Quella cinese di Milano è una delle comunità immigrate più numerose, infatti nella capitale lombarda lavorano e vivono più di un quinto dei cinesi presenti in Italia. Nel comune risiedono circa 15mila cittadini e altrettanti in provincia. Comunità che, anagraficamente tra le più giovani, negli ultimi anni ha quadruplicato la propria presenza.
L’origine dell’immigrazione cinese tuttavia non è recente come quella di altre provenienze. Il nucleo storico risale agli anni Venti del secolo scorso e la maggior parte dei residenti a Milano proviene da piccoli villaggi del distretto di Qingtian, di Wencheng e di Wenzhou-Ouhai. In seguito, con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, i flussi migratori si affievolirono notevolmente e nella Cina di Mao divenne faticoso persino mantenere contatti epistolari coi parenti all’estero.
Gli insediamenti storici hanno avuto sviluppo intorno alla zona milanese di Canonica-Sarpi, tradizionale “quartiere cinese”, dove però, per molto tempo, la presenza degli immigrati è rimasta in sordina. Oggi molte botteghe si sono ingrandite e da anonimi laboratori hanno esposto ben visibili le insegne cinesi, caratterizzando ad esempio via Rosmini, via Messina, via Bramante, via Giordano Bruno, via Lomazzo e altre ancora. Sempre più numerosa difatti è la presenza dell’imprenditoria cinese, strada preferita rispetto al lavoro dipendente. Un’imprenditoria che oggi, accanto ai servizi tradizionali della ristorazione, del tessile e dei laboratori manifatturieri in conto terzi, è sempre più protagonista anche nei cosiddetti servizi “etnici”, ad esempio barbieri, alimentari, parrucchieri, agenzie immobiliari, agenzie di viaggio, oppure nella vendita al dettaglio, ad esempio ai venditori ambulanti.
Ma com’è la convivenza tra cinesi e italiani ora che la presenza numerica della comunità è cresciuta e i segni della coesistenza sono più visibili? E’ un rapporto sicuramente complesso, anche per una certa chiusura della comunità cinese. Sempre più però sono gli immigrati che si integrano. Uno di questi è Quing, 40enne da cinque anni a Milano, proprietario di un negozio di generi alimentari. “Molti pensano che abbiamo la mentalità chiusa – racconta – ma la nostra è solo una mentalità diversa. Ci vuole tempo per conoscerci un po’”. Quing fa riferimento soprattutto al cosiddetto guanxi, termine che indica una sorta di network di relazioni sociali stabili e durature sulle quali il cittadino cinese fa affidamento nei casi di bisogno, tra cui anche l’immigrazione che spesso consente a un immigrato di arrivare in Italia mediante “cooptazione”, per cui nei primi anni di permanenza sul territorio il compito principale diventa quello di saldare il debito contratto per emigrare.
Secondo Liang, proprietario di un ristorante tradizionale nella zona Sarpi, “la convivenza con gli italiani è difficile perché le leggi italiane sono lente e non sempre giuste, mentre i cinesi spesso non parlano l’italiano. Questo fa esplodere un risentimento sotterraneo soprattutto quando scoppia qualche caso di criminalità più evidente”.
Quelli che certamente sono meglio integrati, e sui quali bisogna puntare molti degli sforzi istituzionali, sono i componenti delle cosiddette “seconde generazioni”, ragazzi nati qui o arrivati giovanissimi, inseriti così bene a Milano da sentirsi a casa propria. Che studino o lavorino, si tratta di giovani che non rinnegano le proprie origini ma non si sentono nemmeno stranieri. “Certo – racconta Zhou, ragazzo ventenne originario della provincia di Sichuan e che vive a Milano da quando aveva dieci anni – arrivare qui da piccolo mi ha aiutato ad inserirmi. Chi è venuto da adulto, come i miei genitori, si trova bene ma forse non si sentirà mai italiano fino in fondo. Il problema più grande resta sempre la lingua. I miei genitori hanno un negozio di vestiti. A me piace quello che fanno, solo che in futuro lo immagino più in grande. Per questo ho deciso di studiare economa e commercio. Qui mi sento a casa, la mia ragazza è italiana, ma è chiaro che una parte di me sarà sempre cinese. Chi ha deciso però che questo sia uno svantaggio?”.
Zhang è una giovane con un diploma di ragioniera in tasca ma che di lavoro fa tutt’altro, la parrucchiera. “Nella vita – racconta – a volte si cambia idea, così ho fatto io. Sono arrivata in Italia che avevo quindici anni e ho faticato per imparare la lingua, ma dopo mi sono inserita ed è andato tutto bene. Lavoro nel salone di una signora italiana, imparo il mestiere da lei e intanto frequento un corso per parrucchieri. Metto i soldi da parte e tra qualche anno aprirò un salone tutto mio. Lo aprirò per gli italiani, per i cinesi e per chiunque vorrà farsi acconciare i capelli da me”. Se Zhang costituisce un esempio in positivo, ce ne sono di negativi. Come la presenza di saloni cinesi per lavare e acconciare i capelli per cifre dell’ordine di 6 euro, il che li rende estremamente competitivi ma nel frattempo fa sorgere anche domande circa la regolarità della manodopera, la sicurezza dei prodotti usati, la correttezza circa l’orario di lavoro e così via. E’ solo uno dei numerosi problemi dell’integrazione. Della quale, forse, le istituzioni dovrebbero occuparsi di più.