Nel suo libro lei scrive che “spesso i più importanti quotidiani occidentali danno ampio spazio ad articoli che demonizzano la Cina”. Come lo spiega? Ritiene che le ragioni siano geopolitiche, economiche o culturali?
Uno dei motivi è da ricercare nella necessità di concentrarsi su ciò che fa vendere i giornali. Certi pregiudizi diffusi nell’opinione pubblica rendono alcuni articoli più meritevoli di altri di essere pubblicati e quei servizi contribuiscono a loro volta a consolidare tali pregiudizi. Dal momento delle uccisioni avvenute a Pechino il 4 giugno 1989, il governo cinese è stato generalmente visto come uno spietato regime autoritario che opprime i propri cittadini, perciò gli articoli che concordano con questa immagine si vendono più facilmente. Durante le sommosse razziali del marzo scorso a Lhasa, ad esempio, sono stati uccisi dei civili cinesi, ma la maggior parte dei servizi giornalistici ha prodotto l’effetto di inasprire l’opinione occidentale nei confronti della Cina. Il governo cinese esercita un dominio repressivo sul Tibet ma vi sono molti altri governi che opprimono le minoranze e i servizi giornalistici sul Tibet sembrano alquanto sproporzionati. Un altro fattore che aiuta a spiegare il motivo per il quale gli occidentali hanno tanto a cuore il Tibet è che spesso lo considerano una sorta di Shangri-La, un’idilliaca alternativa alla modernità.
Gli articoli che tracciano un ritratto negativo della Cina hanno a che vedere anche con la crescita economica e con le preoccupazioni che la competizione economica con la Cina può destare. Spesso i timori sono irrazionali: tanti consumatori occidentali traggono vantaggio dai prodotti cinesi a buon prezzo, spesso accade che i profitti finiscono nelle tasche delle multinazionali mentre è la Cina a subire le conseguenze del degrado ambientale. Ma l’impatto della Cina è più evidente nel momento in cui si perdono posti di lavoro e i politici occidentali si trovano a disposizione un capro espiatorio. Da ciò nascono i servizi su cibi e farmaci avvelenati, sullo sfruttamento nelle fabbriche e sulle morti in miniera, le notizie sull’inquinamento di Pechino, a cui viene dato ampio risalto; il messaggio sottinteso è che la Cina beneficia di un ingiusto vantaggio, prendendo delle scorciatoie e opprimendo il suo stesso popolo, cercando di conquistare nuovi mercati in cui esportare. Vi è anche la percezione che la Cina costituisca una minaccia militare. Nonostante il Paese sia arretrato di decenni in termini di tecnologia militare e sia circondato da un gran numero di Paesi in cui sono collocate basi americane, alcuni politici americani enfatizzano la minaccia militare cinese e ciò viene poi riportato dalla stampa. Poco dopo essere entrata in carica, l’amministrazione Bush iniziò ad enfatizzare il “pericolo cinese”, ma la Cina ebbe la “fortuna” che, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, furono altri ad essere percepiti come nemici, superandola.
Oggi, la Cina è spesso considerata come una minaccia a lungo termine, e persino alcuni politici del Partito Democratico parlano di mantenimento della superiorità militare americana anziché evocare la visione di un mondo multipolare, con sfere di influenza e responsabilità diverse, per non parlare della possibilità di un futuro integralmente demilitarizzato. Forse anche il razzismo può contribuire a spiegare la percezione negativa che si ha della Cina. Considerata la storia del razzismo in Occidente, sarebbe temerario escludere questa possibilità. Tuttavia, direi che esiste un altro fattore più importante: il sorgere, in Cina, di un orgoglio nazionale e del risveglio della tradizione. Per gran parte del Ventesimo secolo, i liberali e i marxisti cinesi si sono dedicati ad una critica totalizzante del proprio patrimonio storico e culturale, rivolgendosi ad Occidente in cerca di ispirazione.
