Il paradigma della traduzione
Paul Ricoeur 7 settembre 2006

Si offrono due vie d’accesso al problema posto dall’atto del tradurre: considerare il termine traduzione nel senso stretto di trasferimento di un messaggio verbale da una lingua a un’altra, oppure considerarlo in senso lato, come sinonimo dell’interpretazione di qualsivoglia insieme significante all’interno della stessa comunità linguistica. Ambedue gli approcci hanno la loro ragion d’essere: il primo, scelto da Antoine Berman nell’“Épreuve de l’etranger”, tiene conto del rilevante fattore della pluralità e della diversità delle lingue: il secondo, scelto da George Steiner in Après Babel, si rivolge direttamente al fenomeno nel suo complesso, che l’autore così riassume: “Capire è tradurre”.

Ho scelto di partire dal primo approccio che tiene in primo piano il rapporto dal nazionale allo straniero e di arrivare così al secondo seguendo le difficoltà e i paradossi che nascono traducendo da una lingua a un’altra. Partiamo dunque dalla pluralità e dalla diversità delle lingue, e facciamo attenzione a un primo dato: la traduzione esiste perché gli uomini parlano lingue differenti. Questo fattore attiene alla diversità delle lingue, per riprendere il titolo di Wilhelm von Humboldt. Ma, questo dato di fatto è al tempo stesso un enigma: perché non una sola lingua, e soprattutto perché tante lingue, cinque o seimila secondo gli etnologi?

Qualsivoglia criterio darwiniano di utilità e di adattamento nella lotta per la sopravvivenza è messo in discussione; questa incommensurabile molteplicità è non soltanto inutile, ma nociva. In effetti, se lo scambio intracomunitario è assicurato dalla capacità di integrazione di ogni lingua considerata separatamente, lo scambio con l’“esterno” della comunità linguistica dà ciò che Steiner definisce “una prodigalità nefasta”. Ma, a porre un interrogativo non è solo il disturbo della comunicazione che il mito di Babele, di cui parleremo in seguito, definisce “dispersione” a livello geografico e “confusione” a livello della comunicazione, è anche il contrasto con altri elementi che attengono anch’essi al linguaggio.

In primo luogo il rilevante fattore dell’universalità del linguaggio: “Tutti gli uomini parlano”. Questo è un criterio dell’ “umano”, insieme all’utensile, all’istituzione, alla sepoltura; per linguaggio intendiamo l’utilizzo di segni che non sono cose ma stanno per cose come lo scambio dei segni nell’interlocuzione, il ruolo fondamentale di una lingua comune a livello dell’identificazione comunitaria; ecco una competenza universale smentita dalle sue performances locali, una capacità universale smentita dalla sua realizzazione esplosa, disseminata, dispersa. Da qui le speculazioni in primo luogo sul piano del mito, poi su quello della filosofia del linguaggio quando essa s’interroga sull’origine della dispersione-confusione. A questo proposito il mito di Babele, troppo esile e troppo confuso nella sua confezione letteraria, fa sognare a ritroso in direzione di una presunta lingua paradisiaca perduta, più di quanto non costituisca una guida per orientarsi in questo labirinto. La dispersione-confusione è percepita allora come una irrimediabile catastrofe linguistica. Suggerirò fra breve una più benevola lettura della condizione comune degli umani.

Ma voglio dire prima che c’è un secondo fattore che non deve nascondere il primo, quello della diversità delle lingue: il fattore altrettanto importante è che si è sempre tradotto; prima degli interpreti professionali, esistevano i viaggiatori, i mercanti, gli ambasciatori, le spie, vale a dire numerosi bilingui e poliglotti! Abbiamo toccato qui un aspetto importante come l’incomunicabilità biasimata, vale a dire l’essenza stessa della traduzione, che presuppone in ciascun interlocutore l’inclinazione ad apprendere e a praticare altre lingue dalla propria, capacità che sembra andare di pari passo con altri elementi più nascosti che hanno a che fare con la pratica del linguaggio, elementi che alla fine del percorso ci condurranno molto vicino ai processi di traduzione intralinguistica, vale a dire, per anticiparlo, alla capacità riflessiva del linguaggio, questa possibilità sempre disponibile di parlare sul linguaggio, di distanziarlo, e di trattare così la nostra lingua come una lingua fra le altre. Riservo questa analisi sulla riflessività del linguaggio a più tardi e mi concentro sulla semplice essenza della traduzione.

