Gilles Kepel: “Comunque vada, la nostra politica estera non cambiera’”
Parla il politologo francese, intervistato da Simone Verde 24 April 2007

Ma Sarkozy vincerà?

Non è detto. Qualche mese fa abbiamo visto molti giovani fare la fila fuori dagli uffici elettorali per iscriversi nelle proprie circoscrizioni. Ho qualche ragione di credere che il loro voto sarà decisivo anche se per il momento rappresentano un’incognita e sono assenti da ogni rilevazione statistica. Per un fatto molto semplice: non hanno un telefono fisso e sono difficilmente reperibili. A tal punto che potrebbe succedere come negli Stati Uniti quando Kennedy vinse contro ogni previsione su Nixon. Anche in quel caso i sondaggisti non avevano pensato che i neri non avevano il telefono…

Possibile che nessuno dei candidati si sia accorto del loro peso elettorale?

Inizialmente no. Ma nei dibattiti televisivi delle ultime settimanale le cose sono cambiate. E anche i giornalisti hanno dato molto più spazio a questa parte dell’elettorato.

Il peso che i figli degli immigrati stanno assumendo nella campagna elettorale è la prova del successo del modello egalitario repubblicano?

Secondo la mia opinione sì. In Francia, benché sia presente la comunità musulmana più importante d’Occidente, fino ad ora non abbiamo avuto attentati. Segno che il nostro modello egalitario ha avuto la meglio su quello comunitarista di stampo anglosassone. Da noi i problemi degli immigrati sono visti innanzitutto come problemi sociali. In Gran Bretagna o in Olanda, al contrario, fette analoghe di popolazione non si sentono rappresentate dallo Stato, sono vittima di un comunitarismo che le ghettizza e le lascia allo sbando. A tal punto che le classi dirigenti non sanno più cosa fare.

Come giudica gli scontri avvenuti la settimana scorsa alla Gare du Nord di Parigi tra giovani e forze dell’ordine?

Li trovo del tutto indicativi della situazione attuale: un giovane congolese viene interpellato da due controllori di origine maghrebina. Non ha il biglietto. Si parlano in dialetto e scatta la rissa. Da lì viene coinvolta buona parte della folla presente che solidarizza con il ragazzo. È una storia in cui tutte le categorie classiche, tutti i clichés sono messi al muro. I rappresentanti dello Stato sono di origine araba. La folla si ribella contro l’ingiustizia sociale. È un conflitto interno alla Repubblica e non tra lo Stato e una delle sue comunità.

Ma insomma, quale ritratto della Francia esce da questa campagna elettorale?

Un ritratto contraddittorio. Non si erano mai visti tanti cinquantenni concorrere per la presidenza della Repubblica. Finora eravamo abituati a candidati ultrasessantenni. Come tutti sanno, poi, Nicolas Sarkozy è figlio di immigrati e i socialisti, con Ségolène Royal, hanno scelto una donna. Queste novità indicano che, malgrado i tanti problemi ancora irrisolti, malgrado le tensioni, molte cose sono cambiate. Che la società è maturata.

Un giudizio positivo, quindi.

Non proprio. Gli aspetti negativi sono numerosi. Le faccio un esempio: si parla troppo della personalità dei candidati e poco del loro programma. Un problema che non è certo da poco.

Com’è percepita la campagna elettorale in Medio Oriente, in Africa e nel mondo arabo?

Tutti gli elementi di novità di cui abbiamo parlato sono visti con preoccupazione. Innanzitutto perché nessuno dei candidati è noto all’estero. Ad eccezione di Sarkozy che ha viaggiato in occasione degli accordi bilateriali stipulati quando era ministro. Ma, anche nel suo caso, è noto solo come ministro degli Interni, e niente più. Poi perché nessuno di questi esponenti politici ha statura internazionale. Infine perché un’eventuale vittoria di Sarkozy preoccupa e si teme un avvicinamento della Francia ad Israele e Stati Uniti.

Condivide quest’ultima preoccupazione?

No. È vero che in un primo tempo Sarkozy si è dichiarato assai filoamericano. Ma poi ha capito che se avesse rinunciato alla politica estera gollista non sarebbe stato eletto. E quindi ha cambiato linea.

Una cosa, però, sono le posizioni scelte in campagna elettorale. Diversi potrebbero essere i comportamenti assunti dopo l’investitura popolare.

È vero. Ma oltre la tradizionale fierezza del popolo francese, sulla politica estera condotta in questi decenni pesano interessi economici e strategici di primaria importanza. In Africa e in Medio Oriente operano società come Total e Clearstream. Rinunciare ai rapporti di amicizia con quei governi per allinearsi dietro gli Stati Uniti equivarrebbe ad un vero e proprio suicidio. Ragione per cui non credo affatto che il prossimo presidente avrà ampi margini di manovra in proposito.

Tornando alla Francia, cosa pensa del programma di Ségolène Royal, quali possibilità ha di essere eletta?

Difficile dire. Oltre alle incertezze di contenuto, l’ostacolo maggiore è che non è sostenuta dal Partito Socialista. Il fatto che i temi e le strategie della campagna vengano decisi esclusivamente dal suo quartiere generale è la prova che la Royal stenta a rinsaldare il suo campo. Cosa che la rende notevolmente fragile.

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