La Carta Olimpica recita che “la pratica dello sport è un diritto umano. Ogni individuo deve avere la possibilità di praticare sport, senza discriminazioni di alcun tipo”. E pure la Convenzione sui Diritti del Fanciullo, peraltro sottoscritta anche dall’Arabia Saudita, riconosce ai bambini e alle bambine il diritto di praticare l’educazione fisica e partecipare ad attività sportive. Ma la politica saudita rispetto al divieto di fare sport per le donne è solo un aspetto della visione dominante nel paese, in fatto di diritti umani al femminile. Nell’ottica di un conservatorismo estremo lasciare che le donne pratichino un qualsiasi sport equivale a minarne la moralità.
Anche oggi con la presenza di due sportive ai Giochi, la preoccupazione è stata quella di sottolinearne la partecipazione in conformità alla legge islamica. “Le atlete dovranno indossare abiti modesti – ha dichiarato il principe Nawaf Al-Faisal, Ministro dello Sport e capo del Comitato Olimpico Nazionale Saudita – e non allontanarsi mai dai loro accompagnatori, né mischiarsi con gli uomini durante i Giochi”.
Il 17 luglio scorso il governo di Riyadh ha giocato l’ultima carta per mettere fine alla querelle scoppiata con Human Rights Watch quando il re Abdullah aveva dichiarato che non avrebbe consentito alle sue atlete di prendere parte alle Olimpiadi di Londra. Il Comitato Olimpico Internazionale era stato per questo sollecitato da HRW a escludere tutti gli atleti del paese dalla competizione, per le politiche discriminatorie adottate, in esplicita violazione della Carta Olimpica, che incoraggia la promozione di attività che favoriscano il principio di uguaglianza.
L’esplicito divieto del re era stato poi stemperato dalle stesse autorità, a due settimane dal via, trasformato in un principio di “buona volontà” che intendeva aprire alle donne, ma che purtroppo non poteva trovare seguito perché nessuna delle atlete aveva dimostrato un livello tale da guadagnarsi un posto alle Olimpiadi.
Proprio il giornale Al Sharq Al Awsat, di proprietà della famiglia Saud, aveva annunciato che nessuna donna si era classificata nei tre campi di competizione: atletica, pesistica e ippica. Per poi annunciare, a sorpresa, che l’Aabia Saudita avrebbe inviato due atlete a Londra.
“Consentire alle donne di competere sotto la bandiera Saudita alle Olimpiadi – ha commentato Christoph Wilcke, ricercatore di Human Rights Watch per il Medio Oriente – creerà un precedente importante. Ma senza cambiamenti di politica per permettere alle ragazze e alle donne di praticare qualsiasi sport all’interno del Regno, poco potrà cambiare per milioni di persone private di questa opportunità”.
In fatto di discriminazioni nei confronti delle donne, l’Arabia Saudita detiene uno dei peggiori record fra i paesi del mondo. Il sistema che assegna un tutore di sesso maschile alla donna, che può essere il padre, il marito, il fratello o persino il figlio, purché maschio, di fatto nega qualsiasi libertà di scelta individuale, ed anche per lavorare, studiare, sposarsi le donne hanno bisogno di un’autorizzazione formale. Basti pensare che non possono nemmeno tenere con sé il proprio documento di identità in originale, perché anche nel caso in cui decidessero di lasciare il proprio paese, dovrebbero comunque viaggiare accompagnate. Per le donne saudite, unico caso al mondo, vige anche l’interdizione alla guida dell’auto.
In questo contesto si inserisce anche il divieto di praticare lo sport. Nelle scuole statali, aperte alle donne dal 1960, l’educazione fisica non è prevista dai curriculum di studio per bambine e ragazze, e solo gli uomini possono appartenere a club sportivi, o lavorare nel settore.
Human Rights Watch ha realizzato un rapporto che analizza la situazione dal titolo “Passi del diavolo, diniego alle donne e alle bambine del diritto a praticare lo sport in Arabia Saudita”. Attraverso le interviste realizzate con le donne saudite e i funzionari sportivi internazionali, il documento rileva come il governo abbia di fatto allontanato sistematicamente dalle donne ogni possibilità di avvicinarsi allo sport: tutti gli edifici designati e le infrastrutture dedicate alle attività sono precluse al sesso femminile, come pure i club, i corsi di atletica, le professioni di istruttore, arbitro e ogni altra attività legata all’ambiente sportivo. Solo in alcune palestre private, è possibile dedicarsi al fitness, ma senza la possibilità di praticare nuoto per l’assenza di piscine disponibili, o atletica leggera, per la mancanza di campi da jogging riservati. Né tantomeno giochi di squadra. Se neanche questo bastasse a scoraggiare una donna dalla pratica sportiva, le quote associative sono talmente alte che in poche possono permettersele.
Inoltre anche gli organismi sportivi ufficiali del paese non prevedono alcun tipo di competizione femminile, in nessuna disciplina e a nessun livello.
Un altro aspetto della mancata pratica di sport tra le donne, non secondario, è legato al beneficio fisico e psicologico che porta l’attività fisica. Negli ultimi anni il tasso di obesità nel paese è cresciuto, in particolare fra le donne, e così anche le malattie ad essa correlate, come il diabete e le patologie cardiovascolari.
Secondo uno studio pubblicato nel 2005 dal prof. Mansour Al-Nozha, della Taibah University, su un campione di 9mila donne saudite fra i 30 e 70 anni, il 24,2% è in leggero sovrappeso, il 31,8% in forte sovrappeso e il 44% soffre di obesità grave, con una prevalenza di casi fra le residenti nei centri urbani piuttosto che nelle aree rurali.
Negli ultimi anni qualcuno ha provato a chiedere la partecipazione delle donne ad attività sportive proprio con una motivazione legata alla salute, più che alla competizione. Anche alcune personalità di spicco, come Shaikh Al’ Abbas Al-Hikmi, membro del Consiglio Alti studi religiosi, ha parlato della pratica dello sport come di una necessità islamica, mentre l’ex imam Adil Al-Kalabani ha appoggiato l’apertura di club sportivi femminili. Nonostante l’autorevolezza, queste voci sono rimaste fuori dal coro, e non hanno impedito, fra il 2009 e il 2010, il giro di vite sulle piccole palestre private, che hanno visto ritirarsi la licenza per aver aperto alle donne.
Al momento ciò che di più vicino ad una palestra viene tollerato è il cosiddetto centro di salute, collegato a strutture ospedaliere e con costi proibitivi.
Eppure l’Arabia Saudita vanta 153 club sportivi ufficiali, regolati da un’agenzia governativa, la General Presidency for Youth Welfare, che non ha mai affrontato la questione della pratica sportiva al femminile. La buona volontà dei singoli, già rara, è stata criticata e additata come esempio di immoralità, tanto da far abbandonare qualsiasi intento di apertura. E’ successo al businessman saudita, il principe Alawaleed Bin Talal, che aveva deciso di sponsorizzare la prima squadra di calcio femminile nel paese, la Jeddah Kings, nel 2009. Ma l’iniziativa non ha retto al peso della campagna mediatica quando il primo torneo organizzato con altre cinque squadre private aveva suscitato tutta l’ostilità possibile da parte dei conservatori.
A Londra 2012 le imprese sportive di Wujdan Shahrkhani nel judo, e di Attar Sarah nell’atletica, rappresenteranno l’Arabia Saudita, e con essa un grande peso, più che un simbolo, anche piccolo, di acquistata libertà.
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