Gli uomini parlano lingue differenti, ma possono apprenderne altre diverse dalla loro lingua madre. Questo elementare dato di fatto ha dato origine a una grandissima speculazione che si è lasciata racchiudere in una pericolosa alternativa da cui è importante liberarsi. L’alternativa paralizzante è questa: o la diversità delle lingue esprime una radicale eterogeneità – e allora la traduzione è in linea teorica impossibile, essendo le lingue a priori intraducibili l’una nell’altra; oppure la traduzione considerata come un dato di fatto si spiega con un fondo comune che rende possibile l’essenza della traduzione, ma allora si deve potere vuoi ritrovare questo fondo comune – ed è la pista della lingua originaria –, ovvero ricostruirlo logicamente, ed è la pista della lingua universale; originale o universale che sia, questa lingua assoluta deve poter essere mostrata, nelle sue tavole fonologiche, lessicali sintattiche, retoriche. Sottolineo ancora l’alternativa teorica: o la diversità delle lingue è radicale, e allora la traduzione è impossibile di diritto, oppure la traduzione è un dato di fatto, e bisogna stabilirne la possibilità di diritto attraverso un’indagine sull’origine o attraverso una ricostruzione delle condizioni a priori del dato di fatto constatato.

Suggerisco di uscire da questa alternativa teorica, traducibile versus intraducibile, e sostituire a essa un’altra alternativa, questa volta pratica, frutto dell’esercizio stesso della traduzione, l’alternativa fedeltà versus tradimento, anche a costi di riconoscere che la pratica della traduzione resta un’operazione rischiosa alla perenne ricerca della propria teoria. Vedremo infine che le difficoltà della traduzione intra-linguistica danno ragione a questa imbarazzante ammissione. Ho recentemente partecipato a un simposio internazionale sull’interpretazione, in cui ho ascoltato la conferenza del filosofo analitico Donald Davidson dal titolo: “In teoria difficile, duro (hard) e in pratica facile, agevole (easy)”. É anche la mia tesi trattandosi della traduzione nei suoi due versanti extra e intra-linguistici: incomprensibile in teoria, ma nei fatti praticabile, al prezzo massimo che stiamo per dire: l’alternativa pratica fedeltà versus tradimento. Prima di impegnarmi sulla via di questa dialettica pratica, fedeltà versus tradimento, vorrei molto succintamente esporre le ragioni dell’impasse speculativa al cui interno si scontrano l’intraducibile e il traducibile.

La tesi dell’intraducibile è la conclusione obbligata di certa etnolinguistica – B. Lee Whorf, E. Sapir – che si è impegnata a sottolineare il carattere non sovrapponibile delle differenti suddivisioni sulle quali si basano i molteplici sistemi linguistici: suddivisione fonetica e articolatoria alla base dei sistemi fonologici (vocali, consonanti ecc.), suddivisione concettuale che controlla i sistemi lessicali (dizionari, enciclopedie ecc.), suddivisione sintattica alla base delle diverse grammatiche. Gli esempi abbondano: se si dice “bois” in francese, si mette insieme il materiale ligneo e l’idea di una piccola foresta; ma in un’altra lingua questi due significati si troveranno disgiunti e raggruppati in due differenti sistemi semantici; sul piano grammaticale, si può facilmente constatare che i sistemi di tempi verbali (presente, passato, futuro) differiscono da una lingua all’altra; ci sono lingue in cui non si mette l’accento sulla posizione nel tempo, ma sul carattere compiuto o incompiuto dell’azione; e ce ne sono altre senza tempi verbali in cui la posizione nel tempo è indicata solo da avverbi equivalenti a ieri, domani ecc.

Se si aggiunge l’idea che ciascuna suddivisione linguistica impone una visione del mondo – idea a mio avviso insostenibile –, dicendo per esempio che i greci hanno costruito ontologie perché hanno un verbo essere che funziona come copula e insieme come attestazione di esistenza, allora è l’insieme dei rapporti umani dei locatori di una lingua data a risultare non sovrapponibile a quello con il quale il locatore di un’altra lingua capisce se stesso capendo nello stesso tempo il suo rapporto con il mondo. Bisogna allora concludere che la cattiva comprensione è istituzionale, che la traduzione è impossibile teoricamente e che gli individui bilingui possono essere solo degli schizofrenici.

