Liberi ma non occidentalizzati, la “terza via” del giornalismo arabo
Adel Iskandar 16 July 2008

Questo testo è il discorso tenuto dall’autore alla Conferenza internazionale di Doha, organizzata in Qatar da Reset Dialogues on Civilizations il 26 febbraio 2008.

In un’epoca di infinito regresso, cresce la schiera degli esperti di media, degli specialisti di sviluppo mediatico, nonché dei rappresentanti di istituzioni politiche occidentali che si esprimono sullo stato del giornalismo arabo. Bloccate tra la retorica accusatrice e quella elogiativa, gran parte di queste voci hanno concluso che, nonostante la crescita nel numero delle fonti, le loro origini, il contenuto, le alleanze e i mercati cadono tutti nel dominio dell’ideologicamente maligno e giornalisticamente anemico. Ciò ha giustificato un sostanziale e consistente numero di istituzioni (governative, non governative, appaltatrici e subappaltatrici) il cui scopo è offrire un rimedio e un’assistenza per sostenere e migliorare il giornalismo arabo. Non voglio soffermarmi su queste iniziative, quanto piuttosto porre l’attenzione sulle premesse su cui esse si fondano.

Gran parte del dibattito è, in maniera esplicita o implicita, un effetto collaterale degli eventi dell’11 settembre, suggerendo così che è in corso una battaglia di idee decisiva tra le news narratives (immaginari creati dall’informazione – Ndt) del mondo arabo e dell’Occidente. Questo fatto ha alquanto rinvigorito, in entrambe le regioni, la polemica sui media e sui loro diversi approcci all’informazione. In realtà, queste discussioni sono precedenti all’11 settembre e sono piuttosto lo sviluppo di un sostanzioso numero di testi che prendevano spunto sia dalla teoria della dipendenza che dalle tradizioni dell’imperialismo culturale, che hanno influenzato anche i tentativi di descrivere e categorizzare i sistemi mediatici regionali. Per esempio, Awatef Abdelrahman, studiosa di media e direttrice del dipartimento di giornalismo presso l’università del Cairo, metteva in discussione, già nel 1989, la tipologizzazione proposta dall’americano William A. Rugh nel libro The Arab Press: News Media and Political Process in the Arab World, perché imponeva al mondo arabo teorie occidentali sulla stampa. L’autrice sosteneva, inoltre, che Rugh non considerava la possibilità che i media della regione potessero essersi modellati sulla base della specifica storia sociale e culturale del mondo arabo.

Decenni di colonialismo occidentale e numerose attività militari straniere nella regione hanno gettato le basi per la pubblicazione di una serie di lavori che affrontano il problema della relazione tra i due sistemi mediatici, occidentale e arabo. Nella maggior parte dei casi, entrambi i sistemi sono considerati separati e distinti. In realtà, molti testi scritti nel mondo arabo vedono nei media occidentali una minaccia. Sempre Abdelrahman esamina fino a che punto i media arabi siano in grado di confrontarsi con la «propaganda sionista», un modello di giornalismo arabo che gli osservatori occidentali sembrano avere trascurato. Analizzando il ruolo rivestito dai giornalisti nel produrre cambiamenti sociopolitici di fronte a minacce esterne percepite (o reali), la studiosa sottolinea una storia sociale che è, invece, assente nella discussione occidentale sulle caratteristiche dei media arabi. La sua valutazione suggerisce pertanto che il giornalismo arabo costituisca, in questo senso, una stampa alternativa e rivoluzionaria che promuove libertà, autonomia e indipendenza.

Anche se per molti, in Occidente, il ruolo chiave della programmazione occidentale in lingua araba è quello di favorire una maggiore libertà per i media della regione, gli studiosi arabi tendono a vedere le cose in maniera diversa. Alcuni importanti analisti ritengono che la programmazione di governi stranieri (o quella che il governo degli Stati Uniti definisce public diplomacy) sia, in realtà, un eufemismo del termine propaganda. Tre sono le espressioni che comunemente si usano nei media arabi per riferirsi alla public diplomacy. La più neutrale di queste è una traduzione letterale del termine, ovvero al-diblomasiya al-sha’biya. La seconda, che è al-i’lam almuwajah, si traduce con «media direzionali». Infine, la terza, Al-ikhtirak, è la più comune e anche la più sovversiva. Essa, infatti, si traduce in «penetrazione». In senso freudiano, questo termine indica la violazione e l’espropriazione del corpo e della mente, soprattutto quando viene utilizzato come al-ikhtirak al thihny (penetrazione della mente). In altri testi sui media arabi, come lo studio di Abdelrahman sul «broadcasting sionista» rivolto al mondo arabo, la nozione di ikhtirak è intesa non solo come una violazione della mente dello spettatore, ma anche come una forza transnazionale che «penetra» i confini politici. È dunque importante comprendere come gli studi sui media arabi nella regione abbiano costruito e riprodotto un senso comune di appartenenza nella classificazione dei media arabi. Come risposta al broadcasting straniero e alla percezione di un progetto mediatico imperialista, la stessa espressione «media arabi» arriva a denotare una tradizione giornalistica panaraba con un senso comune di appartenenza che è componente necessaria per ogni discussione sulle tipologie dei mezzi di comunicazione arabi.

