Sono moltissimi gli analisti che concordano sul fatto che la crisi finanziaria in corso avrà delle conseguenze negative a livello planetario. Insomma niente sarà come prima. Quindi conta davvero poco fare la genealogia del disastro, individuando l’origine del crollo nei mutui americani subprimes. Ormai l’effetto domino sui mercati finanziari e sull’economia reale nel mondo è un dato di fatto. È la conseguenza logica della globalizzazione dei mercati senza regole. Tuttavia la cosa certa è che i danni non saranno soltanto economici, ma anche sociali e politici. Da qui nasce l’interesse per capire come sta reagendo il mondo arabo a questa crisi: ci sono strategie economiche e politiche in grado di fronteggiare la crisi o al contrario c’è il rischio che i leader arabi usino questo tsunami finanziario come alibi per giustificare i fallimenti recenti e futuri? Dalle prime osservazioni e constatazioni, ci sembra che la situazione sia preoccupante e che i rischi siano davvero seri e concreti. Prendiamo in esame due questioni:
Primo. Il crollo dei prezzi del petrolio ha colpito molti paesi arabi, soci del’Opec. Purtroppo l’esperienza ci insegna che il petrolio arabo ha sempre deluso le aspettative di sviluppo e di benessere delle popolazioni. Ricordo ancora il grido di rabbia e di frustrazione di Rachid, mio amico del liceo ad Algeri: perché sono povero e il nostro paese è ricco?! La rendita petrolifera ha generato un sistema clientelare fondato sulla corruzione sia in Algeria che nei paesi del Golfo. L’obiettivo principale dei regimi è sempre lo stesso: mantenere il potere a tutti i costi. Il grande pericolo però, nasce quando scarseggiano le risorse finanziarie e non c’è più trippa per i gatti. Le lotte intestine diventano una mina vagante che minaccia sia la politica che l’economia, perché nessuno è disposto a rinunciare ai privilegi. Le caste, si sa, sono continuativamente avide.
Secondo. La crisi economica mondiale attuale può essere usata come pretesto per cancellare dall’agenda la democratizzazione del mondo arabo. Quante volte abbiamo sentito i nostri leader dichiarare che la democrazia è un lusso che non possiamo permetterci oppure che noi non siamo ancora pronti per la democrazia, che ci sono altre priorità come la lotta all’analfabetismo, alla povertà, ecc. Cosa è stato fatto finora? Davvero poco. Il mondo arabo è rimasto molto indietro nel riformare il sistema politico. Addirittura abbiamo assistito a delle forzature, come la comparsa della Repubblica ereditaria: un Presidente che lascia il potere al figlio come nelle monarchie. Il caso più eclatante è la Siria, e purtroppo non sarà unico, perché il ‘modello siriano’ piace molto al colonnello Gheddafi, al Presidente egiziano Hosni Mubarak e al leader yemenita Ali Abdallah Salah.
La democrazia invece è una priorità assoluta, perché è un mezzo indispensabile per controllare il buon funzionamento delle istituzioni. La separazione dei poteri è una garanzia per evitare l’instaurazione di regime totalitari. I partiti di opposizione servono per vigilare sull’operato dell’esecutivo. Infine, la stampa, il quarto potere, deve essere indipendente dallo Stato, per dare spazio al dissenso e all’esercizio dei diritti fondamentali come la libertà di espressione. Oggi il mondo arabo è di fronte ad una sfida epocale. La crisi finanziaria in corso ha già messo in discussione la gerarchia geopolitica. Il nuovo ordine mondiale, nato dopo il crollo del’Unione Sovietica e guidato in modo unilaterale dagli Stati Uniti, è in profonda crisi. Ci sono nuovi attori come l’India e la Cina che entrano nella scena internazionale. La classe dirigente araba non può più continuare il gioco degli alibi perché prima o poi le popolazioni si ribelleranno. A quel punto il tempo sarà ormai scaduto.
Amara Lakhous, scrittore e antropologo italo-algerino. Residente a Roma dal 1995. Autore di “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio”, e/o, 2006.