Si viene allora rigettati sull’altro versante: poiché la traduzione esiste, bisogna pure che essa sia possibile. E se essa è possibile vuol dire che, sotto la diversità delle lingue, esistono strutture nascoste che o recano la traccia di una perduta lingua originaria che bisogna ritrovare, oppure consistono in codici a priori, in strutture universali o, come si dice, trascendentali, che si devono poter ricostruire. La prima versione – quella della lingua originaria – è stata professata di diverse gnosi, dalla Cabbala, dagli ermetismi di ogni genere fino a produrre qualche frutto velenoso come il perorare a favore di una sedicente lingua ariana dichiarata storicamente feconda che si contrappone all’ebraico, considerato sterile. Olander, nel suo libro “Le lingue del paradiso” che reca l’inquietante sottotitolo “Ariani e Semiti: una coppia provvidenziale” denuncia in quella che definisce una “favola dotta” questo perfido antisemitismo linguistico. Ma a essere giusti, bisogna dire che la nostalgia della lingua originaria ha portato anche alla potente meditazione di un Walter Benjamin che scrive “Il compito del traduttore” o la “lingua perfetta”, la “lingua pura” – sono queste le espressioni dell’autore –, figura come l’orizzonte messianico dell’atto del tradurre, assicurando segretamente la convergenza degli idiomi quanto questi sono portati ai vertici della creatività poetica. Purtroppo, la pratica della traduzione non riceve alcun sostegno da questa nostalgia convertita in attesa escatologica; e bisognerà forse fra poco rinunciare al desiderio di perfezione per assumere senza ebbrezza e sobriamente il “compito del traduttore”.

Più resistente è l’altra versione della ricerca di unità, non più in direzione di un’origine nel tempo, ma in quella di codici a priori. Umberto Eco ha dedicato utili capitoli a questi tentativi nel suo libro “La ricerca della lingua perfetta”. Si tratta, come sottolinea il filosofo Bacone, di eliminare le imperfezioni delle lingue naturali, fonte di ciò che egli definisce gli “idoli della lingua”. Leibniz darà corpo a questa esigenza con la sua idea di caratteristica universale che si propone addirittura di comporre un lessico universale delle idee semplici, completato da una raccolta di tutte le regole di composizione fra questi veri e propri atomi di pensiero. Ebbene! Bisogna giungere al nodo del problema, e sarà la svolta della nostra riflessione; bisogna chiedersi perché questo tentativo fallisce e deve fallire. Si ritrovano certamente risultati parziali nell’ambito delle grammatiche dette generazionali della scuola di Chomsky ma esse hanno dato luogo anche a un fallimento totale sul piano lessicale e fonologico.

E perché? Perché non sono le imperfezioni delle lingue naturali ma il loro stesso funzionamento a essere anatema. Per semplificare al massimo una discussione molto tecnica consideriamo due scogli: da un lato, non vi è accordo su ciò che caratterizzerebbe una lingua perfetta a livello del lessico delle idee primitive. Questo accordo presuppone una completa omologia senza arbitrarietà alcuna, dunque, in senso lato, fra il linguaggio e il mondo, il che costituisce o una tautologia, un ritaglio privilegiato assurto a figura del mondo. Oppure, una pretesa inverificabile, in mancanza di un inventario esaustivo di tutte le lingue parlate. Secondo scoglio, ancora più temibile: nessuno è in grado di dire come si potrebbe far derivare le lingue naturali, con tutte le bizzarrie che diremo in seguito, dalla presunta lingua perfetta, essendo il divario fra lingua universale e lingua empirica, fra l’a priori e la storia apparentemente invalicabile. Termineremo con le riflessioni conclusive sul lavoro di traduzione all’interno di una stessa lingua naturale che potranno essere utili per portare alla luce le infinite complessità di queste lingue, che fanno sì che occorra imparare ogni volta il funzionamento di una lingua, compresa la propria.