Agli occidentali ciò può essere parso lusinghiero – guarda, vogliono essere come noi! – ma la comprensione è molto diminuita ora che i cinesi sono tornati ad essere orgogliosi del proprio patrimonio culturale e che, per elaborare una riforma sociale e politica, si ispirano alle loro stesse tradizioni. Pensando alla politica, in molti occidentali scatta la dicotomia democrazia/ autoritarismo: se non si sostiene pienamente la democrazia, allora si è autoritari. Ma cosa accade di fronte ad alternative politiche ispirate al confucianesimo che non si accordano in modo preciso a tale dicotomia? Direi che il futuro della Cina sarà plasmato da un misto di meritocrazia ispirata al confucianesimo e di caratteristiche democratiche, e sarebbe un errore il voler inquadrare tale dibattito in categorie politiche centrate sull’Occidente.
In che modo la crisi finanziaria cambierà i rapporti tra Cina e Occidente?
Per il momento, la Cina è convinta che il suo modello, il quale prevede il controllo dei capitali e un mercato rigidamente regolato, sia quello più sostenibile. Sono finiti i giorni in cui il Segretario del Tesoro Paulson poteva venire in Cina e dare lezioni ai cinesi sulla necessità di liberalizzare ulteriormente il mercato. La Cina cercherà di acquisire maggiore rappresentanza e maggior potere in seno alle istituzioni finanziarie internazionali, come l’IMF. Inoltre, per favorire la crescita, il governo, consapevole dei rischi derivanti da una forte dipendenza dalle esportazioni, si rivolgerà più decisamente verso il mercato interno. In qualche misura, esiste una convergenza di interessi – nel lungo termine, quello degli Stati Uniti è di risparmiare di più e consumare di meno – ma se gli USA applicheranno misure protezioniste, i rapporti potrebbero peggiorare.
Quali sono gli stereotipi più irritanti che ha trovato sui media occidentali riguardo alla Cina?
Lo stereotipo più irritante, perché sbagliato, è quello che ritrae la Cina come un Paese totalitario che controlla gli aspetti minuti della vita quotidiana dei propri cittadini. Ma la Cina, negli ultimi trent’anni, ha subito un processo di “detotalitarianizzazione” : oggi, i cittadini sono liberi di sposarsi, trovare lavoro, viaggiare, fare affari, ecc. Nella misura in cui esistono dei limiti alle scelte che riguardano la vita privata, questi hanno a che vedere sia con fattori economici (per esempio, troppo pochi posti di lavoro per i nuovi laureati) che con fattori politici. Il processo di “detotalitarianizzazione”, naturalmente, è ancora incompleto ed è necessaria una ulteriore riduzione del controllo statale in alcuni settori, come quello dei media. D’altra parte, lo Stato è relativamente debole nell’affrontare alcuni compiti socialmente necessari come la riscossione fiscale e in tali aree si potrebbe verificare la necessità di uno Stato più forte.
Che cosa l’Occidente non riesce a capire del sistema cinese?
Circa i diritti umani, è importante accettare la possibilità che vi siano modi diversi di stabilire la priorità dei valori in caso di conflitto e non dovremmo dare per scontato che il nostro sia il modo migliore di farlo. In Cina, ad esempio, l’idea che lo Stato abbia l’obbligo primario di provvedere alle necessità fondamentali del popolo ha una lunga tradizione, non è solo un’invenzione dei comunisti. Oltre duemila anni fa, Mencio sosteneva che il governo deve provvedere ai mezzi di sussistenza elementari del popolo, in modo che esso non si smarrisca dal punto di vista morale. Tali idee esercitarono una grande influenza nel corso di tutta la storia imperiale cinese. Perciò, in Cina, è plausibile l’idea che i diritti politici debbano essere sacrificati in caso di conflitto con i diritti economici. E’ importante anche paragonare lo stato dei diritti umani in Cina con quello di Paesi quali il Messico, la Russia e l’India. In questi casi – e se si guarda ad una visione generale dei diritti umani, inclusi i diritti sociali ed economici – , la condizione dei diritti umani in Cina non risulta troppo negativa e potrebbe indirizzarsi verso la giusta direzione. Ciò non significa negare che alcuni passi in avanti siano possibili e necessari, ad esempio affrontare con serietà dei negoziati che conducano ad una maggiore libertà religiosa in Tibet.
