Le tradizioni e i movimenti religiosi hanno acquisito maggiore rilievo politico rispetto al passato. Non solo, naturalmente, nei Paesi islamici. Quanto avviene negli Usa ne è un chiaro esempio. Le religioni, assieme a fedeli e credenti, hanno in qualche modo il dovere di “tradursi” se intendono entrare a fare parte della vita pubblica in condizioni accettabili. L’adattamento, però, deve essere reciproco: non è giusto – sostiene – che tale sforzo di “traduzione” sia solo ed esclusivamente a carico dei credenti. In uno Stato laico così come in una società secolare, anche chi non crede ha il dovere di fare un passo verso l’”altro”: ossia, i credenti. Il punto non è essere o meno a favore della diversità culturale: tutti noi, in linea di massima, lo siamo. È, semmai, capire fino a che punto siamo pronti ad andare verso l’”altro”.
Vorrei iniziare con una riflessione sulla cerimonia che ha preceduto questo incontro. A due persone è andato un particolare riconoscimento: una è di nazionalità ebrea, l’altra araba. Il che, proprio come ha magistralmente spiegato il professor Al-Azm, è probabilmente un fatto significativo. Perché? Perché, in quanto filosofi e intellettuali, tutti noi proviamo se non altro simpatia e ammirazione per tutte quelle ragioni che sono indipendenti da religione, cultura e tradizione. Il che, in fondo, non è un fatto troppo negativo. Ogni qual volta parliamo del rapporto tra politica e religione, il pensiero va immediatamente alla cultura musulmana. Eppure, i due fenomeni non vanno necessariamente di pari passo. Non troppo tempo fa, ad esempio, quando qualcuno ha chiesto al presidente americano George W. Bush chi fosse il suo filosofo preferito, egli ha risposto “Gesù”. E, va da sé, il libro prediletto non poteva che essere “la Bibbia”. E, che io sappia, Bush non è musulmano…
Allo stesso modo, ricordo che non troppi anni fa l’ex presidente iraniano Khatami fu spinto da un giornalista, nel corso di un’intervista rilasciata alla Cnn, a riconoscere come la politica iraniana fosse eccessivamente intrisa di religione. Egli, con una mossa davvero astuta, prese a leggere un passaggio di Tocqueville in cui si asseriva che il vero privilegio degli Stati Uniti derivasse dall’enorme popolarità della religione nell’agone politico. Così, se da un lato possiamo convenire che i movimenti e le tradizioni religiose godano, oggi, di maggiore rilievo politico rispetto al passato, il professor Filiali Ansary ha tuttavia ragione quando afferma che essi non sono mai scomparsi dallo scenario mondiale. Può darsi che ora godano di maggiore importanza nella vita pubblica e nell’esperienza politica. Naturalmente, però, non soltanto nei Paesi islamici. Ancora una volta, l’esempio degli Usa è eloquente. Si tratta di un fenomeno di proporzioni enormi. Come possiamo reagire ad esso, non solo in termini pratici ma anche filosofici?
Per un laico, la reazione istintiva è anzitutto operare dei distinguo, nel solco di quanto già illustrato dagli oratori che mi hanno preceduto. La religione è un fatto privato, la politica è cosa pubblica. Le istituzioni di quest’ultima, quindi, devono essere autonome e indipendenti da qualsiasi particolare tradizione o sentimento religioso, proprio perché esse appartengono alla collettività. E, per questa ragione, non possono essere particolaristiche né favorire qualsivoglia sentimento o movimento religioso. Il filosofo americano John Rawls introduce una sorta di clausola condizionale relativamente alle modalità con cui le dottrine comprensive – tra le quali è la religione – possono entrare nella vita pubblica. Tale clausola si basa sul concetto di “ragione pubblica”. Ecco perché mi pare che le religioni, così come i fedeli e i credenti, abbiano in qualche modo il compito di “tradursi” se desiderano inserirsi nella vita pubblica in condizioni accettabili. Un credente non può dichiararsi, ad esempio, “Contro l’aborto perché così ha detto ieri il Papa”; in modo del tutto legittimo, però, potrebbe asserire la sua contrarietà a tale pratica perché, ancora per fare un esempio, “La vita umana è sacra e l’aborto viola questo principio”.