È questo il sommario bilancio della battaglia che contrappone il relativismo sul campo, il quale dovrebbe giungere alla conclusione che tradurre è impossibile, e il formalismo a tavolino, che fallisce nel fondare l’essenza della traduzione su una dimostrabile struttura universale. Ebbene sì, bisogna riconoscerlo: da una lingua all’altra la situazione è proprio quella della dispersione e della confusione. Eppure, la traduzione si inscrive nella litania dei “nonostante tutto”. A dispetto dei fratricidi, militiamo per la fratellanza universale. A dispetto dell’eterogeneità degli idiomi esistono individui bilingui, interpreti e traduttori.

Allora, come fanno?

Ho poco fa annunciato un cambiamento di orientamento: abbandonando l’alternativa speculativa – traducibilità contro intraducibilità – entriamo, dicevo, nell’alternativa pratica fedeltà contro tradimento. Per avvicinarci a questa inversione di rotta vorrei ritornare sull’interpretazione del mito di Babele che non vorrei chiudere sull’idea di catastrofe linguistica inflitta agli umani da un dio geloso della loro riuscita. Questo mito si può anche leggere, come d’altronde tutti gli altri miti di inizio che considerano situazioni irreversibili, come la presa d’atto senza condanna di una separazione originaria. Si può cominciare, agli inizi della Genesi, con la separazione degli elementi cosmici che consente a un ordine di emergere dal caos, continuare con la perdita dell’innocenza e l’espulsione dal giardino, che segna anch’essa l’ingresso nell’età adulta e responsabile e passare in seguito – e questo ci interessa particolarmente per una rilettura del mito di Babele – dal fratricidio, l’uccisione di Abele che fa della fraternità stessa un progetto etico e non più un semplice dato di natura. Se si adotta questa chiave di lettura, che condivido con l’esegeta Paul Beauchamp, la dispersione e la confusione delle lingue, preannunciate dal mito di Babele, vengono a coronare questa storia della separazione portandola al cuore stesso della pratica del linguaggio.

Così siamo, così esistiamo, dispersi e confusi e chiamati a che cosa? Ebbene, alla traduzione! Esiste un dopo Babele, definito dal “compito del traduttore” per riprendere il titolo del famoso saggio di Walter Benjamin poco fa menzionato. Per dare maggior forza a questa lettura, ricorderò con Umberto Eco che il racconto di Genesi I è preceduto dai due versetti numerati Genesi XI, 31, 2, in cui la pluralità delle lingue sembra considerata un dato semplicemente fattuale. Questi i figli di Sem distinti per stirpe e per lingua, nelle proprie regioni e nazioni. Queste sono le famiglie dei figli di Noè, secondo le loro origini e nazionalità; e da queste si diffusero le genti sulla terra dopo il diluvio.
Questi versetti hanno il carattere dell’enumerazione in cui si esprime la semplice curiosità di uno sguardo benevolo. La traduzione è allora proprio un compito, non nel senso di un obbligo costrittivo, ma nel senso della cosa da fare perché l’azione umana possa semplicemente continuare, per parlare come Hannah Arendt, l’amica di Benjamin, nella Condizione umana. Segue allora il racconto intitolato Mito di Babele.

Tutta la terra aveva una sola lingua e le medesime parole. Or avvenne che emigrando dall’oriente incontrarono una pianura nella regione di Sennaar e quivi si fermarono. E dissero l’uno all’altro: “Via! Facciamo dei mattoni e cociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro di pietra e il bitume di cemento. Dissero ancora: “Via! Fabbrichiamoci una città e una torre con la cima fino al cielo, e ci faremo un monumento per non disperderci sulla faccia di tutta la terra”. Scese il Signore per vedere la città e la torre costruite dai figli dell’uomo; e disse: “Ecco! Sono tutti un solo popolo e una sola lingua, e questa è la prima impresa che fanno; ormai non sarà loro difficile fare quanto venga loro in mente. Via! Scendiamo e confondiamo ivi la loro lingua, sicché non s’intendano l’un l’altro”. E li disperse il Signore di là per tutta la terra, e cessarono di fabbricare la città. Perciò le fu posto il nome di Babele, perché ivi il Signore confuse la lingua di tutto il mondo e di là li disperse per tutta la terra. Questa è la genealogia di Sem. Sem in età di 100 anni generò Arfacsad due anni dopo il diluvio; e dopo averlo generato visse 500 anni ed ebbe altri figli e figlie.

