Dopo il film. Le primavere arabe alla prova della democrazia
Karim Mezran, intervistato da Antonella Vicini 21 settembre 2012

Per Karim Mezran, analista italo-libico e attualmente Senior Fellow presso il Rafik Hariri Center for the Middle East dell’Atlantic Council of the United States, “ciò che è vero in un Paese, non vale in un altro e gli stessi episodi in Egitto, Libia, Marocco o Tunisia hanno un valore diverso”. “Fondamentale – spiega Mezran – è smettere di considerare il Medio Oriente come se fosse un’unica regione. È necessario, invece, fare un’analisi caso per caso”.

Partiamo dalla Libia.

Il caso libico è molto semplice: ci sono vari elementi che cercano di impedire che il Paese prosegua il suo cammino verso la stabilità e la “democratizzazione”. La Libia ha fatto dei passi in avanti verso la realizzazione delle sue prime istituzioni democratiche ma si tratta di un processo lento. Questo ha creato molti nemici, innanzitutto fra gli ex gheddafiani (come Saadi Gheddafi che agisce dal Niger), che possono contare su un discreto appoggio all’interno del Paese. Gli ex gheddafiani hanno soldi da spendere e stanno utilizzando gruppi di terroristi per creare destabilizzazione. Ci sono poi le bande criminali e i gruppi eterogenei di salafiti che stanno crescendo alla destra degli islamici moderati e che, secondo quanto dicono a Tripoli, sono finanziati dai sauditi. C’è poi al Qaeda che sta penetrando velocemente nel Paese, contando su questo magma di simpatizzanti. Dall’altra parte, invece, abbiamo uno Stato istituzionalmente debole, che è solo agli inizi, senza un apparato di polizia e di servizi segreti efficienti, perché anche lì ci sono infiltrati, e con milizie sparpagliate su tutto il territorio. Questo è il contesto in cui è avvenuto l’assalto al consolato, solo l’ultimo di una lunga serie di eventi negativi e destabilizzanti.

Perché gli Usa non hanno tenuto in considerazione questi fattori e hanno lasciato la zona scoperta, differentemente dall’Iraq e l’Afghanistan?

Gli Stati Uniti hanno fatto un errore di valutazione clamoroso, sopravvalutando i successi ottenuti e comportandosi come se i libici fossero in grado di autogestirsi e di governare il loro Paese. A quest’ottimismo e all’opportunismo della classe politica in Libia, va aggiunta anche la paura dell’antiamericanismo degli stessi americani. Ma l’antiamericanismo che c’è in Iraq, in Egitto o in Afghanistan non esiste in Libia, non fosse altro come reazione all’antiamericanismo di Gheddafi.

In uno degli ultimi sondaggi del Gallup Institute emerge, ad esempio, che i libici sono più filoamericani dei canadesi. Se gli americani fossero rimasti con gli europei a pattugliare le zone, ad addestrare e riorganizzare la nuova polizia, non saremmo a questo punto.

Sull’attacco a Bengasi si sono sentite anche tesi complottiste.

Questi ragionamenti guardano ancora all’America degli anni ’50; quella che organizzava i colpi di stato negli altri Paesi. Il mondo ora è troppo grande e troppo complesso. E gli Stati Uniti non hanno più il controllo totale. Anche la Cia è cambiata. Ne ho avuto conferma con quest’ultimo evento di Bengasi: non avevano davvero idea di quello che sarebbe potuto accadere. Forse gli Stati Uniti sono ancora in grado di manipolare la finanza mondiale, in qualche modo, ma dal punto di vista politico e militare non sono più quelli di un tempo e spesse volte vengono colti alla sprovvista perché non hanno la flessibilità nel valutare le situazioni caso per caso. Guardiamo come si comportano con l’Arabia Saudita: il loro più grande alleato è il loro maggiore nemico che in Iraq li ha affondati, in Siria sta fomentando il terrorismo antiamericano e che li tiene in scacco fra Israele e Iran.

Al di là delle tesi complottiste, a livello di opinione pubblica che effetto ha avuto l’attacco di Bengasi sull’attuale campagna elettorale per le presidenziali?

La politica estera è così poco importante in questo momento per il popolo americano che l’incidenza di episodi simili è minima. In ogni caso, se la Libia precipitasse, Romney punterebbe il dito contro Obama per la sua competenza in politica estera perché se è vero che le missioni in Iraq e Afghanistan erano eredità del passato, diverso è il discorso per la Libia. Su questo e sulla paralisi siriana potrà giocarsi la campagna elettorale, ma resta il fatto che il popolo americano attualmente è preoccupato per altro.

Ha parlato della necessità di operare dei distinguo tra i vari episodi che stanno avvenendo nella regione. In che modo?

Ogni Paese ha una sua realtà e una sua logica. In Egitto c’è uno scontro in atto contro la Fratellanza Musulmana e così in Tunisia; in Algeria c’è un governo che tiene duro e impedisce le manifestazioni; in Marocco, più aperto, le proteste sono state minime.

La divisone del mondo in due blocchi, tra alleati e nemici, è un errore che ereditiamo dalla Guerra Fredda. I salafiti sono amici o nemici? Sono nemici quasi ovunque ma all’atto possono essere anche amici.

Lo stesso vale per la Fratellanza Musulmana; dipende dall’interesse geopolitico del singolo Paese. Rispetto al passato, oggi si sono creati movimenti che richiedono maggior partecipazione e c’è bisogno di un modo nuovo di pensare strategie più flessibili.

Quali sono le prospettive?

Io vedo un intero spostamento di asse verso l’Iran e l’Egitto che andrà affrontato dagli Occidentali con una visione molto più aperta. Il presidente egiziano Morsi (leader dei Fratelli Musulmani, ndr) potrebbe essere un ottimo alleato per gli Stati Uniti ma loro, con il loro atteggiamento, lo stanno facendo avvicinare all’Iran.

In quest’ottica un conseguente isolamento di Israele causerebbe nuove pressioni internazionali su Teheran?

Purtroppo stanno venendo al pettine nodi importanti. Il governo americano dovrebbe essere sufficientemente sensibile da aprire all’Iran, attraverso l’Egitto, senza abbandonare Israele. Facendo cessare quella che era chiamata la Crescente Sciita. Se crolla la Siria ci sarà bisogno di alleati per gestire la situazione. Ma in questo momento quali sarebbero gli alleati giusti? Ci si ritrova completamente scoperti, senza guardare ai cambiamenti e a una situazione sul territorio che sta mutando radicalmente.

A proposito di antiamericanismo e integralismo, come giudica gli ultimi eventi in Tunisia?

In Tunisia la situazione è molto importante e molto grave perché si sta cercando di mettere in discussione la marcia avanti in senso moderato della Fratellanza Musulmana. C’è un’élite vicina all’Occidente che è pronta alla cooperazione, ma una base più radicale che si sta affiancando ai salafiti. Se esiste un piano salafita è quello di impedire la democratizzazione di quest’area, perché nella loro ottica una Libia o una Tunisia democratica sarebbero un esempio pericoloso per i popoli sauditi. Il tabù principale dell’ideologia wahhabita è la democratizzazione di un Paese. Se vogliamo trovare un interesse comune è certamente quello di bloccare questo processo. Ma anche in questo caso bisogna operare dei distinguo. Gli uomini d’affari sauditi sono molto vicini a Saadi Gheddafi e stanno finanziando loro stessi i pro gheddafiani in Libia; diversamente in Tunisa, l’Arabia Saudita ha aiutato il governo di Ennahada, ma ci sono gruppi sauditi che aiutano i salafiti contro lo stesso governo di Ennahda.