Durante l’attacco israeliano a Gaza la voce meno ascoltata è stata sicuramente quella degli eterni incompresi. Gli arabi israeliani, coloro che hanno deciso di stare entro la linea del 1967 e ottenere così il passaporto israeliano ottenendo lo status di cittadini, seppur con alcune limitazioni in quanto arabi e non ebrei. Una componente che rappresenta il 20% della popolazione d’Israele e che, secondo il sondaggio National Resilience Survey 2008, condotto dall’Università di Tel Aviv, per il 43% si definisce “arabo-palestinese”, mentre solo il 15% si ritiene “arabo-israeliana” e il restante 4% “musulmano-israeliana”. Un dato che esprime chiaramente le difficoltà di questa minoranza nel darsi un’identità precisa, soprattutto in relazione al rapporto col popolo palestinese e allo Stato d’Israele.
In vista delle prossime elezioni politiche previste per il 10 febbraio, gli arabi israeliani si presenteranno in diverse liste autonome, già presenti anche nel precedente parlamento e di cui il Movimento arabo per il cambiamento é sicuramente il più rappresentativo. Un’alleanza che aspira a difendere nelle sedi politiche i diritti degli arabi israeliani, puntando a mantenere e rafforzare il legame con il popolo palestinese e sostenendo il processo di pace e la nascita di uno stato palestinese accanto a quello israeliano. Tra le maggiori richieste del Movimento, fondato e tuttora guidato da Ahmad Tibi, vi è la rivendicazione di una nuova politica di “discriminazione positiva” per favorire le pari opportunità per i cittadini arabi rispetto agli ebrei nel campo dell’occupazione lavorativa nei settori pubblici, come l’istruzione o la sanità.
Una presenza politica significativa, che allo stesso tempo dimostra sicuramente la buona volontà dello Stato di Israele di intrattenere un rapporto istituzionale di riconoscimento della minoranza araba, ma che al contempo evidenzia alcune grosse ambiguità, come denunciano i leader del Movimento arabo per il cambiamento, a partire dalle disuguaglianze su base religiosa tra ebrei e non ebrei in alcuni settori chiave della vita sociale ed economica. E ancora più evidente è stata la richiesta da parte dell’estrema destra israeliana di escludere lo stesso movimento di Tibi dalle elezioni politiche. Fortunatamente la Corte suprema ha respinto la richiesta, e il gruppo di Tibi ora si prepara a giocarsi una lunga battaglia per convincere gli arabi d’Israele a partecipare attivamente nelle prossime elezioni.
Una sfida democratica molto difficile e complicata, dato che la maggior parte degli arabi israeliani si sente molto legata alla causa palestinese, anche per le strette parentele con i palestinesi di Gaza o della Cisgiordania. Partecipare e votare alle prossime elezioni israeliane, soprattutto in un contesto come quello attuale, rappresenta un ennesimo sacrificio difficile da digerire, in contrasto apparentemente con la solidarietà dimostrata nelle ultime settimane con il popolo di Gaza. E questo Tibi lo ha spesso ripetuto, chiedendo al suo popolo uno sforzo per avere maggiore peso nello scacchiere politico di Tel Aviv. Una presenza araba in bilico. Cittadini in crisi d’identità, accusati talvolta sia da Israele che dal popolo arabo di ambiguità e tradimento.
E l’ultima vittima di questo fragile quanto complicato posizionamento è stato proprio l’ormai ex deputato arabo israeliano Azmi Bishara, condannato da un tribunale di Tel Aviv di alto tradimento per aver intrapreso rapporti con Hezbollah durante la passata guerra israelo-libanese e di fatto messo in esilio nella vicina Amman. Ora tra gli arabi d’Israele c’è chi vocifera sulla possibile stessa fine per Ahmad Tibi, reo di aver stretto la mano al presidente siriano Assad. Speriamo che almeno questa volta si facciano sentire i democratici israeliani. In nome dell’unica democrazia del Medio Oriente.