Solitamente gli intellettuali occidentali non ritengono che vi sia qualcosa da apprendere dalle società non-occidentali (mentre, come lei stesso scrive, i cinesi stanno ora cercando di ispirarsi anche al modello scandinavo). Cosa potremmo imparare dalla società cinese?
Credo che gli intellettuali occidentali abbiano un atteggiamento di apertura nei confronti dell’arte, della medicina e della cultura cinese. Alcuni aspetti della vita sociale cinese, come la sollecitudine e il rispetto verso gli anziani, dovrebbero esercitare attrazione sugli intellettuali occidentali. Ma dubito che vi sia una grande disponibilità ad apprendere i valori politici cinesi, come ad esempio quello dell’armonia. Intanto, lo Stato cinese deve fare di più per prendere seriamente quei valori e fornire un buon esempio morale. Una volta che lo Stato cinese agirà in modo morale all’estero, potrà esprimere e promuovere i propri valori nel resto al mondo. Altrimenti nessuno ascolterà. I valori confuciani dovrebbero essere considerati influenti sulla politica interna il che implicherebbe una maggiore tolleranza per i punti di vista politici differenti. Uno dei più noti tra i detti di Confucio sostiene che gli uomini esemplari dovrebbero perseguire l’armonia ma non la conformità, un contrasto che fu formulato in un antico testo, lo Zuo Zhuan, in cui si faceva chiaramente riferimento all’idea che il sovrano deve essere aperto ai diversi punti di vista politici dei suoi consiglieri.
Detto questo, non sono tuttavia convinto che gli intellettuali occidentali siano disposti ad ascoltare, almeno fino a quando le loro società non attraverseranno gravi crisi sociali e politiche. Una società è più incline ad apprendere da un’altra durante i tempi di crisi. Per gran parte del Ventesimo secolo, la Cina ha attraversato una crisi – considerava se stessa come “il malato d’Asia” – e guardava all’Occidente per trovare una cura. Se i Paesi occidentali attraversassero una crisi prolungata, allora potrebbero guardare alla Cina in cerca di ispirazione. Nel momento attuale, è necessario capire ciò che sta accadendo in Cina e accogliere la possibilità di tollerare, se non di rispettare, alcune differenze moralmente accettabili.
Nel suo libro lei scrive che per l’attuale leadership cinese il confucianesimo conta più del marxismo. Questa è una buona notizia per l’Occidente?
Il marxismo è ancora l’ideologia ufficiale del partito e ciò che intendo dire è che tra la leadership cinese vi è un interesse sempre maggiore verso il confucianesimo, ma non che esso conti di più. All’estero, il governo cinese sta promuovendo la cultura confuciana più del marxismo rivoluzionario. Ad esempio, la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici, che è stata sottoposta all’approvazione del Politburo, aveva molto di Confucio e poco di Mao o di Marx. E’ come se il Ventesimo secolo fosse stato cancellato dalla memoria collettiva. Il governo sta promuovendo anche lo studio della lingua e della cultura cinese attraverso gli Istituti Confucio. Nelle scuole di partito si insegnano sempre di più i classici confuciani. Credo che questa sia una buona notizia nel senso che i classici pongono l’accento su un governo che opera attraverso l’ esempio morale, i rituali informali e la persuasione, in cui le pene più severe costituiscono l’ultima risorsa. Se i governanti prendono seriamente tali valori, se studiano i classici (invece che essere preparati esclusivamente nel campo ingegneristico o nelle scienze, ad esempio), governeranno con maggiore sensibilità morale, e questa è una buona notizia.
Perché i cinesi residenti all’estero tendono ad “autoghettizzarsi” più di altre comunità?
