E quando parla di «legge della giungla nel bush africano» si riferisce sì alla Somalia (la “boscaglia” d’Africa) ma allude un po’ anche a un mondo in cui le regole del diritto internazionale non esistono più, e in cui il presidente americano si trova a suo agio, come si è visto. Calchi Novati, docente di storia dell’Africa all’Università di Pavia, è visiting professor all’Università di Addis Abeba e autore di diversi volumi sull’Africa contemporanea.
Stanley Weiss, sull’Herald Tribune, ha scritto che il Pentagono sta creando un network di forze di sicurezza dislocate, tra l’altro, in Senegal, Ghana e Uganda. È il segno della crescente importanza dell’Africa nella politica estera americana?
È da un po’ di tempo che l’Africa è entrata nella politica estera americana, e il riferimento ai tre paesi citati è fondato.
Nella prospettiva degli Stati Uniti la fascia sudanese, che va dal Mali al Mar Rosso, rappresenta la fascia più importante del sistema di sicurezza dei prossimi anni, e ricordo che per “sicurezza” in questi casi, negli ambienti della comunità internazionale, s’intende il diritto di accesso alle risorse e ai luoghi strategici da parte delle grandi potenze occidentali. Punti deboli di questa fascia sono il Sudan e la Somalia, considerati come due possibili varchi della penetrazione islamica in Africa.
A quali risorse si riferisce, esattamente?
In generale le risorse dell’Africa sono state tenute per 10-15 anni in una specie di serbatoio di riserva. La situazione del Medio Oriente e dell’America centrale hanno via via reso più appetibili le risorse dell’Africa, anche se più costose, meno accessibili e dalle condizioni di trasporto più difficili. Ma il petrolio e alcuni materiali strategici – minerali come il ferro, il rame e il coltàn, prodotto dal Congo e fondamentale per le tecnologie della new economy – stanno facendo dell’Africa un luogo chiave del mercato globale.
Qual è stato il ruolo degli Stati Uniti nell’attacco dell’Etiopia alla Somalia?
L’Etiopia si è prodigata negli ultimi anni per proporsi come l’alleato più fidato, credibile e militarmente efficiente per gli Stati Uniti. Persino la guerra tra Etiopia e Eritrea tra il 1998 e il 2000, nella mia interpretazione, è stata una specie di semifinale fra due candidati ad essere l’alleato più importante degli Usa nella regione. Alla fine si è imposta la maggior potenza dell’Etiopia, che peraltro confina massicciamente con la Somalia, con cui ha sempre avuto dei conti aperti. L’Etiopia ha sicuramente degli interessi “nazionali” molto forti per attaccare in questo momento la Somalia, impedendo che si formi uno stato islamista che peraltro potrebbe alterare gli equilibri all’interno della stessa Etiopia. Gli Stati Uniti, più che averla provocata, potrebbero aver dato il via libera ad un’iniziativa etiopica.
Mi rifaccio a una specie di tradizione: nel Corno d’Africa gli attori locali hanno sempre imposto le proprie cause alle grandi potenze, piuttosto che il contrario. Anche in questo caso, la Somalia potrebbe essere stata un buon pretesto per l’Etiopia, per regolare vecchi conti sapendo di trovare il consenso degli Usa e dell’Occidente.
Gli Stati Uniti stanno aiutando, a livello umanitario, i profughi rifugiati nell’Etiopia orientale. Un’ammissione del fatto che l’hard power da solo, come in Iraq, non basta?
Sono situazioni non paragonabili, e poi gli Usa hanno sempre effettuato la cooperazione dopo i bombardamenti.
Qui non c’è petrolio, nonostante le solite dicerie. L’assistenza americana qui è a fondo politico, perché per l’Etiopia un massiccio afflusso di profughi potrebbe rivelarsi ingestibile.
Nel Corno d’Africa assistiamo a una sorta di scontro di civiltà?
Lo scontro di civiltà c’è sempre stato, perché le due realtà statuali hanno sempre fatto riferimento l’una ai cristiani e l’altra ai musulmani. L’Etiopia è sempre stata utilizzata come baluadro contro l’espansionismo arabo-islamico, e per questo è da tempo alleato di Israele. Dietro la Somalia c’è sicuramente l’Egitto, che vuole contrastare la rivale Etiopia, che controlla una buona parte delle fonti idriche del Nilo. Arabia Saudita e Egitto non possono perdere il contatto con le forze islamiche della regione. A complicare il quadro c’è l’Eritrea, che, pur avendo un governo più simile a quello dell’Etiopia, si ritrova in un’alleanza innaturale e anti-etiopica con le corti islamiche somale.
L’aggressione dell’Etiopia è illegale?
È difficile parlare di legalità nel Corno d’Africa e nel mondo d’oggi. Una frase che descrive bene la situazione è “la legge della giungla nel bush”, dove il bush è la Somalia, la “boscaglia” del continente.
Qual è il ruolo dell’Europa in tutto ciò?
L’Europa è divisa. Londra sostiene il Somaliland, l’ex colonia inglese che non è ancora riconosciuta ufficialmente. L’Ue persegue invece la ricomposizione unitaria della Somalia. L’Italia ha il ruolo del facilitatore, e caldeggia da sempre gli sfortunati governi di transizione, compreso l’attuale. Il Corno d’Africa è sempre stata una zona a forte influenza europea, ma la regola è che nele crisi in aree appartenute a potenze coloniali deboli – Portogallo, Belgio e Italia, che controllava proprio la Somalia – gli Usa si ritagliano sempre un ruolo di primo piano.
Questa intervista è apparsa sul quotidiano Europa