Avete sentito: non vi è alcuna recriminazione, nessuna condanna, nessuna accusa: “Yaveh li disperde li disperde da lì sulla faccia di tutta la terra. Smettono di costruire”. Smettono di costruire! Modo di dire: è così, come amava dire Benjamin. A partire da questa realtà della vita, traduciamo! Per parlare in modo appropriato del compito di tradurre, vorrei ricordare, con Antoine Berman ne “L’ Épreuve de l’etranger”, il desiderio di tradurre. Questo desiderio conduce al di là della costrizione e dell’utilità. Vi è certamente una costrizione: se si vuole commerciare, viaggiare, negoziare, o addirittura spiare, bisogna pur disporre di messaggeri che parlino la lingua degli altri. Quanto all’utilità, essa è evidente. Se ci si vuole risparmiare l’apprendimento delle lingue straniere, si è ben contenti di trovare delle traduzioni. Dopotutto è così che abbiamo avuto accesso ai tragici, a Platone, a Shakespeare, a Cervantes, Petrarca e Dante, Goethe e Schiller, Tolstoj e Dostoevskij. Costrizione, utilità, va bene! Ma c’è qualcosa di più tenace, di più profondo, di più nascosto: il desiderio di tradurre. È questo desiderio ad aver mosso i pensatori tedeschi da Goethe, il grande classico, e von Humboldt, già menzionato, passando per i romantici Novalis, i fratelli Schlegel, Schleiermacher (traduttore di Platone, non bisogna dimenticarlo), fino a Hölderlin, il traduttore tragico di Sofocle, e infine Walter Benjamin, l’erede di Hölderlin. E dietro questo bel mondo Lutero, traduttore della Bibbia, Lutero e la sua volontà di “germanizzare” la Bibbia, prigioniera del latino di San Gerolamo.

Che cosa si aspettavano questi appassionati di traduzione dal loro desiderio? Ciò che uno di essi ha definito l’allargamento dell’orizzonte della loro stessa lingua, e ancora quello che tutti hanno chiamato formazione, Bildung, vale a dire insieme configurazione ed educazione, e in più, se posso dire, la scoperta della loro stessa lingua e delle sue risorse lasciate incolte. Le parole che seguono sono di Hölderlin: “Quanto è proprio deve essere appreso bene tanto quanto ciò che è estraneo”. Ma allora perché questo desiderio di tradurre deve essere pagato al prezzo di un dilemma, il dilemma fedeltà/tradimento? Perché non esistono criteri assoluti per la buona traduzione; perché fosse disponibile un tale criterio bisognerebbe poter paragonare il testo di partenza e il testo d’arrivo a un terzo testo che potenzialmente fosse portatore dell’identico senso supposto circolare dal primo al secondo. La stessa cosa da ambedue i versanti. Allo stesso modo che per il Parmenide di Platone, non c’è terzo uomo fra l’idea dell’uomo e tale uomo nella sua individualità – Socrate, tanto per non fare nomi – e non vi è neppure un terzo testo fra il testo d’origine e il testo d’arrivo.

Da qui il paradosso, prima del dilemma: una buona traduzione può mirare solo a un’equivalenza presunta, non fondata su una dimostrabile identità di senso. Una equivalenza senza identità. Questa equivalenza può essere solo cercata, lavorata, presunta. E il solo modo di criticare una traduzione – cosa che si può sempre fare –, è di proporne un’altra presunta, pretesa migliore o differente. E d’altronde è ciò che accade tra i traduttori professionali. Quanto ai grandi testi della nostra cultura, viviamo per lo più su ri-traduzioni, a loro volta ricominciate all’infinito. È il caso della Bibbia, è il caso di Omero, di Shakespeare, di tutti gli scrittori citati prima e, fra i filosofi, di Platone fino ad arrivare a Nietzsche e a Heidegger.

