Per non attirare eccessivamente l’attenzione sulla rivolta, nel 2011 si era deciso di annullare il Gran Premio, e, nonostante il continuo aumento del numero delle vittime (che stando ai dati dei manifestanti sono più di novanta), le vicende di Manama sono passate quasi del tutto inosservate tanto in Occidente che in parte del mondo arabo. A chiudere un occhio sono stati non solo i petromonarchi del Golfo, ma anche la Casa Bianca che in Bahrein ha il quartier generale della V Flotta, una base che funge da argine per l’espansione dell’Iran nella regione.
“L’anno scorso le autorità locali avevano deciso di evitare che la Formula 1 corresse sul circuito del Bahrein per questioni politiche e di sicurezza. Ma la rivoluzione scoppiata all’epoca non si è mai fermata in questi mesi. Sono stati i mezzi di informazione che non l’hanno coperta perché preoccupati di difendere interessi particolari e concentrati a raccontare esclusivamente quanto stava accadendo in Libia e in Siria” spiega Nazeeha Saeed, attivista locale, corrispondente di France 24 e Radio Monte Carlo Duwaliya. Lo scorso maggio Nazeeha è stata vittima della violenza della polizia, arrestata e torturata dalle forze dell’ordine a causa dei suoi servizi giornalistici sulle manifestazioni anti-regime.
La rivolta non sembra intenzionata a fermarsi, eppure nel corso dell’anno la famiglia reale ha annunciato delle riforme. Che impatto hanno avuto?
Quelle del regime sono state riforme cosmetiche, non reali. Ci sono stati alcuni cambiamenti nella costituzione, ma non in quelle questioni ritenute rilevanti dall’opposizione. Il governo ha anche ammesso di aver represso violentemente le proteste, eppure non ha cambiato la sua attitudine. I reali hanno detto che si sarebbero affidati a consiglieri americani e inglesi per riformare la struttura della polizia, ma le forze di sicurezza non smettono di essere crudeli contro i manifestanti. I prigionieri politici restano nelle carceri e i medici continuano ad essere processati con l’accusa di aver aiutato o soccorso gli attivisti.
Alla vigilia del Gran Premio, andando a visitare il circuito, il principe ereditario Salman al-Khalifa ha detto che esiste una grande differenza tra i manifestanti e quanti hanno creato problemi in occasione della corsa. Concorda?
Gli attivisti portano avanti da più di un anno una rivolta pacifica. Molti di loro continuano a marciare disarmati. Ciononostante ci sono anche quanti, esasperati dalla repressione quotidiana del regime, hanno iniziato a lanciare molotov per rispondere agli attacchi che le forze di polizia lanciano sui loro villaggi ogni notte. Il fronte rivoluzionario però è unito e avanza le stesse richieste.
Nelle settimane che hanno preceduto il Gran Premio, il web è tornato ad essere uno strumento attraverso il quale catturare l’attenzione internazionale. L’hashtag #BloodyF1 (Insanguinata Formula 1) è rimbalzato da un social network all’altro non solo in Medio Oriente, ma in tutto il mondo. Quale è stato il messaggio da veicolare?
Anche in Bahrein i nuovi media sono importanti per diffondere messaggi sovversivi e diventano indispensabili per organizzare manifestazioni di dissenso. Etichettando i messaggi con #BloodyF1, gli attivisti hanno voluto inviare un’informazione chiara: il gran premio che si sarebbe tenuto sarebbe stato insanguinato dalla repressione alla quale le forze di polizia condannano manifestanti. Proprio alla vigilia della corsa è morto l’ennesimo martire, Saleh, un trentasettenne caduto nelle mani della polizia. Organizzando la corsa di Formula 1 il regime vuole recuperare la sua immagine e dire al mondo intero che in Bahrein va tutto bene. I reali vogliono mostrare che non ci sono più i problemi che lo scorso anno hanno impedito lo svolgimento della gara, ma non è così.
Mentre le macchine correvano e gli attivisti manifestavano, le organizzazioni umanitarie hanno lanciato appelli per salvare Abdellhadi al-Khawaja, il fondatore del Gulf Center of Human Rights, divenuto uno dei volti più celebri della rivolta. Condannato all’ergastolo per aver complottato contro la monarchia, da due mesi Abdelhadi porta avanti uno sciopero della fame che rischia ora di condurlo alla morte. A seguito delle recenti proteste una corte di appello di Manama ha deciso di riesaminare il suo caso, anche se non è ancora chiaro se la sentenza finale potrà portare al rilascio di Abdelhadi. Quali sono le reazioni popolari a questo caso?
Abdelhadi è da anni un attivista conosciuto in tutto il mondo per il suo impegno nel campo dei diritti umani. Dopo anni di esilio, l’anno scorso ha preso parte alle manifestazioni contro il regime, chiedendo a gran voce un cambiamento democratico. Come molti altri attivisti, Abdelhadi è stato arrestato per aver espresso la sua opinione. Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ne ha chiesto il trasferimento in Danimarca per questioni mediche. Eppure le autorità locali hanno impedito lo spostamento. Siamo tutti molto preoccupati per la sua sorte e per quella della sua famiglia. Qualora Abdelhadi dovesse perdere la vita, la reazione popolare sarebbe molto forte. Ci sarebbe un incremento delle azioni violente e il numero dei morti potrebbe aumentare vertiginosamente.