Venerdì 21 gennaio 2011
Tariq Ramadan, i fatti delle ultime settimane in Tunisia sono stati anche per lei una bella sorpresa? Quali saranno gli sviluppi futuri?
Da circa quindici anni esprimo la mia contrarietà al regime di Ben Ali. In Tunisia sta succedendo qualcosa di grande. Ma dobbiamo essere ancora molto cauti. Anche se il dittatore è uscito di scena, il sistema è rimasto in piedi e siamo entrati in una fase di transizione. Molti degli uomini di Ben Ali sono ancora lì e la situazione è molto complessa. In questo frangente, i riformatori devono mostrare moderazione. Al tempo stesso, è necessario smantellare l’intero sistema: il fatto che il dittatore sia uscito di scena non basta. Dobbiamo essere ancora molto cauti nel valutare i veri “risultati” di questa situazione. È chiaro che non sarà possibile tornare indietro: il Paese sta andando verso un sistema più democratico. Ma occorre che il nuovo sistema sia autenticamente democratico, con elezioni trasparenti e così via.
Si aspetta rivolte analoghe in altri paesi della regione?
Tutti condividiamo la speranza di un cambiamento. In Tunisia abbiamo visto persone uccise, o uccidersi, nel semplice tentativo di creare, di innescare qualcosa di nuovo… Finora, però, non si è verificato niente di simile altrove, né credo che succederà di qui a breve. Sarà un processo di lungo respiro. Una cosa è certa: tutti i paesi sono in stato di agitazione.
Potrebbe accadere in Egitto?
In Egitto il sistema è corrotto e non c’è democrazia. Nelle prossime elezioni presidenziali si porrà il dilemma del ruolo di Mubarak e della successione del figlio. Ma il problema sta anche nell’influenza esercitata da personaggi potenti e in tutto il sistema autoritario che sostiene il regime. Anche il regime di Ben Ali era potente. In Egitto potrebbe succedere qualcosa di simile alle proteste esplose in Tunisia? Non lo escludo. Ho sentito dire che ci saranno grosse manifestazioni.
Le autorità egiziane potrebbero rivelarsi deboli come quelle tunisine?
Non direi che le autorità tunisine fossero deboli. A mio parere erano potenti. Ma è arrivato un momento critico in cui tutte le autorità, compreso l’esercito, hanno deciso di non schierarsi dalla parte del dittatore. Non so se l’esercito egiziano si comporterebbe allo stesso modo. Ma non escludo affatto la possibilità che neghi il suo sostegno a un regime dominato dalla corruzione.
Volevo dire “deboli” in termini di consenso, cioè impopolari.
In questo caso la risposta è sì: il regime egiziano gode in realtà di scarso consenso. È molto impopolare, la popolazione soffre ed è contraria a ciò che sta succedendo. Le manifestazioni o altri eventi che simboleggiano un fenomeno nuovo e più importante potrebbero innescare un cambiamento. Onestamente, però, non credo che questa ipotesi sia probabile, perché negli ultimi dieci anni il regime egiziano ha assunto il controllo assoluto del paese. L’amministrazione statunitense e i sostenitori del regime temono un’eventualità del genere, molto più che in Tunisia. L’Egitto è un paese troppo importante sul piano strategico.
Quali sono le dinamiche in atto nell’intera regione in termini di coinvolgimento dell’Islam e dei movimenti politico-religiosi? Gli islamisti svolgono una funzione importante in queste circostanze? I Fratelli musulmani dovrebbero svolgere un ruolo più decisivo in Egitto che in Tunisia.
Credo che in Tunisia i Fratelli musulmani abbiano scelto di avere poca visibilità e di evitare un effettivo coinvolgimento, limitandosi a sostenere il processo di cambiamento. Quello che è accaduto in Tunisia non si deve agli islamisti ma al popolo. Agli occhi degli islamisti, essere visti come una forza trainante sarebbe un errore: vogliono essere riconosciuti come un attore all’interno del sistema, ed è proprio ciò che sta accadendo. In Egitto, invece, i Fratelli musulmani rappresentano una forza di opposizione, soprattutto dopo le ultime elezioni legislative, che hanno visto i loro candidati ritirarsi dopo il primo turno. E svolgono un ruolo decisivo. Se anche in Egitto succederà qualcosa, i Fratelli musulmani vi saranno coinvolti, come pure Kifaya (“Basta!”, un movimento di base che si oppone al regime di Mubarak, ndr). Sono impegnati nel processo di cambiamento, e godono di notevole consenso. Non è un consenso maggioritario, e questo gli islamisti lo sanno. Ma sanno anche che avranno un ruolo da giocare. Il caso della Tunisia è diverso: nessuno può sostenere che gli islamisti siano parte integrante del processo di cambiamento, perché non è vero. Se in Egitto succedesse qualcosa, però, il cambiamento verrebbe bollato come una svolta verso l’islamismo, e Mubarak potrebbe far leva proprio su questo.
