Nel giro di due settimane la crisi di legittimità dei rappresentanti politici del paese si è fatta di colpo palpabile. La causa scatenante è stata l’emanazione da parte di Mohammed Morsi di una nuova dichiarazione costituzionale che di colpo ha blindato i suoi poteri e quelli dell’Assemblea Costituente da qualsiasi possibile azione giudiziaria. Le sue decisioni, almeno fino all’approvazione definitiva della Costituzione, sono state rese inappellabili, e la costituente ha ottenuto altri due mesi di tempo per ragionare sulla nuova Carta; nel frattempo il potere giudiziario è stato spogliato di qualsiasi legittimità, anche con la rimozione dall’incarico del procuratore generale Abdel Meguid Mahmoud.
Nel tentativo di controbilanciare e giustificare agli occhi dell’opinione pubblica l’eccessiva presa di potere, Morsi ha chiesto la riapertura delle indagini sulle uccisioni dei manifestanti di piazza Tahrir e sui crimini di terrorismo perpetrati dal vecchio regime contro i rivoluzionari. In particolare sono due su sette gli articoli della Dichiarazione che fanno riferimento alla rivoluzione del 25 gennaio del 2011. Il suo portavoce Yasser Ali ha anche dichiarato che la scelta del Presidente mira ad assicurare la stabilità del paese, che in questo momento “non può permettersi battaglie legali e anzi deve accorciare il periodo transitorio per assicurarsi una Costituzione nel più breve tempo possibile. Questo accadeva il 22 novembre. Esattamente otto giorni dopo, il 30, come se ci fosse una scadenza imminente, l’Assemblea Costituente approva tutti i 230 articoli della Costituzione in una seduta fiume: il risultato è un documento che presenta molte lacune, e che è già stato ampiamente criticato da organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International per la scarsa attenzione nei confronti dei diritti delle donne e della libertà di espressione.
La Carta non riconosce la supremazia del diritto internazionale su quello interno e non fa riferimento ai trattati che l’Egitto ha firmato con altri paesi. Non offre garanzie contro il lavoro minorile, che resta ammissibile, e non tutela le minoranze sciite.
“Il contenuto del testo e il modo in cui è stato approvato costituiscono fonte di grande delusione per i molti egiziani scesi in piazza per far cadere Hosni Mubarak – ha dichiarato Hadj Sahraoui, vicedirettore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty – per questo sollecitiamo Morsi a riportarlo sul giusto binario, in modo che tutti i settori della società siano coinvolti, nel rispetto dello stato di diritto e del ruolo vitale dei giudici”.
In particolare le associazioni per i diritti umani si sono concentrate sulla critica rispetto ad alcuni articoli, come il 2 e il 219 che definiscono i principi della sharia come fonti primarie della legge e regole fondamentali della giurisprudenza, e che potrebbero influenzare in negativo la già presente discriminazione delle donne. Un altro comma sotto osservazione è il 67, che fa riferimento al diritto di alloggio, ma non proibisce gli sgomberi forzati, o ancora il 36 che proibisce la tortura ma non vieta espressamente le punizioni corporali.
L’approvazione in tutta fretta ha ulteriormente acuito il malcontento, perché frutto della scelta di una Costituente già depotenziata nella sua rappresentatività dalle defezioni dei laici e dei cristiani, insoddisfatti della scarsa considerazione in sede di discussione. Ora manca l’ultimo passo, il referendum per l’approvazione definitiva, fissato per il 15 dicembre: anche questa sembra essere una scelta dettata dalla forza dei numeri che i Fratelli Musulmani e i salafiti, radicati capillarmente sul territorio, potrebbero mettere in campo anche in un voto popolare. Il Consiglio Superiore della Magistratura si è riunito e ha deciso di delegare comunque i giudici per la supervisione del voto, perché altrimenti ci sarebbe stato il rischio concreto di andare alle consultazioni senza il monitoraggio giudiziario perché l’Ordine dei Magistrati aveva annunciato che non si sarebbe ritenuto coinvolto nell’operazione.
Intanto i segnali di dissenso, oltre che dalla piazza, arrivano anche dal mondo diplomatico, politico e dell’informazione. Il quotidiano indipendente Al Masri Al Youm riporta la notizia che almeno 200 diplomatici hanno dichiarato che non seguiranno le operazioni di voto all’estero, previste da sabato 8 fino a martedì 11 dicembre, in 137 ambasciate e 11 consolati. Un boicottaggio che i funzionari hanno deciso dopo la notizia delle prime vittime negli scontri di piazza, e validato con una dichiarazione scritta in cui si legge: “noi sottoscritti membri del corpo diplomatico e consolare, per essere coerenti con i nostri principi di lealtà verso il nostro paese, denunciamo i fatti di sangue cha hanno avuto luogo da mercoledì e annunciamo il nostro rifiuto di fare vigilanza sul referendum costituzionale perché il sangue degli egiziani è stato versato”.
Morsi ha perso anche i 17 consiglieri politici, che si sono dimessi a seguito degli scontri. Il copto Rafiq Habib ha annunciato pubblicamente il ritiro dalla vita politica sulla sua pagina Facebook, e ha dichiarato di rinunciare anche al suo incarico di vicepresidente del Partito di Libertà e Giustizia.
Martedì scorso ha scioperato il mondo dell’informazione: diversi i quotidiani che hanno aderito come Egypt Independent (Al Masri Al Youm), Al Watan, Tahrir, oltre ai canali televisivi Ontv, Al Hayat e DreamTv.
La comunità internazionale per il momento resta in disparte, ma come ha dichiarato il rappresentante speciale dell’unione Europea per il Sud Mediterraneo Bernardino Leon, “il decreto del Presidente è considerato un errore, anche se non è il momento delle sanzioni”. Che cosa succederà a questo punto lo si vedrà già dalle prossime ore, dopo l’incontro di Morsi con i suoi ministri. Nel frattempo anche l’accademia Al Azhar, centro teologico sunnita, gli ha lanciato un appello: sospensione immediata del decreto e avvio di un dialogo nazionale prima che sia troppo tardi.