Numerosi intellettuali religiosi – tra cui Paul Whitman, la cui riflessione è per noi, ai fini dell’odierno dibattito, assai interessante poiché egli è stato studente di Rawls – hanno bollato come iniqua la citata clausola condizionale rawlsiana. Quest’ultima – sostengono – addossa sugli individui una sorta di fardello asimmetrico. Ai loro occhi, non è giusto che soltanto credenti e fedeli debbano “tradursi”. Ci vuole, dunque, più fairness; termine – tra l’altro – tipicamente rawlsiano. Il criticismo, dunque, nasce all’interno della stessa corrente filosofica. Jürgen Habermas, inoltre, ha mosso un’ulteriore critica alla clausola rawsliana sulla ragione pubblica partendo dal concetto di società post-secolare. Con un ragionamento di grande acume, Habermas riconosce che l’adattamento tra laici e credenti deve essere reciproco. Non è giusto, come sostenuto da Whitman, che lo sforzo di “traduzione” sia interamente a carico dei credenti. Esso, dunque, va condiviso. Chi non coltiva alcuna fede religiosa, sia in uno Stato laico che in una società secolare, deve fare un passo verso l’”altro”, cioè verso i credenti. L’idea che mi pare più interessante in questa teoria è che non si possa imporre le proprie convinzioni secolari sui credenti. È un processo che deve partire dalle persone stesse, ossia da un’auto-riflessione da parte di credenti maturi e consapevoli. È, in fondo, quanto già avviene in alcuni Paesi. Non si tratta, quindi, di una proposta meramente teorica, bensì con precisi risvolti pratici. Ma c’è un problema.
Quando, durante un seminario a New York lo scorso autunno, ho chiesto ad Habermas “Professore, significa che lei è in favore del pluralismo culturale e che la soluzione laica e religiosa sono esattamente sullo stesso piano?”, egli ha risposto: “Assolutamente no. Io sono per il secolarismo, per l’Illuminismo”. Ecco perché ritengo che la sua proposta sia assai utile sotto il profilo umano e pragmatico, ma assai debole dal punto di vista teorico. Il vero problema è: esistono due verità o una sola? Il concetto di “traduzione” elaborato da Rawls poggia sull’assunto che una sia la via privilegiata, e che tutti gli individui debbano adattarvisi poiché preferibile per ragioni sia pratiche che teoriche. Il che – sostiene Habermas – è decisamente incongruo e comporta un fardello asimmetrico cioè, proprio per tale ragione, iniquo. Occorre, dunque, riposizionare tutti gli individui sullo stesso livello. Ma se si interpreta il ragionamento in senso radicale, ne consegue che le verità sono molteplici, e il vero problema è fino a che punto siamo disposti ad accettare l’”altro”.
I limiti del multiculturalismo
In linea generale, molti di noi sono decisamente propensi al multiculturalismo. Il punto è dove porne i limiti. Siamo disposti, ad esempio, al fine di incoraggiare il pluralismo, ad accettare che le donne vengano maltrattate? O ad acconsentire a pratiche come la cliteridectomia? Credo che la gran parte di noi non sia ancora pronta a fare questo passo; il punto, quindi, non è essere o meno a favore della diversità culturale: tutti noi, in linea di massima, lo siamo. Il problema è fissare un limite alla propria disponibilità ad andare verso l’“altro”. Si tratta di una questione capitale. E il fatto che, sostanzialmente, noi tutti conveniamo sulla necessità di muoverci verso l’“altro”, citando Habermas, ma al contempo ignoriamo l’autentica fondazione teorica di questo passo, non è privo di conseguenze pratiche. Oggi presenterò la versione semplificata di un modello filosofico volto a stabilire quale sia, in termini teorici, il rapporto tra politica e religione nello specifico ambito dei diritti umani. Non penso, in realtà, soltanto al rapporto tra politica e religione ma, più in generale, tra politica e cultura. Possiamo però immaginare che, in questa sede, per “cultura” intendiamo principalmente la religione. L’interpretazione standard dei diritti umani è di stampo secolare. Come possiamo renderla coerente con tutta una serie di fondamenti religiosi che traggono forza e significato dall’esperienza di fede del singolo?
