L’Iraq è un Paese che, pur cercando di risolvere i propri problemi, sta vivendo una crisi di identità. E’ difficile capire lo stato di conflitto permanente che il Paese vive senza comprendere alcuni dei fattori che hanno contribuito alla crisi. Il caos e la guerra civile seguiti ad una dittatura particolarmente brutale, possono essere considerati manifestazioni estreme di quella crisi. La preponderante maggioranza degli iracheni si identifica innanzi tutto con il fatto di essere cittadini iracheni. Tuttavia, è proprio la discordanza su ciò che significa essere iracheni a perpetuare il conflitto interno e ad impedire a questo popolo di definire la propria comunità politica in modo pluralistico e inclusivo.
Quando una società “nazionale” è ostinatamente divisa si sviluppa la tendenza ad usare mezzi estremamente violenti per distruggere “l’altro” all’interno di quella stessa società. E’ importante avere il giusto atteggiamento mentale per distinguere i vari segmenti interni della società, le cui azioni devianti e i cui comportamenti antisociali o eversivi rivelano che è lecito ritenere che essi meritino di essere i destinatari del nostro “legittimo” odio e della nostra “giusta” ostilità. Dal mio punto di vista, le metanarrative collettive sono costruzioni mentali fondamentali capaci di interpretare il passato in modo da incoraggiare un rapporto significativo con il presente e suggeriscono al futuro quale via seguire. Come accade per qualsiasi processo interpretativo, le metanarrative metteranno in evidenza alcuni aspetti e ne trascureranno altri. In ogni caso, le vicende narrate sono importanti e rappresentano un misto di realtà e leggenda, di fatti e di fantasie.
L’Iraq fu fondato principalmente da insediamenti coloniali ed è abitato da numerosi gruppi etnici e settari. Il Paese è stato profondamente influenzato dall’assenza di una metanarrativa nazionale inclusiva e di un efficace sistema politico. Anziché “inventare” un’identità che comprenda le proprie diverse comunità e le loro particolarità, lo Stato iracheno è stato monopolizzato dall’élite politica sunnita. Questo gruppo non è riuscito a creare una società politica aperta alle altre comunità, principalmente Sciiti e Curdi (che costituiscono l’80 per cento della popolazione). Il Paese è rimasto instabile e indebolito da violenze e rivolte. Nel 1968, conquistò il potere il Partito Ba’ath, che, nella prima metà degli anni Settanta, consolidò la propria autorità sfruttando gli immensi introiti derivanti dallo straordinario aumento del prezzo del petrolio. Nel trattare con le pluralità interne, il governo guidato dal Partito Ba’ath adottò due linee politiche: in primo luogo, quella di creare una metanarrativa nazionale fondata sulla propria ideologia pan-arabica e, secondariamente, quella di sopprimere ogni metanarrativa alternativa.
I profitti derivanti dal petrolio furono utilizzati per creare varie piattaforme culturali, per incorporare nei programmi scolastici tale ideologia. Furono inventate delle tradizioni che hanno contribuito a instillare nella gente, soprattutto nelle giovani generazioni, la metanarrativa preferita. Oltre a tali ambiziosi programmi di “ba’athificazione” (disseminazione dell’ideologia baathista), il regime rafforzò il proprio sistema di sicurezza e superò i suoi predecessori nel ricorrere a mezzi repressivi. Questi processi, tuttavia, anziché realizzare l’ideale ba’athista, hanno esasperato la frammentazione sociale. Dopo trentacinque anni di totalitarismo di partito seguito da una dittatura su base familiare, l’Iraq è meno unito e le identità etno-settarie hanno prevalso sull’identità nazionale. Come si può spiegare un tale esito? La risposta risiede in parte nelle politiche adottate dal regime militaristico di Saddam, e in parte nella sua metanarrativa esclusivista. Benché dal punto di vista della geopolitica mediorientale vi siano numerose interpretazioni dell’approccio aggressivo di quel regime, è altrettanto vero affermare che la sua incapacità nell’affrontare il problema dell’identità irachena ha aggravato il modo di governare orientato alla crisi del regime.
Il sistema “democratico” emerso nel dopo-Saddam non ha migliorato la situazione. Pur adottando una struttura istituzionale più inclusiva e un sistema di governo rappresentativo, esso non è riuscito a superare il clima di sospetto diffuso tra le comunità etno-settarie. Tale evoluzione deve essere compresa anche da un punto di vista geopolitico e geoculturale ed essere messa in relazione con gli insuccessi dello Stato moderno in Medio Oriente. Il problema dell’identità non è stato risolto in modo definitivo in nessuno dei Paesi di quell’area e, in alcuni di essi, l’apparente stabilità nasconde solitamente un ordine socio-politico basato sull’esclusione etnica o settaria. Tale realtà è più evidente nei Paesi caratterizzati da una forte eterogeneità sociale, con un governo centrale debole e in cui è stata adottata una forma di “governo democratico”. L’Iraq e il Libano, probabilmente, costituiscono gli esempi principali. In entrambi i Paesi, il processo elettorale è governato da una polarizzazione delle comunità e la gente tende a votare per i candidati che appartengono alla propria etnia. I partiti trans-comunitari non esistono al di fuori delle cerchie limitate dei gruppi elitari. In tale contesto, gli avversari politici mirano ad ottenere un potere maggiore e spesso tale processo si accompagna a minacce implicite o esplicite di violenza o di boicottaggio qualora le richieste minime non vengano soddisfatte dagli altri “partner”.
