Beirut, Libano
A due mesi dalle elezioni legislative e a sei settimane dalla nomina di formare il governo affidata a Saad Hariri, leader della maggioranza parlamentare, il Libano non ha ancora il nuovo esecutivo. E la stessa coalizione "antisiriana", che dovrebbe dominare il consiglio dei ministri, sembra sfaldarsi a causa della recente defezione del leader druso Walid Jumblat, fino a ieri acerrimo nemico della Siria. E Damasco, per ora, ringrazia.
Anche se la costituzione non mette fretta al premier designato, non ponendo alcun limite di tempo al periodo delle consultazioni, è ormai vicina la scadenza informale prevista per l’annuncio della nascita dell’esecutivo: entro il 22 agosto, data d’inizio del digiuno del mese islamico Ramadan, Hariri dovrebbe salire al palazzo presidenziale di Baabda e consegnare al presidente Michel Suleiman la lista dei ministri. Le consultazioni potrebbero però protrarsi anche oltre. In Libano, dove l’osservanza dei precetti religiosi è un importante fattore di legittimazione politica, una convenzione non scritta vuole che durante i 28 giorni di digiuno (che quest’anno coincidono con i caldi mesi d’agosto e settembre) nei palazzi istituzionali non si prenda nessuna decisione cruciale per il Paese.
Il sunnita Hariri, leader ed erede politico dell’ex premier Rafiq Hariri ucciso nel 2005, ha ricevuto l’incarico il 27 giugno, 20 giorni dopo la vittoria elettorale riportata dalla coalizione guidata dal suo partito su quella capeggiata dal rivale movimento sciita Hezbollah (71 seggi a 57 su un totale di 128). Per tutto luglio, a Beirut nessuno ha pronunciato la parola "ritardo" nella formazione del governo, sottolineando invece l’esigenza di Hariri di rispettare i "tempi fisiologici", necessari per le consultazioni, non solo con i partner e avversari politici locali, ma anche con i diversi attori regionali: come è tradizione, Damasco, Riyad, Teheran, Washington e Parigi sono, assieme a Beirut, le capitali dove si svolgono le consultazioni per la creazione del prossimo governo libanese.
Dopo gli accordi interlibanesi di Doha del maggio 2008, che hanno di fatto ufficializzato la supremazia militare dell’ala armata di Hezbollah in Libano, le anime politico-confessionali del Paese dei Cedri hanno aderito a un principio già proposto più volte nel recente passato: il governo deve essere di "unità nazionale". Ovvero deve esser composto da rappresentanti non solo di tutte le principali comunità confessionali, ma anche da una quota minoritaria (un terzo) di membri dell’opposizione. In questo caso, di Hezbollah e dei suoi alleati.
Gli attori libanesi – si sa – hanno ciascuno un proprio padrino regionale: Hezbollah ha l’Iran e Hariri ha l’Arabia Saudita; Amal, l’altro movimento sciita subordinato al Partito di Dio, è sostenuto dalla Siria, che a sua volta protegge numerosi leader minori libanesi confluiti nella coalizione guidata da Hezbollah. Gli Stati Uniti dal canto loro appoggiano l’alleanza capeggiata da Hariri, nel quale figurano anche i due partiti cristiani (Forze libanesi e Falangi libanesi), tradizionalmente anti-siriani.
Nella maggioranza di Hariri figurava, fino a pochi giorni fa, il partito del leader druso Walid Jumblat. Tradizionalmente ‘alleato del più forte del momento’ e per questo definito "il camaleonte", il 2 agosto scorso e dopo settimane di graduale riposizionamento, Jumblat ha annunciato la sua uscita dalla maggioranza. Lo ha annunciato in una conferenza stampa che forse sarà ricordata nelle cronologie della storia del Libano contemporaneo: convocata nell’albergo Beau Rivage, poco distante da dove fino al 2005 si trovava uno dei carceri dei servizi segreti militari siriani, la conferenza ha visto Jumblat dichiarare la fine della sua alleanza col fronte antisiriano. In nome di principi di un mondo che non sembra esistere più.
Gli appelli al "panarabismo", al "socialismo arabo", alla "terza via" ma soprattutto alla "causa palestinese come madre di tutte le cause arabe", sono risuonati nella sala del Beau Rivage con tutta la loro polvere da museo: il leader egiziano Nasser è morto, così come il palestinese Yasser Arafat; l’Urss è crollata e il presidente siriano Hafiz al-Asad, capofila del "fronte del rifiuto", è sepolto da nove anni. Per mascherare il suo ennesimo ribaltone, Jumblat, uno dei politici più abili all’ombra dei Cedri e che negli ultimi anni ha rivolto feroci accuse a Damasco e alla sua politica "egemonica" in Libano, ha così cercato di gettare fumo negli occhi.
L’effetto immediato delle parole di Jumblat è stata la partenza di Hariri per l’estero: come offeso dal gesto, poche ore dopo la conferenza stampa del Beau Rivage, il giovane premier incaricato ha lasciato Beirut e il suo compito di formare il governo, ufficialmente per recarsi "in vacanza privata". Hariri è tornato a Beirut solo lo scorso 10 agosto, dopo alcuni giorni passati nel sud della Francia "a meditare – secondo quanto affermato da Fuad Siniora, premier uscente e uomo degli Hariri – lontano dalla retorica politica in voga in Libano". Assente Hariri, sono state formalmente sospese le consultazioni per la creazione del governo. Queste sono riprese solo formalmente al suo ritorno, ma senza nessun progresso reale.
La presa di posizione di Jumblat ha scosso però anche le capitali regionali: dopo le dichiarazioni del "camaleonte", l’Arabia Saudita ha immediatamente inviato a Beirut, a incontrare il leader druso, il suo attuale ministro del turismo ed ex ambasciatore in Libano, Abdallah Khoja, che si trovava in missione nel lontano Marocco. Pressato da Riyad, Jumblat è dunque andato a incontrare il presidente Suleiman, assicurandogli che il suo riposizionamento non significa l’uscita dalla maggioranza parlamentare e che, comunque, questa nuova presa di posizione non intralcia il processo di formazione dell’esecutivo.
Da Damasco, per ora non è giunta nessuna reazione ufficiale. E’ evidente però che, qualunque sarà la composizione del prossimo esecutivo, la Siria ha tutto da guadagnare dalla frantumazione del fronte antisiriano. Anche solo un ulteriore ritardo nella creazione del governo fa gioco a Damasco, per cui un Libano politicamente diviso e istituzionalmente debole è il miglior che si possa desiderare.
Dopo anni di ostracismo da parte della Francia di Jacques Chirac e degli Stati Uniti di George W. Bush, la Siria da mesi è tornata al centro della diplomazia mediorientale, incoraggiata dalle aperture di Barack Obama e, ancor prima, di Nicolas Sarkozy. Anche il suo acerrimo rivale regionale, l’Arabia Saudita, è stato indotto a riaprire il dialogo con Damasco in nome della "riconciliazione interaraba". La Siria, come è tradizione, sa aspettare. Tanto, per fare il governo in Libano, c’è sempre tempo. Anche dopo Ramadan.