Così muniti di ri-traduzioni, siamo equipaggiati meglio per risolvere il dilemma fedeltà/tradimento? Nient’affatto. Il rischio che corre il desiderio di tradurre e che fa dell’incontro dell’estraneo nella sua lingua una prova, è insormontabile. Franz Rosenzweig, che il nostro collega Hans-Christoph Askani ha preso a “Testimone del problema della traduzione” (così mi permetto di tradurre il titolo del suo grande libro di Tübingen) ha dato a questa prova la forma di un paradosso: tradurre – dice – equivale a servire due padroni, l’estraneo nella sua estraneità, il lettore nel suo desiderio di appropriazione. Prima di lui Schleiermacher scomponeva il paradosso in due frasi: “Condurre il lettore all’autore”, “condurre l’autore al lettore”. Io, per parte mia, mi arrischio ad applicare a questa situazione il vocabolario freudiano e a parlare, oltre che del lavoro di traduzione, nel senso in cui Freud parla del lavoro del rammentarsi, del lavoro del lutto.

Lavoro di traduzione, conquistato su resistenze intime motivate dalla paura, o addirittura dall’odio per l’estraneo, percepito come una minaccia diretta contro la nostra stessa identità linguistica. Ma anche lavoro del lutto, applicato a rinunciare all’ideale, in effetti, non ha nutrito solo il desiderio di tradurre a volte la gioia di tradurre, ha fatto anche l’infelicità di un Hölderlin, colpito nella sua ambizione di fondere la poesia tedesca e la poesia greca in un’iperpoesia in cui fosse abolita la differenza degli idiomi. E chissà se non è proprio l’ideale della traduzione perfetta ad alimentare, in ultima analisi, la nostalgia di una lingua originaria o la volontà di controllo sul linguaggio attraverso la lingua universale. Abbandonare il sogno della perfetta traduzione è come ammettere l’insuperabile differenza fra il nazionale e lo straniero. Resta la prova dell’estraneo.

Ed è qui che ritorno al mio titolo: il paradigma della traduzione. Mi sembra, in effetti, che la traduzione non chiama solo a un lavoro intellettuale, teorico o pratico, ma pone un problema etico. Condurre il lettore all’autore, condurre l’autore al lettore, con il rischio di servire e di tradurre due padroni, vuol dire praticare ciò che mi piace chiamare l’ospitalità linguistica. È essa a servire da modello ad altre forme di ospitalità che vedo a essa simili: le confessioni, le religioni non sono forse come lingue estranee le une alle altre, con il loro lessico, la loro grammatica, la loro retorica, la loro stilistica, che bisogna imparare per penetrarle? E l’ospitalità eucaristica non è forse da assumere con gli stessi rischi di traduzione-tradimento, ma anche con la stessa rinuncia alla traduzione perfetta? Mi fermo a queste rischiose analogie e a questi punti interrogativi….

Ma non vorrei terminare senza aver spiegato le ragioni per le quali non bisogna trascurare l’altra metà del problema della traduzione, vale a dire, se ve ne ricordate, la traduzione all’interno della stessa comunità linguistica. Vorrei dimostrare, molto succintamente almeno, che è proprio in questo lavoro su di sé della stessa lingua che si palesano le ragioni profonde per le quali il divario fra una presunta lingua perfetta, universale, e le lingue che si definiscono naturali, nel senso di non artificiali, è insormontabile. Come ho suggerito, non sono le imperfezioni delle lingue naturali che si vorrebbe abolire, ma il funzionamento stesso di queste lingue nelle loro stupefacenti bizzarrie. Ed è per l’appunto il lavoro della traduzione interna a rivelare questo divario. Mi unisco qui alla dichiarazione che domina tutto il libro di George Steiner, Après Babel. Dopo Babele “capire è tradurre”.

È molto di più che una semplice interiorizzazione del rapporto con l’estraneo, in virtù dell’adagio di Platone che il pensiero è un dialogo dell’anima con se stessa – interiorizzazione che farebbe della traduzione interna una semplice appendice della traduzione esterna. Si tratta di un’esplorazione originale che mette a nudo i processi quotidiani di una lingua viva: questi fanno sì che nessuna lingua universale può riuscire a ricostruirne l’indefinita diversità. Si tratta di avvicinarsi agli arcani della lingua viva e contemporaneamente, di render conto del fenomeno del malinteso, della cattiva comprensione che nasce dall’interpretazione di cui l’ermeneutica vuol fare la teoria. Le ragioni del divario fra lingua perfetta e lingua viva sono esattamente le stesse delle cause della cattiva comprensione.