Spesso si tratta di minacce concrete perché il loro esito è la divisione de facto e tale situazione non consente una mediazione tra l’autorità centrale e la comunità insoddisfatta. L’alternativa a tale impasse è l’istituzione di un governo debole al quale partecipino, condividendo il potere, tutte le comunità etno-settarie, così che alcune delle decisioni svantaggiose possano essere neutralizzate.
Ciò nonostante, il problema è più grave perché, piuttosto che nelle istituzioni, le sue radici affondano in un particolare atteggiamento mentale. Questa situazione conflittuale non può essere risolta senza affrontare le costruzioni mentali dominanti, vale a dire le metanarrative identitarie. Sebbene la maggioranza degli iracheni sciiti e curdi abbiano accolto il cambiamento di regime pieni di aspettative positive e l’abbiano considerato un nuovo inizio, molti cittadini residenti nelle regioni sunnite l’hanno invece visto giungere con preoccupazione, interpretandolo come la fine del governo “nazionale”. Di conseguenza, ciò che ha prevalso è stata la retorica xenofoba e le reciproche accuse. L’incapacità di collocare il passato all’interno di una nuova metanarrativa conciliatoria ha portato ciascuna comunità a svilupparne una individuale. Poiché ogni gruppo ha continuato ad incolpare l’altro, tali metanarrative sono servite ad aggravare odi e sentimenti di vendetta. Le potenze regionali alla ricerca di influenza sul nuovo Iraq e sulla creazione della sua nuova identità hanno ulteriormente complicato il conflitto interno.
In tale contesto, persino quelle misure adottate con lo scopo di favorire la legalità, la responsabilità e la riconciliazione si sono rivelate controproducenti. Due importanti esempi sono costituiti dalla Accountability and Justice Commission (precedentemente definita la Commissione per la deba’athificazione), e dal Tribunale Speciale per l’Iraq. Quest’ultimo fu istituito dall’Iraqi Governing Council il 10 dicembre 2003 per processare gli iracheni accusati di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante il governo ba’athista (1968-2003). Tuttavia, a molti cittadini non è apparso chiaro se lo scopo di tali organismi fosse quello di riconoscere ed affrontare le atrocità commesse nel passato o quello di mettere in atto una vendetta. Per quanto è a conoscenza di chi scrive, non è stata svolta una supervisione sistematica tale da fornire una visione di quanto era accaduto e, soprattutto, del “perché”.
L’importanza di questo punto è illustrato dal fatto che molti di quei cittadini oppressi non erano più preparati a rimanere in silenzio mentre in tutto il Paese venivano scoperte fosse comuni e i responsabili dei crimini non venivano identificati con certezza. Il mio punto di vista è che la società irachena avrebbe bisogno di riflettere sul conflitto e accettare alcune responsabilità non soltanto per aver assistito in silenzio alla persecuzione di consistenti settori della popolazione mediante politiche repressive, ma anche per aver permesso ad un regime così crudele di rimanere al potere per decenni. Finora, non sembra che tale riflessione vi sia stata. Il discorso settario invece, con la sua interpretazione politicizzata e la sua attuazione obbligata, accolto e sostenuto dai mezzi di comunicazione locali e dai regimi politici, ha enfatizzato la contraddizione esistente nella metanarrativa. La continua attribuzione all’“altro” della colpa di tutti gli eventi negativi del passato ha creato una situazione che non soltanto ha aggravato la divisione sociale, ma ha anche consentito che venissero tollerati atti di estrema violenza. Usare le politiche identitarie per risolvere la crisi d’identità ha finito con l’aggravarla.
Sebbene gli iracheni restino in conflitto con il nuovo governo e con il sistema di condivisione del potere, non riescono tuttavia a venire a patti con il proprio passato. Fino a quando ciò non cambierà, non potranno ideare una metanarrativa “nazionale” in grado di reinterpretare la collettività e di ridefinire il loro essere iracheni. Se si permette che il “presente” diventi il passato del domani, il conflitto e il clima di sospetto si radicheranno ancora di più e una riconciliazione diventerà più difficile. Sta al popolo iracheno nel suo insieme risolvere il problema e riaffermare la propria sovranità popolare e democratica.
Traduzione di Antonella Cesarini