Professor Lagrini, secondo lei il basso tasso di partecipazione alle elezioni marocchine rappresenta una forma di protesta?
La partecipazione del 37% dei marocchini ha superato tutte le previsioni negative. La grande campagna dei mass media per convincere la gente ad andare a votare non ha prodotto gli effetti voluti, su 15.5 milioni solo 5.7 milioni hanno risposto positivamente. Bisogna ricordare che il tasso di partecipazione alle elezioni legislative ha subito un crollo preoccupante: 62.75% nel 1993, 58.30% nel 1997 e 52% nel 2002. La partecipazione politica è un pilastro del sistema democratico. L’astensionismo è dovuto alle pratiche sociali e politiche che ha conosciuto il Marocco nella sua storia, la gente preferisce stare alla larga della politica. È vero che il rifiuto di votare è una reazione all’operato dei partiti che, associati ai vari governi dal 1998, non hanno rispettato gli impegni presi con gli elettori. Ci sono forze (partiti, organizzazioni della società civile, intellettuali, giornalisti) che accusano i cittadini di sprecare una preziosa opportunità per cambiare la realtà.
Chi deve rispondere per questo status quo?
Penso che lo Stato abbia delle responsabilità. Insomma, nel passato la gente aveva paura di fare politica perché appartenere ad un partito era considerato un reato. È molto noto il ruolo negativo degli apparati dello Stato nei brogli elettorali, nell’indebolimento e nell’implosione dei partiti. Per questo abbiamo raggiunto la quota di 33 partiti. Dall’altro canto, i partiti non sono estranei alla situazione. La loro presenza è legata soltanto alle elezioni e non hanno garantito la democrazia interna tra i propri membri, rafforzando così l’immagine del deputato che bada solo ai propri interessi. Bisogna prendere sul serio il fenomeno dell’astensionismo, evitando paragoni sbagliati con i paesi occidentali che registrano una bassa partecipazione al voto. La loro democrazia è matura e consolidata mentre la nostra è alle prime armi. Assistiamo in alcuni paesi occidentali ad una ‘sazietà politica’ perché la pratica democratica è molto diffusa e la vita economica è soddisfacente.
Le elezioni in Marocco hanno posto il problema dei partiti come ‘comparse’ nel mondo arabo, cosa bisogna fare per venirne fuori?
Negli ultimi anni, molti paesi dell’Europa dell’Est e dell’America latina hanno scelto la democrazia come strumento di governo, realizzando seri cambiamenti. I paesi arabi, invece, si sono accontentati di ‘riforme’parziali e lente che non rispondono alle ambizioni dei loro popoli. Anzi alcune riforme come le consultazioni sono solo propaganda per lucidare l’immagine dei regimi all’estero, e questo è avvenuto grazie anche al concorso ignaro o consapevole dei partiti politici. Ad esempio, i partiti marocchini che fanno parte del governo non hanno potere su alcuni importanti ministeri come quelli degli interni o degli esteri. Ci sono istituzioni che dipendono direttamente dal Re.
Il partito della giustizia e lo sviluppo (Pjd) non ha ottenuto i 70 seggi pronosticati dai sondaggi pre-elettorali. Come spiega questo fallimento parziale?
È vero, le previsioni lo davano come il primo vincitore perché nelle elezioni del 2002 si è presentato solo in 51 collegi, conquistando 42 seggi. In queste elezioni invece, ha partecipato in 94 collegi ottenendo 46 seggi. Nella scorsa legislatura, i deputati del partito della giustizia e lo sviluppo hanno operato con serietà, assistendo costantemente ai lavori del parlamento. Il fatto di non partecipare al governo uscente e stare fra i banchi dell’opposizione è stato importante per avere consensi. In ogni modo il risultato ottenuto da questo partito smentisce la tesi secondo cui organizzare elezioni regolari e trasparenti con la partecipazione dei partiti islamici è pericoloso perché spalanca le porte del potere agli islamisti come è accaduto in Algeria nel 1991.
Durante la campagna elettorale si è parlato molto del leader del Pjd Saad Eddine el-Othmani come il nuovo Erdogan. Secondo lei era un trucco elettorale o un modo per tranquillizzare quelli che hanno paura degli islamici?
Il Pjd non suscita timori in Marocco. È riuscito a resistere alla difficile situazione creatasi, sul piano nazionale ed internazionale, dopo gli attentati terroristici compiuti negli ultimi anni. C’erano forti tentativi di confondere le formazioni politiche di matrice islamica con l’estremismo e il terrorismo. In ogni caso l’articolo 19 della nostra costituzione sancisce che il Re è il garante della continuità dello Stato. Pertanto non ci sono pericoli per la democrazia in Marocco.
È possibile applicare il modello turco (il Presidente dello Stato e il capo del governo sono islamici) nel mondo arabo?
I movimenti politici islamici in Turchia hanno accumulato importanti esperienze in un contesto laico estremamente difficile. Nonostante le pressioni subite, il partito di Erdogan ha usufruito del sistema democratico e ha fatto tesoro degli errori commessi dal partito Refah (fondato da Necmettin Erbakan e dal quale provenivano molti dei fondatori dell’Akp, ndr). Il partito guidato da Erdogan si è concentrato sulle grandi questioni economiche e sociali, evitando i dibattiti che riguardano il costume come il velo e giurando fedeltà alla laicità dello Stato. Per quanto riguarda il mondo arabo, non credo che si possa estendere il modello turco ai nostri paesi. Ci sono sostanzialmente due cause: non c’è democrazia reale che permetta ai partiti di matrice islamica di conquistare il potere, inoltre queste formazioni politiche non hanno ancora raggiunto la maturità nei programmi che propongono. Questa ultima constatazione non riguarda solamente gli islamici bensì tutti i partiti politici arabi.