«Rien» è l’unica annotazione nel diario di Luigi XVI alla vigilia della presa della Bastiglia. I grandi capovolgimenti della storia sono quelli che giungono inaspettati, ieri la caduta del muro di Berlino, oggi una domanda di democrazia, libertà, giustizia che solleva l’intero mondo arabo. Ma le rivolte arabe di questi giorni, più che il crollo del totalitarismo europeo, ricordano quei bagliori che, a Budapest come a Praga o a Varsavia, illuminarono brevemente la lunga notte del comunismo, presagio di una rivoluzione che avrebbe avuto ancora bisogno di tempo per giungere a compimento.
E tuttavia oggi siamo costretti a dismettere il mito di una supposta innata passività degli arabi, come ieri degli europei dell’Est, nei confronti del potere. Passività che verrebbe elusa solo per fame, per il richiamo di capi religiosi carismatici, in occasione di guerre con i vicini, per insofferenza verso l’egemonia americana. Le rivolte di oggi, invece, non sono portate avanti da cittadini rassegnati alla onnipotenza della religione e al prevalere della teocrazia sulla politica. E ci impongono di gettare uno sguardo del tutto nuovo sui popoli dell’altra sponda del Mediterraneo, mobilitare inventiva politica e sostegno materiale perché in quella regione del mondo la storia torni a scorrere vivida e piena.
Albert Camus, che nel Mediterraneo aveva le sue radici, ha descritto meglio di chiunque altro lo specifico impulso umano della ribellione, che cominciò a manifestarsi come ribellione a Dio. Nella civiltà occidentale esso è stato una conseguenza diretta del valore attribuito allo scetticismo e al dubbio. La tradizione musulmana, avevamo creduto fino a ieri, non presenta questi tratti. Nell’islam (parola che significa sottomissione), ci spiegano i nostri esperti, non c’è l’impulso a sollevarsi. Il Corano, scrive Paul Berman, racconta la storia di Abramo e Isacco ma non mette in risalto le esitazioni e la resistenza di Abramo. Abramo ascolta l’ordine di Dio e si prepara a eseguirlo. Qui la sottomissione è la strada per la giustizia sociale e per l’armonia, in nome di un islam ritenuto autosufficiente, capace di basarsi sullo straordinario retaggio del suo passato.
È vero che la concentrazione di risorse nel mondo arabo, soprattutto nei paesi governati dal petrolio, conferisce fortissimi poteri alle burocrazie, alimenta la corruzione, induce a tutelare l’assetto esistente con formidabili apparati di sicurezza e scoraggia qualsiasi tentativo di rovesciare l’ordine esistente. In Egitto il socialismo arabo promesso da Nasser si è trasformato in un disinvolto capitalismo che ha sollecitato la sollevazione delle piazze, con la sua corruzione e con la sua democrazia simulata.
Ci eravamo fatti abbagliare da una forza apparente, da personalità forti, dall’ordine e dalla distanza. Invece abbiamo visto come rapido sia stato il passaggio dalla rivendicazione economica alla rivoluzione politica e come una padronanza sufficientemente diffusa delle nuove tecnologie abbia consentito di accendere la protesta popolare. Forse una rivoluzione di terza generazione, attraverso Facebook e simili, dopo quelle che prendevano d’assalto il Palazzo d’inverno nella Russia degli zar e poi gli strumenti di comunicazione di massa come la radio nell’Ungheria di Imre Nagy.
Un altro luogo comune, ancora più tenace e diffuso, è stato sfatato in questi giorni, quello della incompatibilità tra democrazia e mondo arabo o islamico. Del resto gli europei dovrebbero imparare dalla loro storia. Alla fine del Novecento si sosteneva che la democrazia discendesse da antiche consuetudini anglosassoni e non si sarebbe estesa oltre i confini delle isole britanniche. A volte si affermava, spingendosi più in là, che la democrazia fosse un prodotto dei popoli nomadi del Nord. Per altri che essa non fosse scindibile dalla riforma protestante e che per questo non sarebbe mai stata raggiunta dai cattolici.
È sorprendente che l’Europa non riesca a cogliere il bisogno di democrazia, di quelle forme di governo che essa ha contribuito a inventare. La democrazia, in Egitto come in Tunisia, è ancora qualcosa da costruire ma la società non è muta né priva di opinione pubblica. L’opposizione è una ampia galassia di movimenti. Ma non brucia sulle piazze bandiere israeliane o americane. Invoca diritti, trasparenza, legalità. Non è in nome di Allah che le folle hanno riempito le strade, sono passati dalla cospirazione alla costruzione, dall’umiliazione all’azione. L’esercito in Egitto si è mostrato saggio e paziente, non si è lasciato coinvolgere nella repressione, lasciandone l’inutile e degradante incarico alla polizia. Da oggi dunque l’idea di un paese arabo aperto ai diritti dell’uomo non è una contraddizione in termini.
