Quella dell’educazione è oggi una delle sfide più grandi che l’Europa si trova a dover affrontare. E la scuola è il luogo privilegiato nel quale avviare e gestire processi educativi strategicamente orientati. L’educazione scolastica ha infatti un compito estremamente delicato, in quanto, oltre a trasferire conoscenza, dovrebbe fornire quegli input culturali che determineranno, insieme a quelli derivanti dall’educazione famigliare e dai contesti culturali e sociali dove i giovani cresceranno, lo sviluppo dei futuri cittadini europei. Ed è per questo che, nell’Europa attuale, è fortemente sentito il bisogno di riflettere sull’insegnamento religioso nelle scuole; necessità peraltro determinata dalla presenza, diversa da Paese a Paese, di molteplici modalità di applicazione, che impongono scelte giuridiche e di politica educativa non prive di conseguenze e che andrebbero probabilmente ripensate in un’ottica di uniformazione condivisa a livello europeo.
In Italia per diventare insegnante di religione, anche in una scuola pubblica, è necessario ottenere l’approvazione del vescovo. Una prassi in vigore dai Patti lateranensi del 1929 ma in contrasto con le regole europee che vietano qualsiasi forma di discriminazione in ragione del credo religioso di un lavoratore. Bruxelles ha perciò aperto un dossier e inviato una richiesta di informazioni al governo Berlusconi. Afferma infatti la direttiva comunitaria del 2000 contro la discriminazione che un lavoratore non può essere discriminato per ragioni “fondate sulla religione”. Va peraltro sottolineato che la parità di trattamento a prescindere dalla confessione è garantita anche dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, richiamata dal Trattato di Maastricht e dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Pare invece che la regola, in vigore da ottant’anni e confermata nel 1985 in seguito al rinnovo dei Patti, firmato dall’allora Presidente del Consiglio, vada in un’altra direzione.
Papa Benedetto XVI difende l’insegnamento della religione nella scuola italiana, sostenendo che non rappresenta “un’interferenza o una limitazione della libertà”. L’insegnamento della religione nella scuola è stato stabilito dal concordato tra la Chiesa e lo Stato fascista, come “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”. Con le modifiche concordatarie del 1984 si stabilì che “La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”. Attualmente, nella scuola italiana, l’ora di religione non è obbligatoria. I genitori o gli stessi studenti, se maggiori di 14 anni, possono scegliere liberamente se frequentarla oppure astenersi, uscendo da scuola o frequentando lezioni alternative, comunicando la propria decisione all’atto dell’iscrizione al primo anno della scuola, con la possibilità di cambiare negli anni successivi.
Fa però riflettere il fatto che, in Italia, l’insegnamento della religione nelle scuole non sia messo in discussione. Non ovunque in Europa è così. A Berlino da alcuni anni al posto dell’ora di religione si insegna “Etica” e, lo scorso 26 aprile, i berlinesi sono stati chiamati alle urne per un referendum che chiedeva la reintroduzione dello studio della religione a scuola. Secondo la norma vigente, infatti, l’ora di etica è obbligatoria, mentre chi vuole seguire l’insegnamento della religione deve farne richiesta. L’affluenza alle urne è stata molto ridotta, soltanto il 29% degli aventi diritto ha votato e la maggioranza si è dichiarata contraria alla reintroduzione della religione come insegnamento obbligatorio e altresì favorevole a continuare lo studio dell’etica.
Una panoramica dell’Europa a 27, a cui aggiungiamo la Turchia e la Croazia, evidenzia come l’insegnamento della religione sia maggioritario, benché non si tratti ovunque di religione cattolica o di una religione unica, cosa che avviene solo in sei paesi (Croazia, Italia, Irlanda, Malta, Portogallo, Slovacchia) per la religione cattolica, in due per quella ortodossa (Cipro e Grecia) e in uno (Turchia) per quella islamica. In dodici paesi l’insegnamento è multireligioso, sia nel senso di prevedere più confessioni, anche non cristiane (ebraismo, islam e buddismo) sia nel senso di prevedere insegnamenti multidisciplinari. A questi vanno aggiunti sei paesi che offrono diverse confessioni cristiane (cattolica, ortodossa, protestanti) – a volte nella stessa scuola o comunque nella stessa regione, a volte in zone diverse del paese – più la Bulgaria dove di fatto si insegna religione ortodossa e islamica e la Finlandia dove si insegnano più confessioni protestanti. Solo in tre paesi non si insegna religione a scuola: la Francia (con l’eccezione della regione dell’Alsazia-Lorena), l’Ungheria (dove religione è materia extrascolastica e facoltativa) e la Slovenia. Vi sono poi paesi in cui religione non si insegna in alcune località o scuole (Svezia), cantoni (Svizzera) o gradi di scuola (nelle secondarie bulgare). In altri sei paesi (Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Portogallo e Lussemburgo) l’insegnamento della religione non è di per sé curriculare, ma è di fatto materia alternativa ad un insegnamento curricolare laico di “etica”, come avviene a Berlino.
Di certo, i fermenti multiculturali che stanno caratterizzando l’Europa obbligano a riflettere in maniera più articolata sui temi in questione, e più concretamente sui programmi scolastici, l’organizzazione didattica e amministrativa delle scuole. E richiedono la predisposizione di nuove procedure e regole di gestione del sistema educativo-formativo. Ma soprattutto va detto che l’insegnamento della religione è ormai investito della dimensione interculturale che caratterizza la società scolastica e pertanto si trova di fronte alla necessità di cambiare schemi e linguaggi, con l’obiettivo di ricondurre le manifestazioni di spiritualità umana ai contesti storico- sociali che le hanno determinate, cercando di soddisfare l’esigenza di dialogo interreligioso, obiettivo ormai necessario per cercare di ridurre in una prospettiva di medio termine, fenomeni di discriminazione e intolleranza. Sarebbe auspicabile che la nuova idea di “cittadinanza europea” fosse la base da cui partire per una profonda riflessione sul tema e potesse dar luogo a progetti e programmi politici e soprattutto a nuove strategie educative, incluse quelle inerenti l’insegnamento religioso.
Il riferimento alla cittadinanza è infatti necessario, in considerazione della nuova concezione che di essa si va affermando e che è basata su un’idea esperienziale di cittadinanza e sulla sua pratica come processo di inclusione sociale e di responsabilità individuale e collettiva, intese come condizioni di sviluppo dell’identità personale e dunque anche dell’identità religiosa e dunque come capacità di confronto e di tolleranza. Un corso dunque, di etica europea, dove il “fatto religioso” è affrontato in maniera laica.
L’autrice è Economista – Esperto in Strategie Internazionali e U.E.