Il Cairo
Non stanno perdendo tempo i legislatori egiziani, già al lavoro per adeguare le normative che regolano il paese a seguito dei cambiamenti sanciti dal referendum popolare del 26 marzo. Sono già all’opera e nell’arco di due settimane potrebbero terminare il loro lavoro. Non c’è da sorprendersi, in realtà. Piuttosto, tanto di cappello. Se trentaquattro emendamenti alla Costituzione sono stati discussi da una commissione parlamentare creata ad hoc, visionati dalla camera alta, la Shura, votati dall’Assemblea popolare, la camera inferiore, e sottoposti a referendum, il tutto in 83 giorni, non si vede perché la capacità ‘legislatoria’ dei deputati egiziani non possa suscitare stima e, anzi, entrare nella leggenda.
Dicono i maligni: bella forza. Facile procedere spediti quando l’opposizione politica viene pregata ‘gentilmente’ di sedersi in un angolo e lasciar fare, e le ‘bozze’ di tutte le modifiche provengono dall’elegante palazzo presidenziale di Heliopolis, alla periferia del Cairo. In fondo, però, che importanza hanno le modalità? Ciò che conta è che la Repubblica araba d’Egitto proceda sulla strada della Riforma. Il commento del Segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, durante la conferenza stampa congiunta con il ministro degli Esteri egiziano, Abul Gheit, ad Assuan alla vigilia del referendum: “Dunque, sì, ho reso note (al presidente Mubarak, ndr) le mie preoccupazioni così come le mie speranze rispetto alla riforma qui in Egitto. Il processo di riforma è difficile. Avrà degli alti e dei bassi”.
Insomma, le montagne russe. Ma il fine giustifica i mezzi. “L’obiettivo dei 34 emendamenti – ha sostenuto e continua a sostenere nei frequenti messaggi alla nazione il presidente Hosni Mubarak, quasi 79enne – è sviluppare l’infrastruttura legislativa egiziana e sostenere la riforma economica, politica e sociale nel paese”. Un nobile proposito, in linea con le attese degli alleati statunitensi e degli interlocutori europei. E quindi riforma sia. Ma quale? Gli emendamenti appena approvati possono essere distribuiti in quattro gruppi e rispondono al programma politico formulato da Mubarak stesso nel 2005, durante la campagna per le elezioni presidenziali: si tratta di nove punti presentati alla nazione come una vera e propria piattaforma politica per ridare slancio alla democratizzazione del paese.
Nasserismo addio
Il primo gruppo, secondo i costituzionalisti egiziani, include una decina di articoli, incentrati sulla natura socialista della repubblica egiziana. Le nozioni di socialismo, sistema socialista, principi socialisti sono state cancellate del tutto, vista l’evidente apertura all’economia di mercato che caratterizza da anni il paese: ora la Repubblica araba d’Egitto si ritrova “Stato democratico basato sul principio della cittadinanza”. E del passato nasserista non c’è più traccia. Un svolta ufficiale verso il capitalismo, secondo alcuni osservatori della scena politica, voluta dalle nuove leve del Partito nazionale democratico (Ndp), in testa Gamal Mubarak, figlio cadetto del presidente. Non più militari, ma businessmen, educati nelle migliori facoltà di economia d’Europa e Stati uniti, i ‘giovani’ dell’Ndp, il partito di maggioranza da oltre 25 anni, spingono sull’acceleratore delle liberalizzazioni e puntano ad attirare sempre più capitali esteri.
Il secondo gruppo di emendamenti riguarda le elezioni – presidenziali, legislative, amministrative e referendum – e i criteri per l’eleggibilità dei candidati al parlamento e alla presidenza. Le novità più significative e criticate, in questa sezione, sono: i non sono iscritti ad un partito non potranno più candidarsi. Niente candidati indipendenti, ma solo liste di partito, stabilisce la ‘nuova’ Costituzione (Articolo 62). “In pratica – spiega Ayman Okail, direttore del Maat, Centro studi giuridici e costituzionali del Cairo – una norma contro l’opposizione, destinata a sbarrare la strada agli indipendenti”. Nell’Assemblea popolare (Maglis Asshab), siedono infatti 88 deputati della Fratellanza musulmana, il principale gruppo dell’opposizione al regime, eletti come indipendenti a fine 2005. I Fratelli musulmani sono ‘tollerati’, ma sono ancora un movimento illegale in Egitto, non un vero partito. D’ora in poi saranno ancora più ostacolati nella loro attività politica.
