Queste barriere di protezione, sul modello di quelle che circondano la Cisgiordania e la separano da Israele, in Iraq sono diventate anche delle miniature; souvenir che si compravano nelle basi americane come “desert memories”. E se è vero che gli affari sono affari c’è una ditta che li vende online e che è pronta a preparare ora anche mini T-wall afghani. Il paragone fra l’Iraq e l’Afghanistan, però, non è corretto perché il ritiro di Stati Uniti e alleati lì non è ancora iniziato, mentre in Iraq si è appena concluso.
Il ritiro e la scia di sangue
Lo scorso 15 dicembre, dopo quasi nove anni da quel 19 marzo 2003, il ministro della Difesa statunitense, l’ex direttore della Cia Leon Panetta, ha annunciato la fine dell’impegno militare Usa in Iraq, tracciando un breve bilancio in termini di costo di vite umane: 4500 i morti e 30mila i feriti su un totale di più di un milione e mezzo di americani che hanno prestato servizio nel “Paese tra due fiumi”. Naturalmente Panetta, e chi lo ha preceduto, ha tenuto il conto in casa propria. Più complicato, invece, fare un computo del sangue versato tra gli iracheni. Ci hanno provato le ONG e le varie associazioni per i diritti umani. Stando a uno dei siti più noti e attendibili, Iraq Body Count, sarebbero tra i 113.938 e i 104.284 i civili morti in questi anni. I dati, aggiornati al 10 dicembre, non tengono però conto delle cifre fornite nel rapporto The Iraq War Logs, reso noto nell’ottobre 2010 da Wikileaks riguardo alle morti registrate tra 2004 e 2009 su suolo iracheno, che potrebbero far salire il penoso conteggio di altre 15mila vittime.
Si chiude con questo pesante bilancio la missione Iraqi Freedom e con molti dubbi sul destino della libertà irachena e dei suoi equilibri interni, tra sunniti, sciiti e curdi. Dubbi che vengono rafforzati dalla notizia del mandato di cattura, soltanto un giorno dopo il ritiro statunitense, per il vice presidente sunnita Tariq al-Hashemi, accusato di aver finanziato attentati terroristici. Al-Hashemi ha puntato come prevedibile il dito contro il presidente sciita, Al-Maliki, sostenendo che alla sua spalle ci sia la presenza iraniana e si è rifugiato in Kurdistan. Nello stesso giorno, il vice primo ministro iracheno responsabile dell’Energia, Hussein al-Shahrastani, dichiarava che il Kurdistan sta esportando illegalmente greggio verso Pakistan, Azerbaigian e altri paesi dell’est asiatico. Tre elementi, questi, che mettono in fila le questioni irrisolte con cui dovranno confrontarsi politicamente gli iracheni. Ma le questioni politiche, la cronaca ci ha insegnato che in Iraq si dirimono con le autobombe.
Si ammainano le bandiere nelle basi e, infatti, neanche ventiquattro ore dopo Baghdad è colpita da uno dei più violenti attacchi degli ultimi tempi, che per lo stile e il tempismo ricorda quello che a settembre ha scosso Kabul: otto attentati in diverse zone della capitale che hanno provocato una sessantina di morti e centinaia di feriti. Il 22 dicembre altri sedici ordigni esplosi in undici zone di Baghdad hanno riportato l’Iraq al suo periodo più buio, quello che va dal 2006 al 2007 e che aveva resa necessaria la surge strategy di Petraeus. E il 2012 si è aperto all’insegna del sangue: altri sessanta morti in un solo giorno, tra Nassiriya, dove un kamikaze che si è fatto esplodere in mezzo a un gruppo di pellegrini in cammino verso la città santa di Kerbala, e Baghad, nei quartieri sciiti di Sadr City e di Kadhmiya.
Un Paese realmente sovrano?
Panetta aveva parlato del sogno di un “Iraq indipendente e sovrano che ora è diventato realtà”. Dal punto di vista della sicurezza, l’esercito iracheno e le forze di polizia sono state ricostruite dalla Nato Training Mission. Tra gli addestratori anche i Carabinieri italiani che lo scorso 17 dicembre hanno abbandonato Camp Dublin, una delle 505 basi militari che in questi anni sono state installate in territorio iracheno. Stando alle cifre rese note dallo Stato Maggiore della Difesa, dal 2004 a oggi i Carabinieri hanno addestrato 11.000 poliziotti; circa 4.000 ufficiali qualificati e 360 sottufficiali.
“L’uscita dall’Iraq non significa uscire dalla regione”, ha chiarito il capo di Stato Maggiore Usa Martin E. Dempsey e, infatti, dei 50mila militari statunitensi che erano rimasti dopo il ritiro dell’agosto 2010, gli Usa hanno lasciato sul campo 4000 uomini, solo dopo aver siglato però un accordo che garantisca loro l’immunità sul territorio iracheno. Lo Strategic Framework Agreement, siglato nel 2008 tra autorità irachene e Stati Uniti d’America, ha stabilito inoltre una cooperazione a lungo termine sulla base dei reciproci interessi. Questo si tradurrebbe secondo alcuni in una forma di occupazione velata.
La Repubblica Islamica e gli sciiti; i curdi in Turchia, Iran e Siria; gli Stati Uniti che restano un’ombra presente sono gli elementi dello scacchiere, mentre intanto nella zona si consuma una battaglia, a diversi gradi di intensità, tra sciiti e sunniti in Siria, nello Yemen e in Bahrein. Il timore è di nuovo quella della guerra civile in Iraq, soprattutto in un momento in cui le frizioni tra i due principali gruppi religiosi sono ai massimi termini, con la coalizione al Iraqiya, composta da sunniti e laici (e di cui fa parte Hashemi), che ha deciso di fare ostruzionismo e di non partecipare ai lavori parlamentari.
Vali Nasr, ex consulente della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato, del National Security Council e del Dipartimento della Difesa su temi legati al Medio Oriente, nel suo libro “La rivincita sciita” pubblicato nel 2007 parlava già di un sanguinoso conflitto tra sciiti e sunniti che avrebbe deciso il destino di tutta l’area, contrapponendo in maniera chiara Iran e Arabia Saudita. Non era forse questo che intendeva il capo del Pentagono parlando di un Paese lasciato in grado di governarsi e assicurare la propria sicurezza.