l’apostasia. Dire che tu non sei più musulmano, che sei un convertito, che stai facendo degli esperimenti con il tuo stile di vita, o che ti stai confrontando criticamente e filosoficamente con la dottrina musulmana, è semplicemente fuori discussione per quanto riguarda gli attuali precetti dell’islam.
L’islam non ha mai incontrato una Riforma, e non ha mai fatto l’esperienza delle lunghe e sanguinose guerre che le sette cristiane hanno condotto l’una contro l’altra. Trattandosi della più giovane tra le religioni monoteistiche, sta ancora aspettando di essere liberalizzata politicamente. Le religioni, per quanto rigide possano essere le loro dottrine, vengono liberalizzate, ma ci vuole tempo, e soprattutto ci vuole un contesto in cui i diritti individuali sono protetti e gli individui sono liberi di appropriarsi selettivamente delle tradizioni che ereditano. I musulmani ortodossi turchi sarebbero in grado di liberalizzare le proprie tradizioni, attraverso il conflitto e lo scambio dialogico e ricostruttivo con i musulmani riformati e i cosmopoliti della Turchia. Ma affinché questa liberalizzazione politica possa avvenire, è necessario che in Turchia si impianti una democrazia costituzionale che protegga i diritti fondamentali civili, politici, sociali, economici, culturali dei singoli cittadini, garantendo al contempo i diritti delle proprie minoranze. Non si può pretendere che la Turchia faccia questo mentre allo stesso tempo viene spinta verso un’idea di democrazia culturalistica e basata sulla religione, che include gruppi culturali e comunità di fede come se fossero individui, come se questi gruppi fossero monolitici e privi di divisioni al proprio interno.
Nonostante tutto, l’Unione europea è ancora il più importante caposaldo per le aspirazioni dei cosmopoliti e delle minoranze della Turchia ad erigere una democrazia costituzionale piuttosto che una musulmana. Convertire l’attuale regime cripto-sunnita della Turchia in una democrazia musulmana, piuttosto che in una democrazia costituzionale inclusiva, può solo lasciare milioni di persone senza la libertà di scegliere la propria fede religiosa, le proprie aspirazioni spirituali, e il proprio stile di vita. Non bisogna dimenticare che la libertà di fede include anche la libertà di non credere. Una democrazia costituzionale può proteggere i singoli membri della società politica grazie alla priorità che dà ai diritti individuali liberali e al diritto alla partecipazione democratica. Una democrazia musulmana, invece, sembra promettere una stabilizzazione della re-inventata identità islamica sunnita, e allo stesso tempo una conversione all’islam sunnita dei musulmani riformati, degli aleviti, degli areligiosi e postreligiosi. Presentare come gruppi culturali il caso dei gruppi esclusi recentemente emersi, e le loro aspirazioni come aspirazioni culturali, porterebbe solo ad esacerbare una guerra culturale all’interno della Turchia. L’unica alternativa credibile è quella di creare un contesto strutturale in cui i diritti individuali siano protetti. Questa alternativa può essere raggiunta solo all’interno di una democrazia costituzionale. L’unione tra un maggioritarismo senza freni, e un regime di appartenenza basato sull’affiliazione religiosa, è la più grande sfida che la nascente democrazia turca si troverà di fronte nei prossimi anni a venire.
Traduzione di Matteo Elis Landricina