Gli equilibri interni e la “micro-guerra fredda” con Teheran
Lorenzo Trombetta 17 April 2008

Beirut, Libano

L’Arabia Saudita è il maggiore alleato degli Stati Uniti nel Golfo e, grazie alla sua relativa stabilità e al suo rafforzato benessere economico, è oggi il paese arabo più influente dell’intero Medio Oriente. Dall’altra parte delle acque, si trova a fronteggiare le mire espansionistiche dell’Iran dando vita a un braccio di ferro che si declina in diverse forme sia sullo scenario libanese che in quello interno palestinese. L’alleanza tra Washington e Riad è il pilastro del tradizionale equilibrio regionale: la teocrazia araba del Golfo, un tempo primo fornitore di petrolio per gli Stati Uniti, oggi continua a essere uno dei principali produttori di olio nero e garante di stabilità nell’area. E anche se le truppe statunitensi hanno abbandonato le basi militari saudite, la protezione Usa continua a essere assicurata da ingenti truppe a stelle e strisce presenti attorno al regno saudita in Kuwait, Bahrain, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti. Sin dall’epoca coloniale, i territori che in seguito sono passati sotto l’autorità della famiglia al-Saud, erano considerati dalle potenze europee come "la porta verso l’Oceano Indiano".

Così anche oggi, la superpotenza continua ad avere bisogno dell’Arabia Saudita come trampolino di lancio per realizzare i propri disegni egemomici in Asia centrale e in quella sud-orientale. In cambio Riad riceve sostegno militare, politico, economico, diplomatico: la casa dei Saud si assicura la propria stabilità al potere senza che nessuna minoranza venga "usata" (come invece avviene in Iran o in Siria) e nessuna campagna "per i diritti umani" venga scatenata sui media amici (come avviene oggi per il Tibet in funzione anticinese) per tentare di far traballare la sedia di Re Abdallah. La situazione interna è apparentemente ancora più rassicurante. Dopo il ricambio ai vertici del potere nel 2005, con la nomina a sovrano di Re Abdallah, oggi rappresentato all’estero dal super-ministro degli esteri Saud al-Faysal, la casa dei Saud sembra non esser minacciata da golpi interni o familiari. Con i suoi 27 milioni di abitanti (otto dei quali sono lavoratori stranieri privi di cittadinanza), il regno non è esposto alle minacce della turbolenta minoranza sciita (il 15 per cento della popolazione), concentrata per lo più nei centri orientali più vicini al Golfo persico: Qatif, al-Ahsa, Dammam. I servizi di sicurezza interni e i reparti delle forze speciali, ben addestrati da ufficiali Usa e britannici e dotati delle più sofisticate strumentazioni belliche, sono il principale deterrente a una minoranza i cui diritti soppressi non sono "internazionalizzati" e le cui aspirazioni autonomiste sono appoggiate soltanto dal vicino Iran. Dall’altro canto, le ipotetiche minacce al regime saudita di gruppi integralisti islamici vicini o ispirati ad al-Qaida sono per il momento scongiurate, grazie al successo della politica di Riad di esportare altrove queste cellule per tenerle lontane dai propri confini.

La politica estera saudita è sempre più plasmata oggi sulle esigenze di fronteggiare l’avanzata di Teheran nel Golfo e nell’intero Medio Oriente. Una missione da assolvere sia per mantenere la propria posizione di forza nella regione, sia per soddisfare le esigenze di "sicurezza" degli Stati Uniti, che vedono nell’Iran il principale ostacolo per le proprie scorribande centrasiatiche, preliminari al confronto finale con la Cina. Confrontarsi con l’Iran non significa però per l’Arabia Saudita scatenare una guerra con il proprio vicino più potente: un eventuale conflitto, magari con derive nucleari, sarebbe troppo rischioso per Riad, la cui acqua potabile proviene per lo più dai centri di desalinizzazione situati nel Golfo. I primi obiettivi "occidentali" che la Repubblica islamica potrebbe colpire sarebbero i centri di potere sauditi con un probabile crollo di tutto il sistema interno. Con il vicino iraniano bisogna invece alternare, nell’ottica di Riad, toni duri e bellicosi ad aperture di dialogo. I due paesi si conoscono, si sfidano ma si temono. Una sorta di "micro-guerra fredda" sulle sponde del Golfo.

In Libano e in Palestina questo confronto saudita-iraniano ha spesso ripercussioni ben più drammatiche. Nel paese dei Cedri, Riad sostiene l’attuale governo guidato dal premier sunnita Fuad Siniora, espressione della maggioranza parlamentare ostile alla tradizionale influenza siriana. La crisi politico-istituzionale, in corso dall’autunno 2006, è in parte il frutto proprio di questa frattura: da una parte il fronte sostenuto da Washington e da Riad, dall’altra l’opposizione guidata dal movimento sciita Hezbollah, sostenuto da Damasco e soprattutto da Teheran. In mezzo, il popolo libanese si trova da quasi sei mesi senza un nuovo presidente della Repubblica (proprio a causa del braccio di ferro tra i due fronti) e il paese è appesantito da un ristagno economico senza precedenti. Assassini politici, periodici scontri di strada, e attentati di vario genere tengono alta la tensione nel paese, da molti descritto come "sull’orlo del baratro verso una nuova guerra civile". Per il momento, né l’Iran né l’Arabia Saudita spingono però per un inasprimento della tensione, e congelano ogni pericolo di un conflitto intestino più drammatico di quello che distrusse il Libano dal 1975 al 1990.

Nei Territori occupati palestinesi le condizioni di vita sono ancor più drammatiche e la politica da tempo non dà più risposte. Nel febbraio 2007 si sono celebrati a Mecca gli "accordi" tra Fatah, il partito del presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen), e il movimento radicale Hamas, vincitore delle elezioni nel gennaio 2006 e appoggiato dall’Iran. L’obiettivo dell’Arabia Saudita era, all’epoca, quello di mettere il proprio sigillo sul riavvicinamento tra le due anime politiche palestinesi. Missione miserabilmente fallita nell’arco di poche settimane: dal giugno 2007, Hamas ha assunto con la forza il controllo di tutta la Striscia di Gaza, cacciando gli uomini di Fatah in Cisgiordania. A parte le promesse di pace pronunciate alla conferenza di novembre scorso ad Annapolis (Usa) dal premier israeliano Ehud Olmert e dal presidente palestinese Abbas, e a parte la continua spirale di violenza alimentata da israeliani e gruppi radicali palestinesi a Gaza e negli altri territori occupati, tra Hamas e Fatah i rapporti sono rimasti invariati, così come non sono cambiati i termini della contesa, a distanza, tra Riad e Teheran, per la conquista della piazza palestinese.

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