Del resto l’Europa non è estranea a questa evoluzione. Milioni di emigrati trasmettono idee e valori occidentali a parenti e amici rimasti nei paesi di origine. In questi l’urbanizzazione e la scolarizzazione di massa hanno favorito la ricezione e la crescita di una classe media che ritiene compatibili le tradizioni nazionali con le libertà civili.
È vero anche che spesso l’esportazione della democrazia in contesti extraoccidentali è consistita nell’introduzione di prodotti finiti di una lunga catena dalla quale erano nate, in Europa e negli Stati Uniti, le istituzioni della libertà. Le democrazie occidentali sono state il risultato di un processo storico che ha visto la separazione tra sfera politica e sfera religiosa fino all’allargamento graduale del diritto di voto. Invece spesso in altri continenti si introducono le elezioni senza che sia stato realizzato uno Stato di diritto, per di più collegandole alla domanda di miglioramenti economici che spesso i regimi postdittatoriali non sono in grado di soddisfare nel breve periodo. Di qui fino a ieri la riluttanza degli europei ad accettare, dall’Algeria alla Palestina, i rischi di una consultazione popolare e l’indulgenza verso chi con la forza ne cancelli i risultati. Per confidare invece nella prevedibilità dei regimi assolutisti ma moderati e nella sottomissione di giovani inclini al fatalismo. Ogni nuovo ordine nascerebbe, se non nel caos, certo nella più angosciosa incertezza.
Ecco allora il terzo punto da ripensare, la politica europea verso quel mondo al quale pure ci lega non solo la geografia ma anche tanta storia comune. Invece di negare, sulla base della imponderabilità, la possibilità di alternative all’assolutismo arabo, l’Occidente, in primo luogo ovviamente l’Unione Europea, deve contribuire a crearle. Certo con prudenza e accortezza. Nella consapevolezza delle numerose variabili nelle reciproche relazioni, dall’energia, alla sicurezza all’immigrazione. Ma anche con un nuovo realismo che non può continuare a esibire una totale inazione.
Un Occidente saggio non dovrebbe ignorare del tutto e anzi dare tutela e sostegno ai suoi alleati naturali, i partiti democratici che sopravvivono fra fondamentalismo e repressione in un contesto di aberranti diseguaglianze di reddito. In Egitto, gran parte delle terre fertili è nelle mani di cinquanta famiglie. Una delle ragioni del forte sviluppo dell’Asia rispetto ad altre aree del mondo è la minore portata, in quel continente, delle disuguaglianze economiche e sociali. Esiste infatti un rapporto stretto tra l’indice di disuguaglianza e la struttura delle esportazioni, il monopolio del mercato interno, il tasso si risparmio, la propensione alla fuga di capitali.
Provò Bush figlio, con supponenza e dogmatismo. Sul suo successore sembra incombere lo spettro di Carter, che rappresentò dolorosamente i limiti delle buone intenzioni e alla cui vacillante presidenza la crisi iraniana diede il colpo di grazia. Per Obama gli eventi del prossimo futuro saranno un banco di prova terribile. Ma anche le invocazioni europee di questi giorni sembrano inseguire in affanno la storia, suonano retoriche verso paesi che controllano la ricchezza nazionale senza democrazia, senza infrastrutture, senza diversificazione delle loro economie. Oppure, come l’Arabia Saudita e la Libia, vivono dello sfruttamento delle risorse naturali mentre milioni di giovani, costretti dietro il muro di un dispotismo feudale, non hanno prospettive se non quelle dell’emigrazione clandestina.
Eppure gli europei sono i maggiori depositari di quei valori fondamentali di libertà che il mondo arabo si accinge a rivendicare. E che risuonano nelle «medine», le piazze antiche delle città nordafricane. L’Europa ha messo a punto una forma originale, per quanto complessa di governo, una teoria e una prassi inedite di sovranità condivisa. Gli europei dispongono di strumenti, come gli istituti di credito internazionali, per contribuire a sbloccare società neofeudali nelle quali ceti medi e giovani non trovano né spazio né occasioni; a imporre forme che mettano in moto un capitalismo diffuso; a consolidare un Stato di diritto senza il quale anche le elezioni sono delle finzioni; a facilitare la nascita di una società civile responsabile, alla quale non sarà estraneo un consapevole autoesame delle imperfezioni nazionali come la capacità di assorbire il diverso e il disomogeneo nel proprio tessuto collettivo. Invece, nel processo di Barcellona sono stati drasticamente ridimensionati i progetti regionali e infrastrutturali e l’obiettivo di una zona di libero scambio tra le due sponde del Mediterraneo resta un miraggio. Il vertice dei capi dell’Unione mediterranea, previsto per il novembre 2010, è stato rinviato sine die. Il ruolo dei nostri interlocutori è stato interpretato essenzialmente in chiave di guardiani della emigrazione e il rapporto reciproco è stato costruito in chiave di vendita di prodotti industriali europei. Il modello resta quello della Turchia e della evoluzione del suo principale partito islamico. Ma l’evoluzione turca è avvenuta anche per le costanti pressioni dell’Unione Europea in vista dell’adesione.