Partirò da questo elemento caratteristico delle nostre lingue: è sempre possibile dire la stessa cosa in altro modo. È ciò che facciamo quando spieghiamo una parola con un’altra dello stesso lessico, come fanno tutti i dizionari. Pierce, nella sua scienza semiotica, pone questo fenomeno al centro della riflessività del linguaggio su se stesso. Ma è anche ciò che facciamo quando riformuliano un’argomentazione che non è stata capita. Diciamo che la spieghiamo, ossia che “ne spieghiamo le pieghe”. Ma, dire in altro modo la stessa cosa – altrimenti detto – è quanto faceva poco fa il traduttore di lingue straniere. Ritroviamo così, all’interno della nostra comunità linguistica, lo stesso enigma dello stesso, del significato stesso, l’introvabile senso identico che si presume rendere equivalenti ambedue le due versioni della stessa argomentazione; ed ecco perché, come si dice, non se ne esce, e molto spesso con le nostre affermazioni aggraviamo il malinteso.

Allo stesso tempo, un ponte è gettato tra la traduzione interna, la chiamo così, e la traduzione esterna, vale a dire che all’interno della stessa comunità la comprensione richiede almeno due interlocutori: non sono certo degli estranei, ma già altri, altri vicini, se si vuole; così Husserl, parlando della conoscenza di altri definisce l’altro quotidiano “der Fremde”, lo straniero. Vi è uno straniero in qualsiasi altro. Sono molti a definire, a riformulare, a spiegare, a cercare di dire la stessa cosa in altro modo. Facciamo un passo ulteriore in direzione di quei famosi arcani che Steiner non smette di visitare e di rivisitare. Con che cosa lavoriamo quando parliamo e rivolgiamo la parola a un altro? Con tre tipi di unità: le parole, vale a dire segni che si trovano nel lessico, le frasi, per le quali non vi è lessico (nessuno può dire quante frasi sono state e saranno dette in francese o in qualsiasi altra lingua), e infine i testi, vale a dire sequenze di frasi. È l’uso di questi tre tipi di unità, una messa in rilievo da Saussure, l’altra da Benveniste e Jacobson, la terza da Harald Weinrich, Jauss e i teorici della ricezione dei testi, a essere fonte di divario rispetto a una presunta lingua perfetta, e di malinteso nell’uso quotidiano e, quindi, occasione di interpretazioni molteplici e concorrenti.

Due parole sulla parola: le nostre parole hanno più di un significato ciascuna, come risulta dia dizionari. Questa proprietà si chiama polisemia. Il significato è allora ogni volta delimitato dall’uso, il quale consiste essenzialmente nel vagliare la parte del senso della parola che conviene al resto della frase e concorre con questo all’unità del senso espresso e offerto allo scambio. È ogni volta il contesto che, come si dice, decide del significato che ha assunto la parola in una certa circostanza del discorso; a partire da qui, le dispute sulle parole possono essere infinite: che cosa avete voluto dire? Ed è nel gioco della domanda e della risposta che le cose si precisano o si confondono. Infatti non esistono solo i contesti evidenti, esistono contesti nascosti e ciò che chiamiamo le connotazioni che non sono del tutto intellettuali bensì affettive. Non del tutto pubbliche ma adatte a un ambiente, a una classe, a un gruppo se non addirittura a un circolo segreto; vi è così tutto il margine nascosto dalla censura, il proibito, il margine del non detto, solcato da tutte le figure del nascosto. Con questo ricorso al contesto siamo passati dalla parola alla frase.

