Come sono cambiati i rapporti tra Iran e Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein?
Il rapporto tra Iran e Iraq è cambiato così come può cambiare il rapporto tra due paesi quando cade il regime di uno dei due, considerando inoltre che Saddam Hussein era il nemico principale dell’Iran. A contribuire ulteriormente al cambiamento del rapporto tra i due paesi, poi, c’è il dominio quasi totale dei partiti sciiti nei tre governi che si sono succeduti dal 2003 fino a oggi. È bene ricordare che la maggior parte degli sciiti – o meglio, dei partiti sciiti – sono stati “ospitati” in Iran per quasi un quarto di secolo. Oltre alla vicinanza tra i partiti sciiti iracheni e l’Iran, c’è poi da considerare il rapporto politico consolidatosi negli anni del regime di Saddam, una relazione divenuta amichevole in virtù della confluenza degli interessi.
L’ingerenza dell’Iran è cambiata?
L’ingerenza dell’Iran nella vita politica degli iracheni è diventata ancora più marcata e influente di prima. Questo porterà, non solo ora ma anche in futuro, a un grande squilibrio tra una parte dell’Iraq e la politica iraniana. La componente araba irachena, anche quella del mondo sciita, non vuole subire ingerenze iraniane, però l’assenza di un governo stabile e forte, rappresentativo di tutte le componenti, dà la possibilità all’Iran di continuare a esercitare un’influenza negativa, soprattutto nel sud del paese, dove la maggioranza della popolazione è sciita, ed in una parte di Baghdad.
Quali sono le differenze tra gli sciiti iracheni e quelli iraniani?
Innanzitutto va puntualizzata una differenza: gli sciiti iraniani sono di ceppo farsi, di cultura iranica, mentre gli sciiti iracheni, anche se condividono una comunanza di fede con i confratelli iraniani, per la maggior parte sono arabi e anche curdi. Magari in un primo momento può prevalere la fede comune, ma andando avanti emergeranno e prevarranno i contrasti tra una politica iraniana, finalizzata al dominio della regione medio-orientale, e una tendenza sicuramente più salutare per l’Iraq di restare nell’ambito del mondo arabo. Dunque, la differenza di fondo tra sciiti iraniani e iracheni, ovvero che i primi sono farsi e i secondi arabi, oggi è sopita – o forse, per dire meglio, coperta – dalla fede, ma un giorno certamente verrà fuori.
Che cosa significherebbe per l’Iraq una guerra americana contro l’Iran?
Sarebbe un disastro che si va ad aggiungere a quello attuale. L’Iraq rappresenta già un campo di battaglia per gli Stati Uniti, sia con l’Iran che con la Siria. Ma lo scoppio di una guerra trasformerebbe l’Iraq in un ostaggio in prima linea. L’Iran potrebbe utilizzare molti dei suoi seguaci in Iraq, a partire da tanti sciiti, per compiere attacchi contro la presenza americana o anche contro le istituzioni irachene.
Che cosa si può fare allora per scongiurare un’eventuale guerra?
Al momento si guarda con molto ottimismo – anche se si tratta di un ottimismo “cauto” – alla conferenza che dovrebbe svolgersi a Baghdad il 10 marzo. Parteciperanno anche l’Iran e la Siria, oltre che gli Stati Uniti e gli altri membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Questa conferenza rappresenta un primo passo per trovare una soluzione diplomatica, ed è l’effetto del rapporto della Commissione Baker – Hamilton. Naturalmente il presidente Bush non poteva accettare subito il suggerimento di coinvolgere Iran e Siria nel processo di pacificazione in Iraq. Però dopo pochi mesi dalla redazione del rapporto sta tentando quanto gli era stato suggerito. Inoltre la questione va di pari passo con il problema nucleare iraniano. Se le trattative si muovono verso un alleggerimento della tensione, di certo l’Iraq ne trarrà giovamento; viceversa ne subirà le conseguenze.
Gli Stati Uniti sostengono di avere le prove di un coinvolgimento dell’Iran in Iraq. Crede che si possa parlare di un coinvolgimento anche militare ed economico, di sostegno alla guerriglia anti-Usa?
C’è sicuramente un coinvolgimento iraniano: sarebbe stato stupido non pensare che vi fosse. Credo che neanche gli iraniani lo stiano nascondendo più. Il sostegno economico, militare e politico è evidente anche dalla capacità offensiva e dal controllo esercitato dalle varie milizie sciite nel sud del paese e a Baghdad: non potrebbero avere una simile efficacia altrimenti.
Una pacificazione o un allentamento della tensione tra Washington e Teheran potrebbe avere effetti positivi?
Certo, ma non penso che potrebbe avere effetti immediati. Ma sicuramente l’Iran, se si aprisse un varco diplomatico con gli Stati Uniti, non se la lascerebbe sfuggire per difendere le milizie irachene. È altrettanto vero, viceversa, che l’Iran non lascerà l’Iraq così facilmente, proprio perché rimane l’avamposto più importante per difendere il suo territorio da un eventuale attacco americano.
Crede che esista una spaccatura ai vertici dell’Iran?
Alcune dinamiche interne non sono così automatiche come apprendiamo dai mass media. Ahmadinejad non ha mai goduto dell’appoggio della maggioranza del popolo iraniano, né oggi è isolato. Piuttosto si tratta di un politico che rappresenta una tendenza specifica, sostenuta da parte della nomenclatura politico-religiosa iraniana. Di certo non agisce da solo, avendo alle spalle delle forze della società politica del suo paese, ed è pertanto soggetto ad “alti e bassi”.
Quindi è più debole?
Accentuare i toni della propaganda populista dimostra una sua debolezza. Le ultime elezioni amministrative hanno dato del resto un segnale chiaro. Però bisogna aspettare ancora per vedere se è davvero isolato. Ad ogni modo rimane il presidente dell’Iran e la questione è molto complessa per dare una risposta nell’immediato.
Esiste secondo lei la possibilità che l’Iraq diventi un paese fondamentalista come l’Iran?
Purtroppo sì. Se l’Iraq rimane un paese con un dominio quasi assoluto dei partiti o delle milizie sciite a partire da Baghdad fino all’estremo sud, si corre il rischio che questi partiti portino ad una fotocopia dell’Iran dei primi anni della rivoluzione di Khomeini. Già esistono intere zone tappezzate da gigantografie e slogan religiosi sciiti, dove le donne sono costrette a coprirsi da capo a piedi, e i ragazzi a vivere secondo criteri “rispettosi” dei dettami religiosi sciiti. Inoltre la forza d’urto che hanno le milizie sciite fa sì che non vengano fuori i momenti di contrasto alla fondamentalizzazione del paese. Perciò il rischio c’è e la democrazia, se di democrazia si tratta, è una democrazia zoppa, perché basata su parametri confessionali ed etnici e quindi quando un partito religioso è al potere deciderà sicuramente di portare avanti i dettami religiosi e non i programmi politici.
Allora come si può evitare un’eventuale fondamentalizzazione?
Bisognerebbe avere, sperando che questa fase di tensione e di mancanza di sicurezza passi, la possibilità di esprimere quelle forze laiche e democratiche che ora subiscono una repressione maggiore di quando c’era il regime di Saddam Hussein. Bisogna che questo paese si muova, ma non può farlo senza il sostegno dei paesi democratici nel mondo. Se si continua a guardare all’Iraq come ad una bandiera a tre colori, sunnita-sciita-curdo, si corrono due pericoli: la divisione del paese e la fondamentalizzazione dell’Iraq. Io confido nella forza laica e democratica dell’Iraq.