Non sono certo che ciò sia vero: anche i coreani, ad esempio, tendono ad aggregarsi in “Koreatowns”. Ad ogni modo, un fattore importante che spiega il fenomeno delle Chinatown è che le famiglie estese – i clan – tendono a funzionare come società di mutuo soccorso, si aiutano gli uni con gli altri per emigrare e per trovare lavoro. Generalmente si tratta di poveri immigrati che lavorano sodo e si sacrificano per dare un’istruzione ai figli, dai quali ci si aspetta che salgano nella scala sociale all’interno delle nuove società che li ospitano. Gli immigrati cinesi relativamente benestanti o quelli di seconda generazione sono forse meno propensi all’auto-ghettizzazione. Nella misura in cui ciò accade, vi sono alcuni fattori che spiegano il desiderio di vivere vicino ad altri immigrati cinesi, ad esempio la presenza di buoni supermercati o ristoranti cinesi. Se si è stati in un ristorante “cinese” di una piccola città dell’America del Nord è facile capire a cosa mi riferisco. Il cibo è pessimo e nessuno che ami il buon cibo cinese desidera abitarci vicino.
In che modo la società civile occidentale e quella cinese possono imparare a conoscersi?
La vita universitaria fa parte della società civile. Le università cinesi sono molto più libere di quanto si creda, e un maggiore scambio di studenti e di docenti contribuirebbe ad eliminare i malintesi e il pericolo di conflitti non necessari tra Cina e Occidente. In effetti, credo che i cinesi colti sappiano delle società occidentali molto più di quanto i loro pari occidentali sappiano della Cina. Una delle ragioni è che i cinesi colti spesso studiano l’inglese e viaggiano e che molte opere occidentali sono state tradotte in cinese. Oggi, in Occidente, c’è un maggiore interesse per lo studio della lingua cinese, e questa è una cosa positiva. Ma quante opere accademiche cinesi sono state tradotte nelle lingue occidentali? Abbiamo ancora molta strada da fare.
Bisogna anche notare che le “società civili” possono funzionare in modo diverso e noi dobbiamo rispettare tali differenze. L’idea liberale di società civile, ad esempio, immagina un gruppo di cittadini impegnati in un dialogo libero ed aperto, senza che alcun rapporto di potere ne influenzi l’esito. Ma il punto di vista cinese ammette l’esistenza di alcune gerarchie giustificabili, ad esempio quelle basate sull’età. Il punto di vista confuciano considera che la capacità di giudizio morale migliora quando si invecchia, quando si rivestono ruoli diversi e quando l’esperienza in uno specifico ruolo si è approfondita. Perciò potrebbe avere senso consentire agli anziani di far sentire più chiaramente la loro voce all’interno della società civile: un concetto che in un contesto occidentale sembrerebbe strano.
La Cina diventerà una fonte di stabilità o di instabilità per le relazioni internazionali?
A questo punto, sono relativamente ottimista. Non riesco ad immaginare una Cina che scatena una guerra contro Paesi lontani a dispetto dell’opinione mondiale. Credo anche che la Cina abbia un interesse enorme nel sistema economico globale e che il governo farà del suo meglio per stabilizzarlo. Dipende anche dagli altri governi. Se la Cina viene trattata da nemico, comincerà a comportarsi come tale. Il candidato presidenziale Repubblicano John McCain, ad esempio, proponeva di creare una sorta di “Lega delle Democrazie”. Tale proposta sarebbe stata vista negativamente dal regime cinese, proprio come la Russia ha reagito negativamente all’espansione della NATO. Perché cambiare strada per affrontare e accerchiare regimi che hanno interessi comuni? Se tutto va bene, i Democratici non proseguiranno su questa via.
Un suggerimento al presidente americano Obama per migliorare le relazioni tra Cina e Stati Uniti.
Dimostrare un interesse autentico per la cultura cinese e usare qualche parola cinese nei discorsi che rivolgerà alla Cina. Mi rendo conto che il presidente Obama non avrà a disposizione molto tempo libero, ma questo riscalderebbe il cuore dei cinesi e faciliterebbe la soluzione dei problemi.
Traduzione di Antonella Cesarini