Iran: aumentano le condanne a morte e gli arresti di attivisti politici
Ilaria Romano 28 febbraio 2012

Saeed Malekpour è un programmatore di software e si trova in carcere dal 2008. È uno dei condannati a morte che in Iran è in attesa di un’esecuzione che potrebbe arrivare da un momento all’altro. Dopo quattro anni in Canada, era tornato nel suo paese a trovare la famiglia, ma è stato arrestato per aver sviluppato un programma per il caricamento delle immagini su internet, con l’accusa di aver favorito la diffusione in rete di materiale pornografico. A gennaio la Corte Suprema di Teheran ha confermato per lui la pena capitale, per agitazione contro il regime e insulti alla santità dell’Islam: intorno al suo caso è nata una mobilitazione internazionale per cercare di salvarlo.

Nel 2010 era accaduta la stessa cosa con Sakineh Ashtiani, accusata di adulterio e complicità nell’omicidio del marito e poi condannata alla lapidazione. Anche allora si erano accesi i riflettori sui diritti umani negati nella Repubblica Islamica, ma dopo una sospensione della pena dettata dal clamore che il caso aveva suscitato fuori dal paese, la donna è rimasta in carcere e ora rischia di essere impiccata anziché finita a colpi di pietra.

In Iran si applica la pena di morte per traffico di droga, principalmente, ma anche per moharebeh o inimicizia a dio, persino per sodomia. Nel 2011 il numero delle esecuzioni è stato il più alto dell’ultimo decennio, secondo i dati raccolti da Iran Human Rights, che a pochi giorni dalle elezioni parlamentari del 2 marzo ha presentato il Rapporto 2011 sulla pena di morte: 675 persone sono state giustiziate, 65 di queste pubblicamente, nelle piazze delle città. 416 casi sono stati resi noti dalle stesse autorità iraniane, mentre gli altri sono stati comunicati direttamente a IHR da testimoni, avvocati e familiari dei condannati. Come si precisa nel rapporto, almeno altre 70 esecuzioni sarebbero avvenute nel corso dell’anno passato, ma non è stato possibile includerle nel dossier per la difficoltà di confermarle con certezza.

L’81% delle condanne eseguite riguarda i reati legati agli stupefacenti, ma è difficile stabilire l’equità di processi che si svolgono a porte chiuse, e in alcuni casi sono stati messi a morte soggetti inizialmente arrestati a seguito di manifestazioni anti regime. È il caso di Zahra Bahrami, fermata alla fine del 2009 dopo le contestazioni scoppiate con la rielezione di Ahmadinejad, inizialmente accusata di moharebeh e poi condannata all’impiccagione per possesso di droga. Spesso la critica al regime e il dissenso politico diventano apostasia, o “inimicizia a dio” nella lettura corrente dell’ordinamento giuridico, e basta il sospetto di appartenenza a un gruppo di opposizione per far scattare una condanna a morte.

Il nuovo Codice Penale Islamico ratificato in via definitiva due settimane fa dal consiglio dei Guardiani, ha introdotto alcune modifiche, come il divieto di condanna a morte per i minorenni. Un cambiamento di forma, più che di sostanza, perché in un articolo della nuova legge si fa riferimento alla maturità del giovane, che può essere valutata caso per caso dal giudice, indipendentemente dal compimento del diciottesimo anno di età, e tenendo conto del tipo di reato.

Con l’approssimarsi delle elezioni del 2 marzo sono aumentati gli arresti fra gli attivisti politici e per i diritti umani. Il blogger Mehdi Khazali, condannato a 13 anni e 10 mesi di carcere lo scorso 7 febbraio e attualmente in sciopero della fame, ha scritto una lettera alle autorità della prigione di Evin dove chiede, in caso di morte, che l’autopsia sul suo corpo avvenga solo per mano di medici legati a organizzazioni internazionali. Anche senza una condanna a morte, nelle prigioni iraniane si può morire. E proprio Khazali, nel suo messaggio, ricorda il caso del giornalista Hoda Saber, anche lui ad Evin, trasferito in infermeria dopo otto giorni di sciopero della fame e mai più rientrato in cella.

Almeno 65 persone sono state arrestate dall’inizio dell’anno nella sola provincia del Khuzestan, dove vive la minoranza araba, e due attivisti locali sarebbero morti a seguito delle torture subite in prigione, secondo Human Rights Watch. La maggior parte dei gruppi d’opposizione ha invocato il boicottaggio delle urne, contro il crescente numero di prigionieri politici e il perdurare degli arresti domiciliari dei leader politici Hussein Mousavi e Mehdi Karroubi, privati della libertà di movimento da oltre un anno. Karroubi in particolare, è stato isolato dalla famiglia nel dicembre scorso, proprio dopo aver detto che le elezioni del 2012 sarebbero state fraudolente.

Nell’immagine Sakineh Ashtiani (licenza cc)