Così Ankara mostra la via
Hugh Pope (Crisis Group) intervistato da Guido Rampoldi 20 aprile 2011

Quest’intervista è tratta dall’ultimo numero della rivista Reset (Numero 124, Marzo-Aprile 2011)

Secondo un recente sondaggio del centro-studi Tesev, i due terzi dei cittadini dei paesi arabi e dell’Iran considerano «un buon matrimonio tra islam e democrazia» la Turchia guidata dal partito musulmano, l’Akp, al governo dal 2002. L’attrazione araba è perfino ovvia se si considera che la Turchia offre quel che i regimi mediorientali sono incapaci di offrire: un effettivo Stato di diritto, un’economia vivace e capace di produrre opportunità per coloro che altrove sarebbero esclusi, e un governo che, nella percezione delle strade arabe, osa sfidare Israele e dissentire da Washington. Meno ovvio è che perfino la parte più dinamica del fondamentalismo arabo oggi subisca la fascinazione turca. Ma quanto è autentica questa folgorazione? Davvero il successo dell’Akp ha indotto parte dell’islamismo arabo a modificare le proprie coordinate ideologiche, e rinforzato lo scetticismo verso la lotta armata? Oppure questi ammiratori islamici della Turchia compiono una scelta semplicemente tattica, per risultare più accettabili agli occidentali e più presentabili nel mondo? Le risposte potrà darle solo il futuro. Ma proprio la storia dell’Akp, ci segnala Pope, dimostra come i partiti islamici siano molto più complicati, e molto più dinamici, di come li immaginiamo: «Per quanto anche in Turchia ci sia stato un terrorismo islamico – gruppi come Hezbollah, in anni recenti, od operativi locali di al Qaeda, che hanno compiuto stragi – questo non ha mai avuto legami con alcun partito. E anzi, potremmo dire che nei turbolenti anni Settanta i conservatori musulmani furono uno dei pochi gruppi politici che non cedettero alle suggestioni della lotta armata».

Però fino al 2001 quei conservatori musulmani ebbero un progetto integralista.

Senza dubbio. Un progetto non esplicito, perché questo li avrebbe messi fuorilegge. A fare dell’Akp una fonte di ispirazione per i musulmani democratici fu proprio la mutazione compiuta dal partito nel 2001, quando si separò dai conservatori di vecchio stampo e adottò un progetto modernizzatore che aiutava il processo di adesione della Turchia all’Unione Europea. Ma forse fu ancora più influente la consapevolezza che nessuna fazione turca – fossero i musulmani, i nazionalisti, la burocrazia laica o i militari – può governare la Turchia senza un sistema di pesi e contrappesi. Conta anche il fatto che il capo del governo è eletto dal popolo, e dunque appare in grado di scegliere una linea di politica estera effettivamente indipendente dall’Occidente.

Queste sono caratteristiche che non hanno a che fare con la religione.

Esattamente. L’interesse della regione per la Turchia ha più a che fare con il suo pluralismo politico che con la religione. E anzi, quello che rende attraente la Turchia per i mediorientali va al di là anche delle idee politiche. Tre quarti delle famiglie arabe oggi hanno almeno un prodotto turco nelle loro case. Perfino in paesi remoti come il Marocco, capita che tre canali televisivi mandino in onda nello stesso momento altrettante sit-com turche doppiate in arabo. Così quando gli arabi parlano di un modello turco, penso che intendano qualcosa di molto più ampio che un sistema politico.

Ma per tornare alla politica, ritieni che il modello turco sia davvero esportabile? Dopotutto la costruzione dello Stato-nazione ha seguito percorsi molto diversi in Turchia e nel mondo arabo.

Certo, ogni paese è differente, e la Turchia ha molte componenti uniche – non è mai stato conquistato dalle potenze coloniali, ha una lunga storia imperiale, e una lingua che viene da famiglia completamente diversa dall’arabo o dal persiano. Inoltre ha una prospettiva europea, nel senso di un reale processo di adesione all’Unione, che altri paesi del Medio Oriente possono solo sognare. In altre parole la Turchia non può essere un modello per altri Stati mediorientali. Ma elementi della sua esperienza sono certamente materia di studio per i vicini mediorientali, per esempio la privatizzazione dell’economia un tempo dominato dallo Stato, un’apertura dei mercati domestici orientata alle esportazioni, la trasformazione di un sistema a partito unico in un sistema multi-partito (anche se la Turchia ha ancora un lungo percorso da compiere per raggiungere la piena democrazia nel suo sistema politico e giudiziario) e la rimozione dei militari dal centro del sistema politico.

Abbiamo parlato dell’attrazione araba per la Turchia. Si direbbe che non sia un sentimento ricambiato. Almeno per ragioni storiche in Turchia il cittadino qualunque non ha una percezione molto lusinghiera degli arabi, un tempo tra i più arretrati sudditi dell’impero ottomano. Potremmo dedurne che la diplomazia userà gli arabi come pedine? Oppure ritieni che l’Akp nutra una reale solidarietà islamica per le nazioni arabe?

È vero, la Turchia ha in generale la tendenza a guardare dall’alto in basso le nazioni meno sviluppate al suo est – un po’ come fanno gli Stati europei. Ma allo stesso c’è una simpatia naturale per i confratelli musulmani, in particolare per quelli che sono oppressi, come i palestinesi, e c’è un naturale senso di orgoglio per l’interesse e il rispetto con i quali il Medio Oriente guarda alla Turchia, anche in confronto alla supponenza con la quale la guardano i maggiori paesi europei. Ora, è vero che una certa apparente nostalgia ottomana, in dichiarazioni e interventi dei leader dell’Akp, effettivamente ha fatto sorgere il sospetto che la Turchia possa perseguire un progetto politico nelle sue proiezioni mediorientali. Ma nessun paese arabo permetterà mai alla Turchia di tornare a esercitare un ruolo egemonico. E del resto, anche se si materializza un certo potere commerciale turco, la Turchia non progetta di riprendersi il Medio Oriente. Piuttosto, talvolta i capi dell’Akp parlano della Turchia come recitando una parte, quella di portavoce del mondo musulmano. Ma se la leadership dell’Akp ha un’ambizione, questa semmai è diventare un campione globale, non soltanto regionale e musulmano.

Nel tuo ultimo libro, l’eccellente Dining with al Qaeda, ricordi le difficoltà che avesti nello spiegare il Medio Oriente ai lettori, e alle redazioni cui facevi capo. Gli uni e le altre non gradivano notizie contrarie ai pregiudizi cui erano affezionati. E questi pregiudizi potrebbero spiegare la lentezza dell’Occidente nel comprendere quel che stava accadendo a Tunisi e al Cairo. Ritieni che quelle sollevazioni abbiano indebolito molti stereotipi?

Assolutamente. Questa non è la posizione del Crisis Group, ma mia personale: io credo che la sensazione che gli egiziani e altri si siano ribellati per difendere libertà personale, diritti, dignità, ha avuto un impatto profondamente positivo sull’idea che l’Occidente ha di quei paesi in particolare, e forse degli arabi in generale. Ovviamente la partita non è chiusa, una grave rottura della legalità in uno qualsiasi di questi paesi, o una nuova autocrazia che rimpiazzasse la vecchia, potrebbero ripristinare i vecchi stereotipi. Ma almeno il mondo ha avuto sotto gli occhi mediorientali che rompevano le vecchie categorie di «islam», «arabi» e «terrore».