Intendo soprattutto affrontare il problema sollevato dal differenzialismo culturale, con particolare riferimento al concetto di eccezione musulmana e di “valori asiatici”. È la controversa questione della potenziale universalità dei diritti umani a fronte di un’evidente varietà culturale, spesso fondata proprio su presupposti religiosi. In realtà, è quasi indubbio che i diritti umani, così come normalmente li concepiamo, abbiano un’aspirazione universale; ovvero, che siano considerati validi per tutti gli esseri umani. In tal senso, essi frappongono un limite strutturale al pluralismo culturale. Nella loro forma attuale, però, essi traggono origine da una specifica tradizione: la tradizione giuridica del liberalismo occidentale. Soppesare la loro universalità, dunque, significa chiederci quali siano i limiti entro cui la loro validità può estendersi al di là della tradizione culturale d’origine. Agli occhi di numerosi filosofi, il background teorico della questione in esame è il classico rapporto tra universalismo e relativismo. Mi limiterò a considerare il rapporto tra universalismo e relativismo nell’ambito della fondazione dei diritti umani, nella misura in cui tale contesto è potenzialmente soggetto a critiche in nome dell’eccezione musulmana e dei valori asiatici.
Lo farò affrontando la questione nei termini del modello essenzialmente politico che ho in altra sede definito “integrazione pluralistica dal basso”. Modello secondo cui i diritti umani, al pari della democrazia politica e della legalità, non possono essere asseriti dal centro e, di lì, imposti alla periferia del sistema mondiale. Lungi da ciò, il loro successo dipende dalla capacità di divenire retaggio delle culture nazionali individuali. Credo che vi siano pochi dubbi quanto alla ragionevolezza politica di tale modello. Se non ha alcun senso imporre le certezze dell’Occidente su quanti appartengono a culture che non le percepiscono come tali, non è nemmeno troppo ragionevole santificare le culture locali, astenendosi da una valutazione critica dei loro contenuti. In ogni caso, la necessità di equilibrare queste due esigenze e la ragionevolezza politica del mio modello non gli conferiscono automaticamente validità filosofica. Ecco perché il mio obiettivo è anzitutto reperire un background filosofico coerente con la proposta politica prima facie dell’integrazione pluralistica dal basso.
Il modello di integrazione pluralistica
Il modello di integrazione pluralistica che qui propongo suggerisce una via peculiare per pervenire a un “overlapping consensus”, o “consenso per intersezione”, sui diritti umani. Come ben sappiamo, la strategia dell’“overlapping consensus” presuppone la presenza di una realtà istituzionale che si può fondare su differenti premesse morali, religiose e metafisiche. È un’opzione chiaramente connessa alla realtà dello Stato-nazione. In tal senso, non è inverosimile pensare che la gran parte dei conflitti intellettuali siano per così dire “parziali” (o “ragionevoli”, se si vuole usare la definizione standard); ossia, che ognuno di noi è in grado di accettare la cornice istituzionale entro cui tali conflitti hanno luogo. La stessa strategia potrebbe apparire non applicabile in campo internazionale. Qui, non v’è alcuna cornice istituzionale condivisa da appoggiare. Ebbene, la mia tesi si oppone a tale teorema dell’impossibilità. Se partiamo dall’assunto – come appare normale fare – che i diritti umani non si limitano a una serie di imperativi morali, ma costituiscono altresì un insieme di requisiti giuridici, possiamo allora sostenere che tale insieme di norme legali rappresenta un formidabile background da cui non è facile prescindere. In realtà, è assai arduo pensare che si possa sostituire i diritti umani esistenti con un’altra serie di imperativi morali, tutti in principio idonei alla difesa e protezione della dignità umana, ma privi di un altrettanto incisivo background storico. Tale conclusione implica che principi morali, religiosi e metafisici diversi tra loro possono benissimo fondare lo stesso insieme di diritti umani, ma anche che è assai arduo sostituire quest’ultimo con i primi. In altre parole, è preferibile adattare principi religiosi, morali e metafisici diversi all’insieme dei diritti umani esistenti che non viceversa. A mio avviso, però, l’integrazione di una piattaforma di diritti umani già esistente con le sue molteplici, profonde giustificazioni deve essere pluralista e critica. Ciò significa che i diritti umani esistenti – come vedremo – non possono essere dati per scontati, e che la loro forza di legittimazione va discussa e valutata attraverso un aperto dialogo interculturale. Una volta accettata questa tesi, il modello dell’“overlapping consensus” può essere applicato anche alla sfera dei diritti umani.
La fondamentale idea filosofica alla base dell’integrazione pluralistica dal basso prevede un duplice livello di appartenenza e fedeltà da parte di ogni individuo. A livello etico e metafisico, ognuno mantiene la propria tradizionale prospettiva culturale e religiosa; al tempo stesso, però, a livello politico ciascuno opta per un approccio che converga con quello degli altri membri della comunità internazionale, attraverso la progressiva affermazione di una sorta di “overlapping consensus” multiculturale. Applicata alla sfera dei diritti umani, la tesi dell’“overlapping consensus” prevede che questi ultimi siano elementi di natura politica e giuridica condivisi e coerenti con una molteplicità di fondamenti morali, religiosi e metafisici. Tale tesi, dunque, presuppone l’esistenza di un potenziale critico intrinseco a tutte le culture il quale, col passare del tempo, farà parzialmente convergere queste ultime nella direzione auspicata dai difensori dei diritti umani.
