Questo testo è il secondo intervento di Michael Walzer nel dialogo svoltosi tra l’autore e la filosofa Nadia Urbinati. Il dialogo ha avuto origine dall’articolo di Urbinati “No al manicheismo, scelgo il dialogo come Bobbio”, pubblicato dalla rivista Reset nel numero 103 (settembre-ottobre 2007).
Cara Nadia,
ti ringrazio molto della tua risposta generosa. Certamente so che tu non hai intenzione di dialogare con i terroristi e i loro sostenitori e tu sai che non escludo l’islam nella mia visione del multiculturalismo – né lo fanno i miei amici: anche i più forti oppositori del radicalismo jihadista riconoscono che esistano versioni anti-jihadiste nell’islam. Un «pensiero assediato» può esistere nell’estrema destra, ma non lo vedo tra la sinistra di «Dissent». Come vedi, non siamo poi così distanti. Tuttavia abbiamo forse una visione differente del valore del dialogo. Lasciami utilizzare un’altra analogia. Ho preso parte (in maniera parzialmente esterna ma abbastanza partecipe) a molti dialoghi fra israeliani e palestinesi. Queste discussioni a volte erano scorrevoli, altre volte erano difficili; erano sempre interessanti, ma non erano mai – a mio parere – molto importanti. O meglio, i partecipanti a questi dialoghi, generalmente israeliani di sinistra e palestinesi moderati (dal momento che i palestinesi di sinistra sono stati cooptati dai nazionalisti e dai fanatici religiosi), hanno cose più importanti da fare che parlare fra di loro.
Gli israeliani devono impegnarsi all’interno delle loro comunità per creare un clima politico favorevole al ritiro dai territori occupati e alla sovranità palestinese. I palestinesi devono lavorare nelle loro comunità per dar spazio alla soluzione che preveda due Stati e che permetta una completa accettazione della legittimità di Israele. Lavoro duro per entrambe le parti, davanti al quale il dialogo è una cosa semplice, troppo semplice. Io mi preoccupo che i dialoghi che tu proponi si possano trasformare in un sostituto del duro lavoro che entrambe le parti, anche la parte musulmana, devono compiere nelle loro comunità. So che oggi esistono musulmani dissidenti in Europa e nei paesi arabi, ma non rappresentano una corrente abbastanza forte e significativa. Pensa per un momento alla critica «sottile» (thin), alla creatività intellettuale, alla levatura morale dei dissidenti sovietici ed Est – europei degli anni passati: non c’è niente di simile ora nell’islam – eccetto forse in Iran. Sono stato recentemente in Turchia, dove ho incontrato alcuni turisti iraniani (in un luogo turistico, non in un dibattito politico), che erano contrari al loro governo e pronti a discutere. Erano profondamente pro-americani e sostenitori entusiasti di George Bush, ma anche sottilmente critici verso gli europei (mi hanno detto che non avrebbero visitato l’Europa) perché si schierano troppo facilmente dalla parte dei loro oppressori.
I dissidenti hanno un lavoro da compiere nei loro paesi – e possono farlo: la dissidenza interna ha inferto duri colpi alla legittimità dei regimi comunisti. Ma è possibile che siamo stati per loro di maggior aiuto quando ci siamo mostrati fortemente ostili ai loro oppositori – anche attraverso l’impegno nelle nostre comunità, che consiste oggi nello sviluppare una politica della differenza e nel trovare modi di ospitare, ma anche di integrare, gli immigranti musulmani. Dialogare con persone come me e te non è di grande aiuto per i dissidenti, ma si tratta solo di riposo e di svago; chi cerca di riposarsi probabilmente non sta facendo il lavoro che dovrebbe compiere. Questo lavoro è forse pericoloso in alcuni settori dell’islam odierno e forse possiamo offrire loro un po’ di riposo e svago; ma di questo si tratta e così dobbiamo chiamarlo, senza pretendere che i nostri interlocutori siano i Milosz, i Solzhenitsyn, i Sinyavsky, e i Daniel del mondo musulmano.
Sono pronto a scommettere che queste persone, se esistono, ammirano in segreto il lavoro di Paul Berman. In ogni caso, sempre che esistano, dovrebbero portare avanti il loro lavoro e noi il nostro. Se sbaglio, e se loro pensano invece che il dialogo sarebbe d’aiuto per noi come per loro, sarei felice di prendere parte alla discussione, ma vorrei anche sapere in che modo li potrei aiutare e che risultati otterrebbero.
Con i migliori saluti, Michael
PS. Una nota a margine alla mia lettera. Avrei dovuto infatti menzionare che sarei stato completamente favorevole allo sforzo compiuto da Bobbio nel promuovere il dialogo con i comunisti italiani. Certo, non si può mai sapere come ci potremmo comportare in un altro luogo e in un’altra epoca, ma i tuoi argomenti mi sembrano giusti. Tuttavia, quello era un vero partito, con una base di massa e una tradizione di lotta antifascista – e, forse più importante, con una grande tradizione intellettuale alle spalle, mentre mi sono opposto al dialogo con i comunisti americani, che non erano un vero partito, non avevano nessuna base, ma erano burattini dei sovietici e loro apologeti – senza alcuna tradizione intellettuale seria. Un dialogo con i comunisti americani gli avrebbe dato una patente di rispettabilità, che non si meritavano.
Michael Walzer insegna Scienze sociali all’Institute for Advanced Study di Princeton. E’ uno dei protagonisti del dibattito pubblico in America e in Europa. Dirige la rivista Dissent e collabora al periodico The New Republic. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Ragione e passione (Feltrinelli, 2001), Sulla tolleranza (Laterza, 2003), Sulla guerra (Laterza, 2004).
Traduzione di Antonella Santilli