Il multiculturalismo fa male alle donne?
Elisabetta Ambrosi 6 June 2007

“Ma a lei è mai capitato di vedere un pene circonciso? Il glande resta perennemente scoperto! È una pratica lesiva, eppure nessuno dice nulla. E vogliamo parlare delle operazioni, autorizzate e finanziate dallo stato, per cambiare sesso? Via il seno, le tube, la vagina: una vera macelleria”. Carla Pasquinelli, antropologa, autrice del volume Infibulazione. Il corpo violato (Meltemi) invita i paladini dei diritti umani a giudicare tutte le forme di violazione del corpo umano con la stessa moneta, indipendentemente dalla cultura di provenienza, prima di scagliarsi contro le varie forme di mutilazione dei genitali femminili. “Ad esempio perché nessuno di costoro si adira quando vede signorine che vanno mezze nude nei programmi tv, accanto a uomini anziani vestiti? Non crede che rappresentino un esempio analogo di sudditanza psicologica e di assoggettamento al potere maschile?”.

Per mostrare la contraddittorietà dell’atteggiamento occidentale verso pratiche culturali che stridono con le nostre, l’autrice sceglie di trattare il tema dell’infibulazione a partire dalla vicenda avvenuta nel 2004, quando il dott. Omar Abdulcadir decide di proporre all’Assessorato alla Salute della Regione Toscana una procedura alternativa alla mutilazione – una puntura sul clitoride in anestesia locale, che salva la tradizione senza arrecare dolore. Si scatena un fracasso mediatico, che l’autrice documenta pubblicando nel volume una completa rassegna stampa del caso. Sui giornali si parla di “infibulazione dolce” o “soft”, definizioni che stigmatizzano la decisione del medico somalo, accusato di voler legittimare una pratica aberrante.

“Sono proprio queste definizioni ad aver deviato il dibattito e condotto all’affossamento di quella proposta”, spiega l’antropologa. “Se infatti si parla di ‘infibulazione dolce’ resta l’idea che si tratti di infibulazione. Invece non è così, il corpo della donna non subisce lesioni. Ma – e questo è il punto fondamentale – la pratica alternativa mantiene la stessa efficacia simbolica. Quest’ultima, come ha spiegato bene Bourdieu, consiste nella possibilità di agire sulla realtà sociale trasformando la sua rappresentazione”. Insomma, le bambine evitano l’infibulazione, ma restano inserite all’interno del loro contesto culturale e del loro gruppo sociale, il quale, specie nella sua componente maschile, preme perché esse vengano operate. Non è un caso infatti, aggiunge Pasquinelli, che siano le bambine stesse a voler sottoporsi all’intervento (“Si rincorrono tra di loro dicendo: ‘fai vedere’”).

Ma allora perché la proposta di Abdulcadir ha suscitato un vespaio di polemiche? Non sarà perché – chiediamo noi – la pratica alternativa riproduce la stessa simbologia di assoggettamento all’uomo, di per sé negativa, anche solo da un punto di vista psicologico? E come si possono paragonare, come l’autrice fa per argomentare le sue tesi, le manipolazioni subite da bambini con quelle che gli adulti occidentali volontariamente si infliggono, come i piercing o le operazioni di chirurgia estetica? “A me interessa salvare le bambine”, risponde secca Pasquinelli. “Eppoi in Africa esistono pratiche alternative come l’incisione di un albero, forse altrettanto stigmatizzanti dal punto di vista simbolico: vi sembrano peggio dell’escissione del clitoride e dell’eventuale cucitura delle grandi labbra?”. Quanto al paragone tra le loro e le nostre pratiche, Pasquinelli lo argomenta col rifiuto di ogni visione naturalistica e ingenua del corpo, “perché dappertutto e ad ogni età i corpi sono culturalmente manipolati e rispecchiano i rapporti di potere esistenti”.

Dal fronte americano, però, giungono risposte assai diverse al dilemma causato dalla collisione “tra le istanze delle culture e delle religioni e la norma dell’eguaglianza di genere”. L’editore Cortina ha da poco pubblicato (col titolo Diritti delle donne e multiculturalismo) il discusso saggio del 1999 della filosofa femminista Susan Moller Okin, Is Multiculturalism Bad for Women? In esso, Okin suggerisce un ripensamento del rapporto tra femminismo e multiculturalismo che va a tutto discapito del riconoscimento di speciali diritti di gruppo alle minoranze culturali: che sono quasi tutte, più o meno visibilmente, patriarcali e maschiliste. A chi sostiene, come larga parte degli antropologi, che l’appartenenza culturale è un elemento essenziale per sviluppare “autostima e rispetto di sé”, la studiosa americana risponde polemicamente che molti sono i casi in cui la condizione degli individui migliorerebbe “se la loro cultura si estinguesse”. La proposta della femminista statunitense è quella di un liberalismo che richieda “che l’educazione dei bambini non sia circoscritta alla conoscenza delle cultura o della religione dei genitori, e tanto meno faccia credere loro che quello sia l’‘unico’ modo giusto di vivere”. E che difenda senza compromessi, e ovunque, un pacchetto forte di diritti umani, con particolare attenzione alla tutela delle donne. Ben altra storia insomma, dall’immagine delle piccole bambine africane fiere di essere state, più o meno simbolicamente, escisse.

Ci tocca dunque scegliere tra un approccio universalista “duro” e una visione più interculturale e relativista? Il caso fiorentino (e molti altri, a partire dalla questione del velo) sembrerebbe testimoniare che sì, siamo di fronte a un dilemma. Anche se, puntualizza Pasquinelli, “nel dizionario relativismo non si contrappone ad universalismo, ma ad assolutismo. E nessun vero antropologo si sognerebbe mai di mettere in discussione i diritti umani. Pertanto, il dialogo è possibile”.

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