Ma soprattutto, le future consultazioni popolari non saranno più supervisionate dai giudici, fino ad ora garanti della correttezza del voto: “Un’alta commissione indipendente e neutrale sorveglierà gli scrutini” (Articolo 88).
La spiegazione ufficiale, pubblicata dagli organi della stampa filo-governativa, è non sovraccaricare i giudici con lavoro burocratico eccessivo. Anche in questo caso, l’opinione di attivisti politici e organizzazioni per i diritti umani è diversa: dopo lo scrutinio parlamentare del novembre 2005, numerosi giudici denunciarono i brogli verificatisi nei propri seggi di competenza, entrando in aperto conflitto con il potere esecutivo. Con l’articolo 88 in versione ‘moderna’ questo non succederà più. Un modo rapido per ‘riequilibrare’ le relazioni fra i poteri dello Stato.
I poteri del Faraone
Le prerogative del presidente e degli altri poteri rientrano in un terzo gruppo. La presidenza continua ad avere la possibilità di sciogliere le camere, ma dovrà prima consultarsi con il primo ministro (Articolo 136). Peccato che non sia più obbligatorio un referendum popolare per chiedere ai cittadini se sono d’accordo sulla decisione di scioglimento delle camere, mentre la nomina del primo ministro e la revoca del suo incarico rimangono nelle mani del ‘rais’. Inoltre, nessuna apertura alla figura di un vice-presidente, che Hosni Mubarak non ha mai voluto nei suoi 26 anni di ‘regno’ e persiste nel non voler nominare. Sempre sotto il controllo della presidenza pure il potere giudiziario, anche se è stato introdotto un ‘filtro’, un nuovo consiglio superiore, presieduto dal presidente della repubblica.
Ed ecco l’argomento spinoso della separazione fra religione e Stato. Modificato l’articolo 5, ora “è vietato condurre attività politica o creare partiti politici su basi religiose o sulla discriminazione di sesso e di razza”. Un provvedimento mirato a mettere in soffitta le ambizioni della Fratellanza musulmana e non certo a ‘laicizzare’ lo Stato egiziano. Recita, infatti, l’articolo 2: “L’Islam è la religione dello Stato, la lingua araba è la sua lingua ufficiale. La Sharia (la legge islamica, ndr) è la fonte principale della legislazione”. Per coerenza con il nuovo articolo 5, si è valutata l’ipotesi di modificare anche il 2, eliminando il riferimento alla Sharia: niente di più impossibile nell’Egitto del 2007, in cui il ministero degli Affari religiosi (Awqaf) e la moschea universitaria di Al Azhar dettano legge sulla vita dei cittadini.
Poi il quarto gruppo di emendamenti costituzionali, in cui spicca il nuovo articolo 179, cioè quello anti-terrorismo che rende definitive le leggi d’emergenza in vigore in Egitto dalla morte di Anwar Sadat, nell’ottobre ’81. Fino ad oggi sono state rinnovate con cadenza triennale senza interruzione, ma l’opposizione sperava che prima o poi fossero revocate. Adesso, invece, “Il capo dello Stato può deferire qualsiasi crimine terrorista a qualunque organo giuridico citato nella legge e nella Costituzione”, ovvero i tribunali militari. Al momento, non c’è definizione per l’espressione ‘crimine terrorista’.
Ciò che è successo in Egitto per 26 anni, cioè che un cittadino possa essere arrestato, detenuto senza limiti temporali, processato da una corte marziale, nella maggior parte dei casi senza alcuna assistenza legale, ora rientra ufficialmente nelle strategie di lotta al terrore. “Una delle principali caratteristiche dell’Egitto è la sicurezza della sua società e la capacità di fornire sicurezza ai suoi figli e figlie – ha spiegato alla stampa internazione il ministro Abul Gheit ad Assuan – Questa è responsabilità della società egiziana. E quando la questione è legata al terrorismo, ho fiducia che le leggi egiziane e il quadro della Costituzione possano raggiungere l’obiettivo della sicurezza per questa società, in circostanze davvero difficili per tutta la regione”. E quando il dibattito si è fatto incandescente nelle ultime settimane, sia Gheit sia Mubarak hanno rinviato gli accusatori a leggersi le leggi anti-terrorismo occidentali, figlie del Patriot Act americano.
