Questo testo è il discorso tenuto dall’autore alla Conferenza internazionale di Doha, organizzata in Qatar da Reset Dialogues on Civilizations il 26 febbraio 2008.
Sono convinto che la politica possa fare molto per migliorare il dialogo e la comprensione tra culture, così come essi vengono filtrati dai mezzi di comunicazione. Personalmente, non amo gli stereotipi e vorrei che i media non scavassero nei fossati già esistenti per renderli ancora più profondi. Allo stesso tempo, però, sono sicuro che la politica debba restare lontana dai servizi pubblici radiotelevisivi, da un lato pretendendo un servizio trasparente, dall’altro evitando di entrare nella gestione dei sistemi di comunicazione. Non mi piacciono affatto i governi o i ministri che danno istruzioni ai media, sia formalmente che informalmente. Nei venticinque anni e più che ho dedicato alla politica italiana, nessuno in Rai ha potuto dirsi in qualche modo legato al mio nome e posso affermare tranquillamente che si tratta di un’eccezione. In qualità di ministro degli Interni, poi, ho utilizzato i miei poteri formali sui media solo quando era implicato il terrorismo e ho riflettuto e discusso molto sui limiti posti dalla Costituzione laddove si parla di libertà di parola.
Non penso, ad esempio, che si commetta alcuna violazione quando si decide di chiudere blog o siti web che pubblicano istruzioni per preparare esplosivi, perché fanno parte di una rete articolata in grado di raggiungere potenziali terroristi e dare le informazioni che sono loro necessarie. Non ritengo che i blog o i siti in questione veicolino un messaggio, quanto piuttosto che comunichino qualcosa che non ha nulla a che vedere con la cultura o l’informazione. Posso anche capire che quando è in corso una guerra, che ha un enorme interesse pubblico, essa possa comportare – forse – alcune limitazioni alla libertà d’informazione. Ma nelle nostre «guerre» quotidiane dobbiamo accettare le regole del gioco, le regole di mezzi di comunicazione liberi che devono essere affidabili e assumersi le proprie responsabilità. Il punto è quale sia, allora, il ruolo rivestito dai leader politici. Essi non devono ordinare nulla ai media, ma possono fare molto per cambiare gli schemi esistenti, facendo affidamento sul senso che attribuiscono alla missione politica, sulla propria cultura, sulla chiarezza con cui definiscono come intendono ottenere consenso e su cosa.
I politici e i mezzi di comunicazione hanno due elementi in comune. Innanzitutto la ricerca di un pubblico sempre maggiore; per gli uni si tratta di consenso, per gli altri di audience, ma la sostanza è la stessa: raccogliere persone attorno a sé. In secondo luogo, entrambi possono cadere nella tentazione di utilizzare Carl Schmitt per ampliare il proprio pubblico o aumentare il proprio sostegno politico. Si tratta, in sostanza, di giocare la carta della paura. Si teme qualcosa? C’è qualcosa che non piace? Non si è soddisfatti? La ragione di tutto ciò che non va è imputata a un nemico. La violenza ha due versanti: quello di chi la commette e quello di chi ne è vittima. Presa una posizione, si individua il nemico in colui che sta dall’altra parte. È questo il senso della violenza come nocciolo dell’informazione: la scarica di adrenalina provocata dall’11 settembre. Dopo quei fatti abbiamo avuto altri episodi violenti ma nulla di simile.
Ci si potrebbe addirittura chiedere se l’11 settembre sia stato l’apice di un fenomeno ora in declino o solo il suo inizio. Quegli avvenimenti ci hanno dimostrato che siamo alle prese con un terrorismo di nuova specie i cui attacchi non hanno come obiettivo un bersaglio specifico, come nel terrorismo tradizionale, ma le uccisioni di massa, come è chiaro dalla scelta dei mezzi con cui vengono pianificati gli attentati. Si tratta indubbiamente di un fenomeno straordinariamente pericoloso, ma non tutto ciò che ci circonda può essere interpretato alla luce del terrorismo. Di sicuro non tutti gli arabi, non tutti i musulmani possono essere considerati potenziali terroristi. Sarebbe orribile se ciò accadesse. Eppure l’impatto di alcune breaking news è esattamente questo. Così il nemico non è più Al Qaeda ma l’Est, l’Oriente nel suo insieme. Si compete, dunque, per conquistare un pubblico maggiore o un più esteso sostegno politico giocando la carta del nemico, della paura, dell’odio.