Tale approccio consente di conciliare due visioni contrastanti a questo proposito. Secondo la prima, la sensibilità culturale nei confronti delle tradizioni locali deve avere la meglio sull’universalità dei diritti umani. La seconda, invece, prevede che l’universalità dei diritti umani debba prevalere sulle tradizioni locali. Partendo dall’integrazione pluralistica, la mia tesi mira a conciliare a un livello superiore queste due prospettive. Fatto è che una fondazione filosofica dei diritti umani rappresenta intrinsecamente un’impresa difficile, per così dire indipendentemente dal tipo di impostazione teoretica preferita. Impresa che, naturalmente, è resa ancora più difficile quando si apre la questione della diversità culturale. Non è complicato, fortunatamente, comprendere la ragione concettuale più evidente alla base di questa difficoltà. Questa ragione ha a che fare con la natura ambigua, assieme empirica e filosofica, dei diritti umani. I diritti umani sono essenzialmente diritti morali, e quindi indipendenti da ogni ordinamento giuridico e da ogni applicazione in norme concrete. E, in realtà, proprio questa loro indipendenza dal piano legale in senso stretto, e questa loro natura morale, li rendono una pietra di paragone e una riserva critica per il diritto positivo. Ciononostante, è praticamente impossibile pensare ai diritti umani senza tenere conto del fatto che esiste una loro validità effettiva e un insieme di fonti riconosciute. Il discorso filosofico sulla natura morale dei diritti umani non può, in altre parole, prescindere dalla loro istituzionalizzazione effettiva.
Questo sfondo ha una sua controparte più strettamente filosofica. Una fondazione filosofica dei diritti umani può assumere o un punto di vista esterno alle pratiche in cui i diritti si affermano, oppure un punto di vista interno a queste pratiche. Nel primo caso, si sottolinea l’aspetto morale dei diritti umani e la fondazione appare forte e significativa nella prospettiva di una critica normativa della prassi esistente. Ma, se si esclude l’ipotesi di un giusnaturalismo classico o comunque della condivisione di una Weltanschauung religiosa, come avviene nella dottrina cristiana del diritto naturale, risulta assai impervia. E, naturalmente, lo diviene ancora di più laddove ci confrontiamo con prospettive come quella dei valori asiatici o delle eccezioni musulmane. Nel secondo caso, invece, accade esattamente il contrario. È più plausibile essere d’accordo, ma più che fondare una teoria dei diritti umani si cerca spesso la conferma nella teoria di una prassi legale già esistente. Con la conseguenza di un notevole indebolimento delle capacità critiche della propria posizione teorica. C’è anche chi, come Jacques Maritain, sostiene la compatibilità di queste due opzioni: bisognerebbe essere, secondo questa visione, fervidamente convinti di una tesi fondazionale specifica, ma al tempo stesso ogni plausibile accordo su reali diritti umani sarebbe basato sulla necessità di mettere provvisoriamente da parte la disputa sui fondamenti. Considero la mia tesi come una variante a tale teoria compatibilista.
Una distinzione tra giustificazione e legittimazione
Credo che la maggior parte delle critiche alla fondazione filosofica dei diritti umani non sfugga al quesito posto da questa impasse. Quando si discute di diritti umani e diversità culturale, le due opzioni principali, cioè il relativismo morale e l’universalismo monistico, oscillano anche esse tra queste due polarità. Tipicamente, il relativismo appare una fondazione dei diritti umani troppo interna rispetto al loro rapporto con una cultura, mentre l’universalismo risulta troppo esterno. La mia tesi, in proposito, è semplicemente che questo è un buon motivo per andare alla ricerca di una soluzione terza rispetto all’universalismo e al relativismo, in modo da sfuggire al dilemma che questi estremi pongono. Nell’ambito di un processo generale giustificativo, a mio avviso, è poi opportuno distinguere qui tra giustificazione e legittimazione. In un’ottica liberaldemocratica, entrambe dipendono dal consenso dei cittadini ma, come già detto altrove, la legittimazione è procedurale ed empirica mentre la giustificazione è trascendentale o virtuale. Ciò vuol dire che la legittimazione ha sullo sfondo il consenso empirico che presuppone la correttezza dell’iter procedurale, mentre la giustificazione il consenso ipotetico in condizioni ideali opportunamente definite. Nel prosieguo, cercherò di applicare questa distinzione tra giustificazione e legittimazione alla questione del rapporto tra universalità dei diritti umani e tutela della diversità culturale.