Ora che in Egitto è stato escluso dal gioco politico, il movimento ispirato dalla Fratellanza musulmana sarà più o meno radicale, più o meno democratico?
Basta analizzare i discorsi dei Fratelli musulmani degli ultimi vent’anni per rendersi conto che c’è già stato un profondo cambiamento. Prima erano contrari alla democrazia, mentre ora sono a favore. E si battono per una partecipazione attiva del loro movimento. Questo significa che stanno cambiando. Non hanno ancora raggiunto lo standard “turco”: tra gli islamisti turchi e quelli egiziani c’è ancora un ampio divario. L’attuale leadership dei Fratelli musulmani è piuttosto anziana, più vicina a Erbakan (ex leader islamista e primo ministro turco, costretto alle dimissioni nel 1997 su pressione dei militari, ndr) che a Erdogan (attuale primo ministro e leader del partito Akp, ndr). Non credo che ci sarà una rivoluzione in senso stretto. Direi piuttosto che i Fratelli musulmani manterranno un approccio legalista, cercando di agire come movimento di base.
Ci sono molte differenze tra gli islamisti egiziani e tunisini (mi riferisco sia ai Fratelli musulmani sia agli altri gruppi)? Come cambia l’approccio alla democrazia e ai diritti umani?
Ha sollevato un punto cruciale. La comunità occidentale deve rendersi conto che vi sono molti tipi di islamisti, anche in Tunisia. Rachid Ghannouchi, per esempio, viene dalla Fratellanza musulmana, ma negli anni sessanta e settanta fu l’unico all’interno di quel gruppo ad affermare che la democrazia è una cosa giusta, mentre i Fratelli in Egitto sostenevano il contrario. Per Ghannouchi la democrazia non era un problema. Le sue idee erano molto più avanzate e liberali, considerando anche quello che scrisse sulle donne, rispetto agli altri Fratelli musulmani. Eppure faceva parte del gruppo! Già allora, dunque, c’era un dibattito. Anche in Tunisia ci sono varie correnti. Basti pensare ai salafiti e ai letteralisti”.
Dunque c’è un dibattito interno. Ma chi è più forte, chi riuscirà a imporsi?
L’attuale corrente di riferimento in Tunisia, a mio avviso, ha posizioni molto più avanzate. Tra Ghannouchi e Erdogan, per esempio, ci sono molte affinità per quanto riguarda la democrazia, il dialogo e i rapporti con l’Occidente. Credo che stiano facendo lo stesso percorso. In Egitto la situazione è diversa. Qui, ancora una volta, non è una questione di correnti ma di generazioni. Per i Fratelli musulmani egiziani “essere giovani” significa avere sessant’anni! Non siamo più negli anni quaranta. Insomma, c’è una lotta interna tra generazioni e tra correnti. Oggi l’islamismo non è una realtà monolitica. In Tunisia la corrente di riferimento ha posizioni molto più avanzate per quanto riguarda la democrazia e le donne rispetto all’Egitto. Questo è un punto fondamentale. Vent’anni fa un movimento come Kifaya non sarebbe mai potuto nascere in Egitto. I Fratelli musulmani avevano rifiutato qualsiasi contatto con altre idee politiche, che fossero comuniste, “di sinistra” o atee. Poi però hanno cambiato strategia, perché hanno capito che non ci si può opporre alla dittatura di Mubarak restando isolati. Se non vogliamo prendere per buono quello che dicono i dittatori (“O noi o gli islamisti!”) e se vogliamo avere un’idea più chiara di quella che potrebbe essere l’opposizione, dobbiamo imparare a riconoscere le varie tendenze all’interno dell’islamismo. Da un lato c’è chi cambia e adotta posizioni nuove. Dall’altro chi oppone resistenza e assume un atteggiamento più tradizionalista, e a volte addirittura violento.
Traduzione di Enrico Del Sero