Penso che Carl Schmitt avesse una ragione: ci deve essere un nemico in politica. Ma è necessariamente l’altro, cioè l’avversario politico o il diverso, il nemico? Non potrebbe essere invece l’odio, l’intolleranza e così via, cosicché, se si individua questo tipo di nemico, allora il messaggio che si trasmette attraverso i mezzi di comunicazione diviene assai diverso? Si dirà: ma questo non desta attenzione. Non è così. I leader politici hanno un indiscusso vantaggio competitivo rispetto a chiunque altro: se hanno qualcosa di significativo da dire, ottengono attenzione e visibilità. Un comune cittadino può predicare cose meravigliose senza che nessuno lo ascolti, mentre le affermazioni di leader politici nazionali, regionali e locali sono notizie, che non devono per forza essere cattive notizie. Mi vengono in mente alcuni semplici esempi. Qualche mese fa circolava un bellissimo spot di Telecom Italia il cui protagonista era Gandhi. La pubblicità lasciava immaginare quale avrebbe potuto essere la forza del suo messaggio se solo avesse avuto a disposizione le tecnologie che abbiamo oggi. Ebbene il grande messaggio di Gandhi era pace e non violenza. Gandhi faceva notizia perché era non violento. Un secondo esempio viene dal celebre film di Charlie Chaplin, Il Dittatore, in cui Chaplin, fingendosi Hitler, pronunciava un discorso grandioso che, invece di incitare alla guerra, parlava di pace e solidarietà. Si trattava di finzione, com’è ovvio, ma dava il senso di come, cambiando gli schemi e raggiungendo l’opinione pubblica laddove è necessario, si possa avere un impatto enorme.
Passando all’informazione, potrei citare, infine, il caso di un servizio che la Rai dedicò ad alcune comunità rom dopo lo stupro e l’uccisione di Giovanna Reggiani a Roma, lo scorso novembre. L’impressione provocata da quel crimine fu enorme e l’effetto prevedibile poteva essere una sorta di odio anti-rom nella nostra opinione pubblica. Eppure, due giorni dopo il delitto, la trasmissione Tv7 mandò in onda un reportage sulle condizioni di vita di numerose comunità rom che vivevano nelle baraccopoli lungo il Tevere, intervistando una povera madre malata che teneva in braccio il suo bambino. Il servizio sollevava una questione: come si poteva odiare quella madre soltanto perché apparteneva al «nemico»? Si possono fare cose grandiose modificando, rimuovendo gli schemi esistenti. È vero: le differenze esistono, la diversità esiste.
Uno dei problemi principali che abbiamo con la comunità musulmana in Italia è il trattamento delle donne. Troppi uomini tengono segregate le loro donne e le loro mogli, usano loro violenza fisica, non danno loro voce nell’educazione dei figli, azioni che non sono solo contrarie ai principi del nostro sistema giuridico ma anche alle legittime attese di quelle donne. Eppure, ogni volta che mi è capitato di affrontare questo tema, non ho mai additato i musulmani, ma ho discusso del mio paese che era esattamente così quarant’anni fa. Ho parlato del nostro diritto di famiglia prima della riforma approvata trentacinque anni fa. Quel diritto attribuiva ai mariti e ai padri poteri molto simili a quelli esercitati oggi da questi uomini, perciò il nemico esiste: ma non è l’islam, è l’arretratezza. Il nemico è quel modello di famiglia, la mancanza di attenzione ai diritti delle donne, non i musulmani. Per contribuire a una migliore comprensione, perciò, possiamo cercare di dirigere le nostre emozioni non contro qualcuno, ma a favore di qualcosa: i diritti delle donne, in questo caso.
A questo proposito vorrei citare Beate Winkler, che ha contribuito alla nascita dell’Agenzia europea per i diritti umani. Per la Winkler dobbiamo passare a «gestire la diversità» con una varietà di interventi e di obiettivi specifici che mirino alla comprensione reciproca e all’accettazione delle differenze. Se ci accettiamo, non c’è ragione per cui i cattolici italiani debbano opporsi alle comunità musulmane che vogliono esercitare il diritto costituzionale di costruire le loro moschee ma, allo stesso modo, non c’è alcuna ragione per cui le comunità cattoliche nei paesi musulmani non debbano godere dello stesso diritto. La costruzione di una moschea in Italia o di una chiesa in Qatar fa notizia, non necessariamente una cattiva notizia. Vorrei concludere con una riflessione sulle primarie americane. Credo che il successo di Barack Obama sia dovuto proprio al fatto che ha cambiato completamente gli schemi esistenti: non parla dell’asse del male, ma di un mondo diverso in cui gli americani possono essere amati di nuovo, parla di pace e comprensione, di empatia. Il suo successo significa che le persone non reagiscono necessariamente solo davanti alla paura, all’odio, agli incubi che alla fine si trasformano in realtà, ma che possono essere felici anche guardando una fiction in cui una madre musulmana e un padre cristiano, pur avendo qualche difficoltà nel gestire la propria famiglia, alla fine ci riescono. Le persone hanno voglia di essere più felici, di avere una vita di gioie, di preparare se stesse e i propri figli alla pace.
Giuliano Amato è docente di Diritto costituzionale presso l’Università di Roma «La Sapienza» e presso l’Istituto Europeo di Firenze. Ministro degli interni nell’ultimo governo Prodi, nel 1992–1993 e, poi, nel 2000-2001 è stato Presidente del Consiglio italiano. Ha ricoperto anche l’incarico di ministro del Tesoro. È stato il vicepresidente della Convenzione per la stesura della Costituzione europea. Presiede, infine, il comitato scientifico dell’associazione Reset-Dialogues on Civilizations.