Amartya Sen, L’idea di giustizia, Mondadori, Milano 2010.
Immaginiamo tre bambini e un flauto. Ann afferma che le si debba dare il flauto perché è la sola che sappia suonarlo; Bob perché è povero a tal punto da non possedere nessuno strumento musicale; Carla perché ha passato mesi e mesi a costruirlo. Come affrontare le esigenze, parimenti legittime, di tutti e tre i bambini? I difensori delle teorie dominanti – utilitarismo, egualitarismo, liberalismo – propongono soluzioni differenti fra loro, a seconda del valore che si vuole attribuire alla ricerca del benessere, all’eliminazione della povertà o al diritto di usufruire dei frutti del proprio lavoro. Un approccio egualitarista, attento alla scarsità delle risorse, l’attribuirebbe a Bob. L’utilitarismo, considerando che potrebbe farne un uso migliore e ottenerne il massimo del piacere, lo darebbe ad Ann. Ma se si vuole difendere il diritto ai frutti del proprio lavoro, in una prospettiva propria del liberalismo, il flauto spetterebbe a Carla. Tuttavia, sostiene Amartya Sen, nessuna tra queste teorie ci aiuta a risolvere questo problema in un modo che sia considerato realmente giusto.
Sen apre il suo contributo analizzando le teorie della giustizia che pretendono di definire le regole e i principi che governano delle istituzioni giuste in un mondo ideale: si tratta della tradizione di Hobbes, Rousseau, Locke, Kant e infine di John Rawls. All’interno della sua analisi, si rintracciano delle affinità teoriche con un’altra branca del pensiero illuminista che è costituita da pensatori nondimeno importanti come Smith, Condorcet, Bentham, Wollstonecraft, Marx e Mill: tutti esponenti di una linea di pensiero che considera diverse situazioni sociali al fine di combattere le ingiustizie reali.
La democrazia gioca in questa lotta un ruolo importante. È a partire dall’esercizio della ragione pubblica che si può scegliere tra diverse concezioni della giustizia, dalle priorità di una società e dalle facoltà di ognuno. Infatti, come recita il titolo del Premio Nobel in Economia, l’idea di giustizia determina “i tipi di ragionamento” che devono “intervenire nella valutazione dei concetti etici e politici come la giustizia e l’ingiustizia”, volti a indicare il procedimento per eliminare tutte quelle ingiustizie “risolvibili”. L’economista indiano infatti fornisce degli strumenti teorici sui quali può essere elaborato un consenso nel dibattito pubblico, in modo da render possibile una partecipazione a questioni come la fame, la non scolarizzazione, la sanità. Questo pluralismo ragionato è un impegno politico e soprattutto lo strumento teorico attraverso cui Sen vuole combattere le disparità presenti nel potere e le disuguaglianze di reddito, oltre una singola nazione, al fine di individuare una teoria della giustizia reale.
Occorre dunque decidere su “quali aspetti del mondo concentrarsi” per misurare la giustizia e l’ingiustizia. Il criterio scelto da Sen, avendo a che fare con le capacità, consentirebbe di trasformare la misura degli indici di povertà (che riceve una definizione multidirezionale, che non sarebbe più costituita dall’assenza di risorse, ma dall’impossibilità di vivere secondo ciò che alle persone sembra opportuno fare o essere). Da questo punto di vista, l’analisi della giustizia deve prestare attenzione alla vita che le persone sono effettivamente in grado di condurre: il vantaggio di una persona, in termini di possibilità, è giudicato inferiore a quello di un altro se ha meno capacità o possibilità reali di realizzare ciò per cui ha valide ragioni di attribuire valore.
Il libro di Sen è costituito da un duplice intento: da un lato, una serrata analisi dei punti chiave della dottrina rawlsiana della giustizia (l’istituzionalismo trascendentale), dall’altro da argomentazioni critiche fondate su un argomento centrale: l’idea di uguaglianza attraverso un approccio comparativo che si concentra sulle realizzazioni. L’argomento principale di Sen è che non occorre partire unicamente da una riflessione teorica della giustizia: la pluralità di concezioni che giustifica in Rawls la priorità della giustizia sul bene è anche condivisa da Martha Nussbaum (filosofa che non certo si pone sulla linea dell’istituzionalismo): non solo perché si tratta di uno stato di cose con cui occorre fare i conti, ma anche perché la libertà lasciata a ciascuno di condurre la propria vita come desidera è un bene in sé.
A tal proposito, Sen si riferisce a John Stuart Mill che, in “Della libertà”, formula con grande chiarezza questo principio costitutivo della tradizione liberale. Affrontare la questione della giustizia da un punto di vista comparativo, considerarla dal punto di vista delle realizzazioni in rapporto a capacità individuali e collettive, è un approccio differente da quello che individua i principi base della giustizia. Nel contrattualismo proposto da Rawls c’è una sorta di rigidità teorica poiché, una volta posti i principi di base, sono trascurati gli aspetti caratterizzanti le vite concrete degli esseri umani. Pertanto l’approccio di Sen si presenta più ampio e flessibile, attribuendo importanza al punto di vista dello “spettatore imparziale”, sulla scia di Adam Smith, piuttosto che a quello dell’attore razionale di una società chiusa (lo Stato-Nazione). Sen difende una concezione “aperta” dell’imparzialità, distinta dal carattere “chiuso” proprio dell’istituzionalismo. La nozione di libertà di scelta occupa nell’apparato argomentativo di Sen un posto importante e ha a che fare con l’idea che la scelta non deve risultare vincolante: i processi di scelta contano tanto quanto la scelta stessa. L’idea di capacità, proposta all’interno del volume, “attribuisce un ruolo cruciale all’attitudine reale di una persona a effettuare le diverse attività che la valorizzano” e consiste nella possibilità di esercitare queste attività, a partire dalla distinzione proposta dalla distinzione che fa Sen tra “risultati finali” e “risultati globali” che integrano le condizioni in cui sono effettuate le scelte.
Come si vede, la nozione di “capacità” non sarebbe separata da quella di libertà, sia perché gli individui devono avere la possibilità reale – non solo in termini di diritti – di vivere conformemente all’idea che loro si fanno di una buona vita, sia perché questa libertà include l’insieme dei mezzi necessari a questo fine. Ne segue che la nozione di “vita buona” non dovrebbe essere ridotta a una misura puramente quantitativa dei beni materiali, come il Pil. Mentre Rawls considera i principi di base al fine di strutturare una società giusta, indipendentemente dalle condizioni in cui si trovano gli individui, Sen considera l’esistenza effettiva che gli individui conducono e si domanda se gli esseri umani abbiano la possibilità reale di realizzare le capacità inerenti la realizzazione di una “vita buona”.
La proposta di Sen costituisce lo spunto per una riflessione poliedrica sulla democrazia, considerata, nei termini di John Stuart Mill, un governo retto dalla discussione, che richiede che il dibattito pubblico sia canalizzato in un modo libero e responsabile a partire da una reale rivendicazione delle capacità delle persone e non esclusivamente da scheletri istituzionali.