Le paure degli americani
“Speravamo che questa riforma portasse a un cambiamento positivo, in realtà il governo fa quello che vuole – riferisce con evidente disincanto Ayman Okail, del centro studi Maat – Dall’81 al 2005 non c’è mai stata una proposta di discussione sulla Costituzione. Il governo egiziano ha ricevuto fino a poco tempo fa pressioni molto forti dall’esterno, affinché si aprisse alla democrazia. Ma dopo le elezioni del 2005, con la vittoria dei Fratelli musulmani (c’è stata una) marcia indietro”. Vale a dire: se democrazia significa spianare la strada a una formazione politica il cui slogan è ‘L’Islam è la soluzione’ – devono avere pensato a Washington – che dittatura sia. Aggiunge Okail: “Prima Condoleezza Rice ad ogni visita in Egitto parlava di diritti umani, di Ayman Nour (ex leader del partito Al Ghad, ora in prigione, ndr), elezioni, democrazia. Ora, silenzio”.
Dal dibattito politico si sono astenuti del tutto i cristiani copti, una minoranza che in Egitto rappresenta circa il 10% della popolazione, secondo le stime governative, ovvero 7-8 milioni di cittadini. L’invito di papa Shenouda III è stato quello di mantenere un profilo basso, di non scendere nell’arena. Poi, all’ultimo è giunto l’invito a partecipare al voto referendario. “I copti hanno un problema interno. Alcuni si sentono prima egiziani, altri cristiani e basta. In ogni caso sono quasi del tutto assenti dal parlamento”, sottolinea il direttore del Maat. Ma più che confessionale, lo scoglio per la società egiziana di oggi è politico: “Non c’è un partito di opposizione forte e unito. Ogni volta che c’è qualcuno di promettente, il regime lo stronca. Al momento nessuno può contrastare il Partito nazionale democratico”.
E così nessuna delle proposte della minoranza politica sono state prese in considerazione dall’Ndp, che detiene più del 70% dei seggi nell’Assemblea popolare. Approvati dopo neanche due giorni di discussione tutti i 34 emendamenti, il referendum è stato indetto da una settimana all’altra.
I deputati indipendenti che fanno capo alla Fratellanza e quelli dei partiti minori, quali Al Wafd (La delegazione), il Tagammu (Partito unionista) e le formazioni di ispirazione nasseriana come Al Karama (La dignità) hanno prima boicottato il voto in aula e poi quello referendario. Una scelta appoggiata da alcuni politologi, come Diaa Rashwan, studioso del Centro studi politici e strategici Ahram del Cairo, esperto di Islam politico e gruppi estremisti: “Hanno voluto ribadire che i referendum sono del tutto fuori dal controllo dei cittadini, non ha senso votare. Sarebbe come contribuire ai disegni del governo. In questo modo, l’approvazione degli emendamenti è frutto dell’Ndp e basta”.
Non è chiaro se la bassa affluenza alle urne sia la risposta della cittadinanza all’invito al boicottaggio, oppure al massiccio dispiegamento di forze di sicurezza in divisa o borghese ovunque prima e durante il referendum. Paradossalmente alleati, i due fattori hanno comunque colpito nel segno: “All’ultimo referendum, quello del 2005 per la modifica dell’articolo 76, ha votato il 53% dei cittadini aventi diritto. La reale partecipazione, questa volta, si aggira fra il 5 e 10%, anche se le cifre ufficiali dicono – precisa lo studioso – che ha votato circa il 27% degli aventi diritto”. Scontato il quasi plebiscito per il sì (76%). “Era importante dare l’idea, dentro e fuori il paese, che i risultati sono veri, attendibili. Questo è stato il gioco del governo, che ha cercato davvero di portare la gente alle urne con una campagna imponente sui media governativi”, ritiene Rashwan. A questo punto, modificata la Costituzione, alle opposizioni non restano molte alternative: “Boicottare il processo di costruzione delle leggi, nient’altro”, chiosa il politologo del Centro Ahram.
Conclude invece il direttore del Maat, riflettendo sulla possibilità che in Egitto scoppi una rivoluzione, magari con il tramonto del regime: “Gli unici che sarebbero in grado di sollevare una ribellione, di mobilitare gente, sono i Fratelli musulmani, ma non gli conviene. Perderebbero i finanziamenti che arrivano dall’estero, soprattutto dall’Arabia Saudita”. Per concludere, la testimonianza di Osama, fotografo, recatosi al seggio poco prima della chiusura delle operazioni di voto, prevista per le 19: “Li ho visti con i miei occhi (gli scrutinatori). Stavano contando e rivedendo i voti. Ho visto molti no messi nel mucchio dei sì, così come quelli non validi erano contati come sì. E ho anche visto che la maggior parte dei sì aveva lo stesso tipo di segno, un cerchio e una sbarretta, in rosso. Come se li avesse fatti tutti la stessa persona”. Difficilmente Osama tornerà a votare, se mai ci saranno altri referendum in Egitto.