«E ora non si devono escludere i Fratelli Musulmani»
Paola Caridi intervistata da Matteo Tacconi 3 febbraio 2011

Perché il riferimento all’89?

Sul mondo arabo siamo miopi e l’89 è una categoria che può aiutare a comprendere quello che sta accadendo in quest’area. L’89 colpisce immediatamente il nostro immaginario. Quando parliamo di people power ci serviamo dell’89, ci riferiamo a quelle rivoluzioni di popolo, a quella gente che, a bordo delle Trabant, si piazzò a ridosso della cortina di ferro e venne a bussare alle porte dell’Occidente. Allora tutto quello non successe all’improvviso. C’erano le condizioni affinché scoppiasse la rivolta e le condizioni le creò la dissidenza, una dissidenza di massa. Anche oggi è lo stesso. Nel mondo arabo c’è una dissidenza di massa, la rivoluzione non è casuale e, come nell’89, non è destinata a fermarsi. Ma ci sono altre analogie.

Quali?

Vent’anni fa, nell’Europa dell’est, c’erano i samizdat. Adesso è lo stesso, solo che invece dei volantini, degli appelli e delle pubblicazioni clandestine si usano Internet e i social network. Un’altra questione è il ruolo dei giovani. Nell’89, in Ungheria, la Fidesz, il principale partito dell’opposizione, era composto esclusivamente da giovani. Chi aveva più di 35 anni non poteva iscriversi. Ora, accade che in Egitto siano i giovani i grandi protagonisti della rivoluzione. Sono i giovani che stanno in piazza, sono loro che veicolano la rivoluzione sul web. Ma qualcuno se n’è accorto, in Europa? I ragazzi del Cairo vengono dipinti come l’elemento di folklore, come quelli fuori dagli schemi e quando da noi si tracciano i futuri scenari politici li si esclude dai giochi. Si parla dei Fratelli musulmani, dei laici e di El Baradei. Ma non dei giovani. I giovani hanno voluto e guidato la rivoluzione. Se non si parla dei giovani viene a mancare un fotogramma essenziale.

Il fatto che non li notiamo indica che noi occidentali non conosciamo a fondo il mondo arabo?

Ci sono carenze evidenti e quella sui giovani non è l’unica. Quando Mubarak ha annunciato che non si candiderà alle presidenziali di settembre, c’è chi parlato di “compromesso dietro l’angolo”. Una valutazione errata e non solo perché le parole di Mubarak sono una prova di forza nei confronti della piazza e del popolo, cosa confermata dal fatto che la repressione è andata avanti. Il punto è che da qui a settembre ci sono parecchi mesi e gli egiziani non si fermeranno. La diga della paura è stata orma sfondata. È d’altronde la stessa storia dell’Egitto, un’altra cosa di cui ci si è scordati, a rammentarcelo. La rivoluzione del 1952 scoppiò a gennaio e terminò a luglio. Durante quei mesi il popolo non ha minimamente pensato di tornare indietro. Adesso succede la stessa cosa e l’egiziano, davanti alle frasi di Mubarak, reagisce. Non intende farsi scippare la rivoluzione.

Che ruolo potranno giocare i Fratelli musulmani, se la rivoluzione vincerà?

Anche qui ci sono letture distorte. In molti dicono che i Fratelli musulmani rappresentano un pericolo e che c’è il rischio di una deriva islamica. È la stessa cosa che ha sempre detto Mubarak, tra l’altro. Mettere tutti i movimenti islamici nel calderone del fondamentalismo è sbagliato. Questa tendenza risponde a un preciso disegno politico e risulta dettata dalla malafede. Quello che sta in realtà accadendo, nei Fratelli musulmani e in generale nel campo dell’islamismo conservatore, moderato e “centrista”, è che si guarda sempre più alla Turchia come modello. Ma i regimi arabi hanno estromesso queste forze. Mubarak, espellendo i Fratelli, ha peggiorato solo le cose, andando a fecondare altri movimenti, più dogmatici, come quello salafita, che in questi anni è cresciuto “sul” regime e ha guadagnato spazio. Con i Fratelli musulmani si deve necessariamente parlare. È inevitabile. Se guardiamo alla nostra storia troviamo tra l’altro una categoria che spiega la necessità di dialogo. In Italia, quando crollò il fascismo, si formò un comitato di liberazione nazionale formato da tutti i movimenti dell’opposizione: conservatori, liberali, socialisti, laici, comunisti e cattolici. La Democrazia cristiana aveva una chiara vocazione religiosa. È stata esclusa? Nient’affatto. Ha anzi contribuito alla rinascita democratica. In Germania è successo lo stesso con la Cdu. Perché dunque in Egitto non si dovrebbe tenere conto dei Fratelli musulmani? Tra l’altro sono anni che i centri studi americani indicano la necessità di includerli nel processo di transizione.

Torniamo all’89. Allora, uno dietro l’altro, i paesi dell’Est caddero. Anche nel mondo arabo ci sarà un effetto domino?

C’è un modo di dire nel mondo arabo: “Quello che succede al Cairo succede anche altrove”. Il Cairo è la finestra che si apre sul resto della regione. La Tunisia è stata la prima a ribellarsi, è vero. Ma la rivoluzione è al Cairo e si tratta di una rivoluzione non solo egiziana. Perché l’Egitto, per tutti gli arabi, è la madre del mondo. L’impressione, in effetti, è che la protesta si stia allargando. In Libia è stata chiamata una manifestazione, poi revocata. In Algeria c’è movimento. In Marocco si sono date fuoco due persone. E il rimpasto del governo giordano, unito alle recenti dichiarazioni del presidente dello Yemen – “non mi ricandido né si candiderà mio figlio” – indica che i regimi del Medio Oriente sanno che se scocca la scintilla al Cairo può succedere di tutto, dappertutto.