La tesi secondo cui i media arabi sarebbero un modello di de-occidentalizzazione ha prodotto una litania di analisi che esaminano la possibilità che i media arabi costituiscano o meno un modello alternativo genuino. Un esempio interessante riguarda i diritti dei giornalisti nel mondo arabo. In un appello del 2004 per la protezione dei loro diritti si afferma il sogno di “stampa libera per una nazione libera” in Egitto. Come ci si aspetterebbe, l’autore sostiene che questo desiderio sia realizzabile solo grazie alla solidarietà delle unioni professionali, dei sindacati e al sostegno pubblico. Tuttavia, contrariamente alle norme occidentali, l’appello contesta i «miti» occidentali dell’oggettività e l’eccessiva fiducia attribuita dal giornalismo arabo ai modelli occidentali, sia in termini di linguaggio che di stile; esso afferma, inoltre, che l’ambiente ideale dovrebbe assicurare ai giornalisti completa libertà e protezione, ma anche richiedere loro responsabilità e impegno nei confronti della nazione. La sua visione di un giornalismo arabo florido è fondamentalmente in conflitto con qualsiasi modello americano. Invece, il suo entusiasmo per ciò che egli definisce la teoria della «libertà-responsabilità» araba della stampa lo porta a suggerire che questa possa rappresentare un nuovo modello per il giornalismo della regione e servire come esempio per il mondo, invertendo così il flusso unidirezionale dei principi dell’informazione dall’Ovest all’Est.

Nonostante ciò, le concezioni prevalenti secondo cui i sistemi mediatici occidentali sono in rotta di collisione con i loro rivali nel mondo arabo, in realtà, riaffermano e cristallizzano la distinzione categorica tra i sistemi di comunicazione «qua» e «là». Ciò è evidente, ad esempio, in un significativo numero di scritti su Al-Jazeera. La costruzione di Al-Jazeera come rete non professionale e incendiaria, dei media arabi nazionali come autoritari e retrogradi, dell’intrattenimento dei canali privati come monotono e intorpidito può produrre un’immagine singolare dei media della regione che è irrecuperabile. Altrove, i media arabi sono visti come una forza positiva – l’«Altro» che si oppone vis-à-vis alla controparte occidentale. La crescita di Al-Jazeera come principale esportatrice di contenuti arabi caratterizza spesso in maniera importante queste descrizioni, dove un approccio contro-egemonico, apparentemente risoluto, pone sfide significative all’ordine globale dell’informazione. La visione secondo cui Al-Jazeera offre un modello variabile, estraneo alle classiche ricerche «occidento-centriche», si estende fino agli studi di comunicazione di massa dove il particolare ordine istituzionale e politico-economico del network di Al-Jazeera è ritenuto inadatto agli approcci epistemologici e metodologici della ricerca tradizionale sui media.

È proprio sulla base di queste premesse, e a questo punto, che le iniziative di sviluppo e sostegno dei media occidentali entrano in campo e offrono una salva di apertura nella campagna per trasformare i media arabi. Dato che molti di questi progetti si concentrano sulla trasformazione dei sistemi di comunicazione arabi in qualcosa di simile alle istituzioni occidentali private, orientate al profitto, con una prospettiva oggettiva sulla costruzione e produzione di notizie, essi finiscono spesso per non cogliere la vera essenza di ciò che rende i media arabi intrinsecamente postcoloniali. Perciò l’idea secondo cui i mezzi di comunicazione arabi hanno una responsabilità e un imperativo contro-egemonici e anti-imperialisti viene spesso contrapposta alla professionalizzazione del giornalismo contemporaneo. L’obiettività è considerata inconciliabile con la funzione di patrocinio. I media governativi e le agende alternative pongono, allo stesso modo, un problema per chi sostiene l’obiettività. Se, nell’insieme, l’influenza dei media occidentali nella regione (fin dai primi giorni di Radio Bari) è riuscita a creare traccia di istituzioni mediatiche occidentali – Al-Jazeera e Al-Arabiyah ne sono esempi celebri – il compito di tenere la prospettiva «araba» al di fuori di questi mezzi di comunicazione è diventato sempre più scoraggiante e infinitamente improbabile. Di conseguenza, le agenzie di aiuto, assistenza e sviluppo dei media che operano nel mondo arabo e i loro partner nella regione non falliranno di certo nel breve periodo. Nel frattempo, paradossalmente, è in continua crescita il numero dei telespettatori che, in tutto il mondo, si rivolgono ai mezzi di comunicazione arabi per un’interpretazione correttiva e alternativa degli eventi.

Adel Iskandar è esperto di media mediorientali e co-autore di “Al-Jazeera: The Story of the Network that is Rattling Governments and Redefining Modern Journalism”.

Traduzione di Daniela Conte

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