Questa nuova unità che è di fatto la prima unità del discorso, appartenendo la parola al campo dell’unità del segno che non è ancora discorso, porta con sé nuove fonti di ambiguità che vertono principalmente sul rapporto del significato – ciò che si dice – con il referente – ciò di cui si parla, in ultima analisi il mondo. Vasto programma, come dice l’altro! Ma, in mancanza di descrizione completa, abbiamo solo punti di vista, prospettive, visioni parziali del mondo. Ecco perché non si finisce mai di spiegarsi, di spiegarsi con le parole e le frasi, di spiegarsi con altri che non vedono le cose dal nostro stesso punto di vista. Entrano allora in gioco i testi, queste concatenazioni di frasi che, come indica la parola, sono tessiture che tessono il discorso in sequenze più o meno lunghe. Il racconto è una delle più importanti di queste sequenze ed è particolarmente interessante per i nostri fini nella misura in cui abbiamo imparato che si può sempre raccontare altrimenti variando l’intreccio, la favola. Ma esistono anche tutte le altre specie di testi, in cui si fa altro dal raccontare, per esempio argomentare, come si fa in morale, in diritto, in politica. Qui interviene la retorica con le sue figure di stile, i suoi tropi, metafore e altro, e tutti i giochi linguistici al servizio di innumerevoli strategie, tra le quali la seduzione e l’intimidazione a scapito dell’onesta preoccupazione di convincere. Ne consegue tutto ciò che si è potuto dire in “traduttologia” sui complicati rapporti fra il pensiero e la lingua, la mente e la lettera, e la sempiterna questione: bisogna tradurre il senso o tradurre le parole? Tutte queste difficoltà della traduzione da una lingua all’altra trovano la loro origine nella riflessione della lingua su se stessa, che ha fatto dire a Steiner che “capire è tradurre”.

Ma giungo a ciò cui Steiner tiene di più e che rischia di far vacillare tutta l’argomentazione in una direzione contraria a quella della prova dell’estraneo. Steiner si compiace a esplorare gli usi della parola in cui è in gioco altro rispetto al vero, al reale, vale a dire non soltanto il falso manifesto, ossia la bugia – sebbene parlare è poter mentire, dissimulare, falsificare –, ma anche tutto ciò che si può classificare in altra categoria rispetto al reale: diciamo il possibile, il condizionale, l’ottativo, l’ipotetico, l’utopistico. È pazzesco – è il caso di dirlo – che cosa si può fare con il linguaggio: non soltanto dire la stessa cosa in altro modo, ma dire altra cosa da ciò che è. Platone ricordava a questo proposito – e con quale perplessità! – la figura del sofista.

Ma non è questa figura a disturbare in misura maggiore l’ordine del nostro argomentare: è la propensione del linguaggio all’enigma, all’artificio, all’ermetismo, al segreto, per dirla tutta alla non comunicazione. Da qui ciò che definirò l’ermetismo di Steiner che lo porta per odio alla chiacchiera, all’uso convenzionale, alla strumentalizzazione del linguaggio, a contrapporre interpretazione e comunicazione. L’equazione “capire è tradurre” si richiude allora sul rapporto di sé con se stesso nel segreto in cui ritroviamo l’intraducibile che credevamo aver allontanato a vantaggio della coppia fedeltà-tradimento. Lo ritroviamo sul percorso del desiderio della fedeltà più estrema. Ma fedeltà a che e a che cosa? Fedeltà alla capacità del linguaggio di preservare il segreto contrariamente alla sua propensione a tradirlo. Fedeltà quindi a se stessi piuttosto che ad altri. Ed è vero che la sublime poesia di un Paul Celan rasenta l’intraducibile, rasentando prima di tutto l’indicibile, l’innominabile, nel cuore della sua stessa lingua quanto nella distanza fra due lingue.

Che cosa concludere da questa serie di inversioni? Rimango, lo confesso, perplesso. Sono sicuramente portato a privilegiare l’entrata dalla porta dell’estraneo. Non siamo stati noi mossi dal dato di fatto della pluralità umana e dal duplice enigma dell’incomunicabilità fra idiomi e della traduzione nonostante tutto? E poi, senza la prova dell’estraneo, saremmo forse sensibili all’estraneità della nostra stessa lingua? Infine, senza questa prova, non correremmo forse il pericolo di rinchiuderci nell’asprezza di un monologo, soli con i nostri libri? Onore, dunque, all’ospitalità linguistica. Ma vedo altrettanto bene l’altro versante, quello del lavoro della lingua su se stessa. Non è questo lavoro, forse, a darci la chiave delle difficoltà della traduzione ad extra? E se non avessimo sfiorato le contrade inquietanti dell’indicibile, avremmo forse il senso del segreto, dell’intraducibile segreto? E i nostri migliori scambi, in amore e in amicizia, conserverebbero questa qualità di discrezione-segreto/discrezione che preserva la distanza nella prossimità? Sì, ci sono proprio due vie d’accesso nel problema posto dall’atto del tradurre.