Riflettendo su quanto appena detto, ci accorgiamo che il principale problema del relativismo è l’impossibilità di dare peso alle critiche, mentre quello dell’universalismo è l’incuranza nei confronti della diversità culturale. Le comuni opzioni teoriche a nostra disposizione sembrano incapaci di tirarci fuori dall’impasse. Ma se ricordiamo quanto appena detto riguardo all’intrinseca problematicità di una filosofia dei diritti umani, e segnatamente il fatto che essa oscilla una fondazione interna e una esterna, ciò non dovrebbe sorprendere. Pertanto, possiamo affermare che occorre trovare una soluzione finale che, pur non essendo una banale via di mezzo tra relativismo e universalismo, ossia tra fondazione interna ed esterna, conservi i pregi delle due alternative, tralasciandone le principali pecche. La distinzione tra giustificazione e legittimazione, assieme a un ulteriore incentivo al dialogo interculturale (purché opportunamente specificato), potrebbe esserne un esempio. Il dialogo interculturale permette di conciliare l’aspetto filosofico (la giustificazione) e quello empirico (la legittimazione) della questione dei diritti umani.
Giustificazione e legittimazione, però, non si presentano allo stato puro nel caso in esame. Entrambe oscillano tra due livelli distinti. In termini più semplici, possiamo chiamarle rispettivamente “giustificazione A” e “giustificazione B”, cui corrispondono naturalmente “legittimazione A” e “legittimazione B”. La natura di “giustificazione A” è tipicamente filosofica e morale. Essa abbraccia la totalità delle tematiche afferenti all’umanità in modo universalistico. Potenzialmente, nessun essere umano ne è escluso. Diremo allora che Giustificazione A è universale. “Giustificazione B”, per contro, dà significato alla duplice strategia dell’”overlapping consensus” di cui si è parlato all’inizio, e ha lo scopo di calare “giustificazione A” nelle fondamentali premesse metafisiche che caratterizzano ogni cultura. Così, “giustificazione B” è tipicamente sensibile alle particolarità culturali, e fissa la giustificazione entro background culturali diversi tra loro e legati alla tradizione e alla storia di ogni popolo. In tal senso, “giustificazione B” può basarsi alternativamente su tradizioni religiose o secolari: dal Cristianesimo al Confucianesimo, dall’Islam al secolarismo e così via. Ecco perché diremo che Giustificazione B è speciale.
Analogamente, anche la legittimazione può essere letta in modo duplice. “Legittimazione A” fa riferimento all’accordo empirico sulla piattaforma esistente dei diritti umani così come sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dalle Nazioni Unite nel 1948. Quest’ultima è condivisa – è lecito affermarlo – dalla quasi totalità della comunità mondiale. Di conseguenza, non sarebbe plausibile pensare di sostituire de facto e in tempi ragionevoli tale modello canonico dei diritti umani con un altro diverso, fosse anche il più cristallino e vicino alla perfezione che possiamo immaginare. Ecco perché diremo che Legittimazione A è generale ed è legata al consenso generale di tutti gli individui. Anche “legittimazione B” è path-dependent. Essa, infatti, è chiaramente legata alla storia del consenso attorno ai diritti umani nelle varie culture e tradizioni, e tipicamente alla capacità, da parte di queste ultime, di correggere i loro presupposti fondamentali per convergere verso i primi. È in tal senso che Legittimazione B è locale.