Occorrerà dunque un nuovo patto globale, onnicomprensivo, paritario e non neocoloniale, abituandosi ad attori più autonomi e meno prevedibili ma anche più orgogliosi di una loro nuova legittimità. Sarà necessario lasciarsi trasportare dalla lezione senza preconcetti, incoraggiare riforme e ricambi di oligarchie seguendo una strada più rischiosa ma più produttiva, rivedendo un realismo di troppo corto respiro. Non sappiamo ancora se è cominciata l’alba di un nuovo giorno per tutto il mondo arabo. In Tunisia il partito islamico da cui si attende l’uscita dalla illegalità, è un partito moderato contrario al governo dei chierici, favorevole al parlamentarismo. La Fratellanza Musulmana in Egitto prende le distanze dalla violenza ed è integrata, soprattutto attraverso le professioni, nella società civile. Anche se il fondamentalismo continuerà ad alimentarsi della ricchezza saudita, dei religiosi non riformisti in Iraq, di esegeti integralisti del Corano. L’Egitto non è l’Iran di Khomeini, né la Russia di Lenin né la Germania di Hitler. Tutto è ancora sospeso ai desideri di giovani avidi di libertà, all’ambiguità di un esercito depositario di tutto il potere, al solco che divide poveri e ricchi. Tutto resta da conquistare, dalle buone relazioni con i paesi vicini alla libertà e uguaglianza tra individui e gruppi etnici, maggioranze e minoranze. Ma pur in un avvenire senza garanzie l’errore maggiore sarebbe continuare ad aggrapparsi al passato.
Verso Israele, anch’essa colta di sorpresa nonostante la capacità della sua intelligence, i paesi arabi restano freddamente distanti se non ostili. Un brusco, dolente risveglio. La crisi egiziana apre un vuoto intorno a Israele, ne riduce il vantaggio strategico di una frontiera, quella con l’Egitto, considerata per trent’anni la più sicura, proprio mentre si dissolvono i legami privilegiati con la Turchia. Sappiamo ora che per due anni, dal 2006 al 2008, l’Autorità palestinese avanzò proposte generose sugli insediamenti, su Gerusalemme, sul diritto al ritorno dei profughi. La pace fu davvero vicina. Ma l’opposizione dei coloni e poi il governo Netanyahu sostenuto dai partiti di destra la fece naufragare. Più la democrazia araba dovesse avanzare, più intollerante essa sarebbe verso l’occupazione, con il rischio che l’inquietudine lambisca anche i palestinesi. In un mondo arabo desideroso di libertà saranno più visibili i difetti di una democrazia, quella israeliana, certo la più avanzata ma che controlla non democraticamente milioni di palestinesi assediati e reclusi. Potrebbe aprirsi un solco tra Gerusalemme e le capitali occidentali. L’equazione impone una credibile ripresa del processo di pace e qui la spinta può venire solo dagli Stati Uniti. A essa si lega gran parte della residua credibilità di Obama nel mondo arabo.
Silvio Fagiolo apparteneva a quella schiera di diplomatici che negli ultimi cinquant’anni hanno assicurato all’Italia un ruolo europeo di primo piano. Grande conoscitore della Germania, il suo lavoro alla Farnesina ha segnato positivamente i rapporti italo-tedeschi per diversi decenni. Nato a Roma nel 1938, Silvio Fagiolo ha compiuto una carriera in un Occidente segnato dalla ricostruzione e dalla guerra fredda quando i paesi emergenti di oggi erano ancora il Terzo Mondo di ieri. Grazie a una perfetta conoscenza del tedesco e del russo, ha iniziato come segretario d’ambasciata a Mosca negli anni di Leonid Breznev, è stato poi console a Detroit, consigliere d’ambasciata a Bonn agli inizi dell’era di Helmut Kohl, ministro consigliere a Washington negli anni 90, rappresentante permanente d’Italia presso l’Unione Europea a Bruxelles, e infine ambasciatore a Berlino dal 2001 fino al 2005 quando è andato a riposo, diventando professore alla LUISS di Roma e collaboratore del Sole/24 Ore. Da europeista è stato per vent’anni al crocevia dell’integrazione europea, negoziando in prima persona il Trattato di Maastricht, il Trattato di Amsterdam e il Trattato di Nizza.
Fin dalla sua costituzione Fagiolo ha fatto parte del comitato scientifico di Reset-Dialogues on Civilizations, rappresentando l’organizzazione in diversi incontri. E ha contribuito con i suoi scritti alla rivista italiana Reset. Ha consegnato l’ultimo articolo, una recensione, che apparirà nel prossimo numero di Reset, poche ore prima della morte.