Ricapitolando, possiamo immaginare uno schema come il seguente:
(I) Giustificazione
(IA) Giustificazione universale
(IB) Giustificazione speciale
(II) Legittimazione
(IIA) Legittimazione generale
(IIB) Legittimazione locale
Partendo dal presupposto che il mio modello si basa sulla dialettica tra giustificazione e legittimazione, esso va riformulato di conseguenza. La dialettica tra giustificazione e legittimazione riguarda – secondo tale riformulazione – IA e IIB da un alto, e IB e IIA dall’altro. In altre parole, occorre mettere a confronto la giustificazione universale (morale) con la legittimazione locale (il modo in cui tradizioni e culture esplicano il loro criticismo interno). E la giustificazione speciale (il sistema fondazionale metafisico) dei diritti umani con la legittimazione generale (il fatto che quasi tutti i popoli riconoscono la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo). Nel primo caso, coerentemente con il processo dell’integrazione pluralistica, non è possibile affermare che la pura forza di giustificazione, ossia il richiamo ai valori universali, possa sopperire a tutto quanto necessario per dare rilievo ai diritti umani entro un determinato orizzonte culturale. D’altro canto, tale appello universalistico ha ragione d’essere se avviene nel corso di una procedura di revisione all’interno della stessa tradizione. Allo stesso modo, non possiamo fare affidamento su quella che ho definito “giustificazione speciale” per affermare i diritti umani su scala globale. In questo caso, infatti, avremmo ancora una volta una fondazione dei diritti umani coerente con una specifica tradizione; fondazione che, però, non sarebbe applicabile al di fuori di questo ristretto ambito. Al fine di raggiungere questo ulteriore traguardo, dovremmo renderci inclini a una fusione tra fondazione speciale e legittimazione generale, ossia quel consenso de facto sui diritti umani così come attualmente sanciti nella rete globale di accettazione. Tale dialettica tra giustificazione e legittimazione può avvenire grazie al dialogo interculturale. Più avanti illustrerò casi analoghi in cui questa cross fertilization, questa osmosi può funzionare. Prima, però, vi dirò cosa intendo per “dialogo interculturale”.
Il dialogo interculturale acquista reale significato nello scambio effettivo e incondizionato tra rappresentanti di varie culture. Ciò che lo rende un compito parzialmente empirico. Esiste anche una controparte filosofica al dialogo interculturale, che può fornire condizioni minime a priori senza cui esso risulterebbe inutile. Solo il dialogo è in grado di legittimare una comune piattaforma sui diritti umani. In altre parole, occorre accettare lo specifico valore storico dei diritti umani esistenti quale nocciolo del processo di legittimazione, ma non possiamo farlo in maniera dogmatica e senza un opportuno dibattito. Il dialogo interculturale dà forma e sostanza a una valutazione critica e pluralista di tale processo di legittimazione.
Tale dialogo comporta un duplice vantaggio. Da un lato, esso ha risvolti positivi sul piano epistemico. La frequentazione reciproca agevola la conoscenza dell’”altro” e della sua cultura, dei punti di convergenza e divergenza riguardo ai valori fondamentali e delle applicazioni e interpretazioni, in questa prospettiva, dei valori umani esistenti. Promuovendo, inoltre, la consapevolezza dei problemi da cui dipende, in definitiva, la struttura dei diritti umani. Dall’altro lato, il dialogo ha risvolti positivi in termini di estensione dei fondamenti culturali e morali su cui poggiano i diritti umani. Se il problema in esame deriva dal fatto che i diritti umani riguardano la collettività ma nascono da una specifica tradizione, allora il coinvolgimento di una molteplicità di soggetti provenienti da culture differenti potrebbe in parte ovviare al provincialismo dell’Occidente a questo proposito. In tale prospettiva, il dialogo interculturale, così come appena definito, soddisfa le aspettative di quanti credono che la questione dei diritti umani debba essere risolta a mezzo di una maggiore partecipazione e, in particolare, del ruolo decisivo che la società civile è chiamata a giocare.
È chiaro che la legittimazione non può nascere semplicemente da una qualsiasi forma di dialogo interculturale, ma soltanto da un confronto che si attenga a determinate condizioni normative formali e sostanziali. L’idea di fondo è che il dialogo, duraturo e libero da qualsiasi condizionamento, possa sollevare gli individui dalle difficoltà che impediscono loro di raggiungere una ragionevole convergenza sui fondamentali diritti umani. Il liberalismo fornisce un importante background per la comprensione di tesi di questo tipo.
Questo testo è la trascrizione dell’intervento tenuto dall’autore alla tavola rotonda organizzata da Reset Dialogues on Civilizations “Il risveglio della religione e la società aperta”, che si è svolta nell’ambito della Giornata mondiale della filosofia dell’Unesco (Rabat – Marocco, 16 novembre 2006). All’incontro hanno partecipato il ministro dell’Interno Giuliano Amato, i filosofi Abdou Filali-Ansary (Marocco), Fred Dallmayr (Usa), Sadik Al Azm (Siria), Sebastiano Maffettone e Alessandro Ferrara (Italia), il direttore di Reset Giancarlo Bosetti e l’amministratore delegato di Reset DoC Nina zu Fürstenberg.
(Traduzione di Enrico Del Sero)